Ore 14, bimba morta di stenti: povera Pifferi in mano a tanti pifferai

Rai 2, il direttore di Affaritaliani.it Angelo Maria Perrino ospite a Ore 14

Il direttore di Affaritaliani.it Angelo Maria Perrino è stato ospite oggi, martedì 27 febbraio, del programma “Ore 14” condotto da Milo Infante su Rai 2. 

Tanti i temi di attualità trattati, così come gli episodi di cronaca affrontati. A iniziare dal tragico femminicidio a Lucca di Maria Ferreira, accoltellata a morte dal marito Vittorio Pescaglini a un passo dalla separazione in Comune e dopo ripetute minacce, tali per cui la donna si era rivolta a un consultorio e aveva ottenuto un divieto di avvicinamento. “Di solito il sistema rivolge le sue attenzioni sulla vittima – ha commentato il direttore di Affaritaliani.it – Ci vorrebbe una rivoluzione di metodo: inseguire l’aggressore, che in questo caso aveva manifestato segnali ripetuti di pericolosità sociale. Bisognava intervenire su di lui, non su di lei, mettergli addosso i carabinieri, pedinarlo…”. E ancora: “Il problema è la solita filosofia del sistema, del paternalismo. Per questo non si va oltre la scaramuccia tra moglie e marito, non si indaga nella dinamica di una coppia…”.

GUARDA L’INTERVENTO DEL DIRETTORE PERRINO A “ORE 14”

Si è poi tornati sul duplice femminicidio di Cisterna di Latina, in cui sono morte Nicoletta Zomparelli e Renèe Amato per mano del finanziere Christian Sodano. “La sua identità come uomo delle forze dell’ordine non compare mai – ha commentato il direttore Perrino – Forse non si era mai accorto di essere un uomo in divisa? E poi, nessuno si era mai accorto della sua personalità da ‘schizofrenico’, da ‘dissociato’? È chiaro che questi corpi devono accrescere i controlli al proprio interno”.

Infine si è dibattuto del processo ad Alessia Pifferi, imputata per l’omicidio della figlia Diana, di 18 mesi, lasciata morire di stenti. “E’ un caso psichiatrico, non un processo normale basato su fatti e testimonianze – ha dichiarato il direttore Perrino – Ritengo che bisogna entrare nella mente della Pifferi. Finora, e mi riferisco anche alle due psicologhe indagate, sono stati in troppi o forse in troppo pochi a farlo”. E ancora: “E’ un processo che sicuramente non si concluderà in primo grado, ma che andrà avanti anche in appello e in Cassazione. Di base c’è un errore di prospettiva: non si può giudicare il mistero della mente di una persona disturbata con una logica filosofica… è evidente che la Pifferi non ci sta con la testa”.

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Vi racconto la Venere di Milo

La bellezza per antonomasia. La classità per definizione. Il capolavoro scultoreo per eccellenza.Questo (e tanto altro) è la Venere di Milo, l’eccezionale statua greca conservata al Louvre.
È una delle sculture più famose del mondo, un capolavoro di età ellenistica, ma non tutti ne conoscono la storia a luci e ombre e le infinite reinterpretazioni fatte dagli artisti.

Tutto ha inizio l’8 aprile del 1820 quando Yorgos Kentrotas, un contadino greco che abitava sull’isola di Milo, nell’arcipelago delle Cicladi, colpì con la sua pala qualcosa di molto duro.

Stava cercando pietre per rinforzare la recinzione del suo campo quando dal terreno spuntò fuori un busto di marmo pario senza braccia, del tutto inutile per le necessità del contadino.
Il caso volle che si trovasse da quelle parti anche Olivier Voutier, un giovane ufficiale della marina francese appassionato di archeologia, la cui nave Chevrette era ormeggiata sull’isola. L’uomo passeggiava tra i ruderi dell’antico teatro greco, incantato dagli innumerevoli frammenti di statue che emergevano dal terreno. Ma vedendo il contadino, a poca distanza da lui, fermo a osservare qualcosa nella buca che stava scavando, si avvicinò per curiosare.

Ecco come Voutier ricorda quel momento: “Aveva appena scoperto la parte superiore di un statua in cattive condizioni e, non potendo essere utilizzata per la sua costruzione, stava per ricoprirla di macerie. Con la punta di qualche piatto l’ho fatta invece uscire. Non aveva le braccia, il naso e il nodo di i capelli erano spezzati, erano terribilmente sporchi. Tuttavia, a prima vista, si riconosce un pezzo notevole. Ho esortato il mio uomo a cercare l’altra parte. Presto si è imbattuto in essa. Poi ho fatto assemblare la statua. Chi ha visto la Venere di Milo può immaginare il mio stupore!”.Ed ecco come ha disegnato quel ritrovamento.

La scoperta della statua suscitò grande entusiasmo anche nell’ammiraglio Jules Dumont d’Urville che si fece subito avanti per acquistarla. Ma Pierre-Henry Gauttier du Parc, il capitano della Chevrette, si oppose a quella trattativa rifiutandosi di trasportare un manufatto tanto fragile.

A quel punto il contadino pensò bene di cercare un nuovo acquirente in un monaco ortodosso che intendeva offrirla a un funzionario ottomano del sultanato di Costantinopoli. D’Urville allora scrisse immediatamente all’ambasciatore di Francia a Costantinopoli: non poteva lasciarsi sfuggire un pezzo così pregiato! L’ambasciatore acconsentì all’acquisto, anzi diede l’ordine di comprare la scultura a qualsiasi prezzo.

Il suo interesse però non era tanto di tipo artistico, ma smaccatamente politico. Quella statua, un raro esemplare greco originale e non una copia romana, alta poco più di due metri, avrebbe compensato lo smacco subito dalla Francia che, dopo il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva dovuto restituire ai vari stati italiani la Venere Medici, l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, alcuni dei capolavori classici sottratti con le spoliazioni napoleoniche.
Grazie alla Venere di Milo, per altro, Parigi poteva tornare a competere con Londra – che da alcuni anni si era appropriata dei marmi del Partenone – e con Monaco di Baviera, la cui Gliptoteca conservava i preziosi frontoni provenienti dal tempio di Afaia, sull’isola greca di Egina.
Dopo estenuanti trattative con il monaco e con la comunità dell’isola di Milo i francesi finalmente si aggiudicarono la statua e la imbarcarono alla volta della corte di re Luigi XVIII che nel 1821 ne fece dono al Louvre.

L’azione di propaganda iniziò immediatamente: la statua, inizialmente attribuita a Fidia o a Prassitele (ma oggi datata al 150-125 a.C.) fu esposta al centro di una grande sala del Louvre e i calchi vennero inviati alle Accademie di Belle Arti affinché i giovani studenti potessero copiarla. Doveva diventare a tutti i costi un simbolo universale di bellezza.Per questo si aprì subito il dibattito sulla possibilità di completarla con due nuove braccia, come si usava fare all’epoca. Ma le ipotesi erano contraddittorie. Teneva una mela in mano? Scriveva su una lapide? Si guardava allo specchio?

Alla fine prevalse la decisione di lasciare la statua com’era (a parte l’aggiunta del piede sinistro, successivamente rimosso): la mancanza delle braccia, in fin dei conti, non ne diminuiva né il valore né la bellezza, anzi faceva convergere tutta l’attenzione sul raffinatissimo panneggio, sul busto levigato e su quel volto dall’espressione imperturbabile.

Per altro non era neanche certo che si trattasse di Venere: quell’identificazione era stata fatta da d’Urville e mai più rimessa in discussione. In verità una porzione di basamento originale, misteriosamente scomparso, portava delle iscrizioni collegabili forse alla statua di Poseidone ritrovata nello stesso luogo nel 1877, di cui la figura femminile avrebbe potuto essere la moglie  Anfitrite.

Ma è chiaro che una “Anfitrite di Milo” non avrebbe colpito l’immaginario collettivo come una “Venere di Milo” (che per essere precisi avrebbe dovuto chiamarsi Afrodite, alla greca). E d’altra parte la posa e la composizione somigliavano molto a quelle della Venere di Capua del Museo Archeologico di Napoli (copia romana di un originale greco rinvenuta nel XVIII secolo). Dunque, meglio lasciare tutto com’era…

La vera incoronazione come dea della bellezza arriverà poco tempo dopo, quando gli artisti iniziarono a prendere la Venere di Milo come modello per le loro opere d’arte. Il primo in assoluto è stato Eugène Delacroix: la sua Libertà che guida il popolo del 1830, infatti, si ispira alle Venere di Milo per quel busto nudo, per la gamba sinistra protesa in avanti e per il panneggio della veste.Questo omaggio però non bastò a fare apprezzare quella figura: le braccia robuste, le guance arrossate e i peli sotto le ascelle facevano somigliare la donna a una massaia piuttosto che a una dea!

Del 1841 invece, è questo dipinto intimista del danese Christoffer Wilhelm Eckersberg. È dedicato alla toilette del mattino ma quella schiena con i fianchi cinti dal tessuto è un esplicito riferimento alla Venere di Milo, come si può notare osservando il retro della statua.

Assieme alla fama purtroppo cominciano anche i pericoli. Nel 1870-1871, con l’infuriare a Parigi della guerra franco-prussiana, la Venere di Milo viene imballata in una cassa di legno e conservata in un luogo sicuro.

Al suo rientro a Louvre il curatore del museo iniziò degli studi approfonditi sulla statua scoprendo, tra le tante, che non si è spezzata in seguito a un incidente né è stata tagliata: la Venere è stata realizzata fin dall’inizio unendo due blocchi di marmo.
A partire dagli anni Ottanta viene ritratta più volte nella sala in cui era stata collocata, come presenza divina nella penombra del museo.

Intanto diventa oggetto di studio anche da parte degli artisti più insospettabili, come Cézanne e van Gogh.

La celebrità della scultura è testimoniata pure da alcuni dipinti che ne raffigurano delle miniature in ambienti domestici…

… o nell’atelier di una pittrice.

Ebbe grande diffusione anche il solo torso. Possiamo vederlo sia nello studio di uno scultore che in un soggiorno borghese.

Tutto cambia con l’arrivo del Surrealismo. Dopo cento anni dalla sua scoperta, quell’icona di bellezza, quel frammento di perfezione, perde per la prima volta la sua aura divina e diventa l’oggetto degli esperimenti espressivi più estremi.
Per primo inizia René Magritte con Les menottes de cuivre (Le manette di rame) del 1931. Si tratta di una copia della statua parzialmente ridipinta in rosa e blu, con la testa lasciata in bianco. Il titolo, ideato da André Breton, allude ironicamente all’assenza delle mani. È un’operazione dadaista simile ai baffi sulla Gioconda fatti da Duchamp nel 1919. E tuttavia Magritte ci aveva visto giusto: le statue greche erano colorate in modo da sembrare corpi veri.

Il 1936 è invece l’anno della Venere a cassetti di Salvador Dalì. Riprodotta in infinite varianti, è un’opera che si inoltra nel mondo della bellezza carnale, dell’eros e dei suoi segreti, rappresentati dai cassetti (un simbolo tratto dalla psicanalisi di Freud) aperti sul corpo della statua.

Nello stesso periodo si occupa della scultura anche Man Ray. La sua Venere restaurata del 1936 (un busto senza drappo sui fianchi) e la testa di Venere del 1937 sono una perfetta dimostrazione dello spirito iconoclasta che muoveva dadaisti e surrealisti. Stringere tra corde o catturare in una rete un pezzo di statua significa trattare quei capolavori come oggetti qualsiasi, oltre a suggerire simili fantasie erotiche sul corpo femminile.Ma in fondo non occorre cercare un significato. La testa di Venere dentro una rete da pesca è “bella come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, per usare le parole del poeta Lautréamont tanto care ai Surrealisti.

Tuttavia la dissacrazione della Venere di Milo non è stata un’invenzione di questi artisti. Già a partire dagli anni Dieci ci avevano pensato i pubblicitari a trasformare la dea della bellezza in testimonial più o meno ironico dei nuovi consumi di massa. Dai corn-flakes all’aspirina, dai corsetti alle stilografiche, ogni occasione era buona per accostare il proprio prodotto alla suprema perfezione della dea greca.

Ma nel 1939 la Venere è di nuovo in pericolo. Con l’avanzata delle truppe tedesche verso la Francia occorreva svuotare il Louvre dai suoi capolavori e spostarli in un luogo sicuro. Il direttore Jacques Jaujard chiuse il museo il 25 agosto 1939 (ufficialmente per manutenzione) e organizzò il trasloco di oltre 4000 opere – sia dipinti che sculture – chiudendole dentro 1862 casse di legno trasportate da 203 camion diretti verso il castello di Chambord.

Il 16 agosto 1940 i nazisti entrarono al Louvre. Con grande disappunto scoprirono che era completamente vuoto. Ma furono lieti di trovare la Venere di Milo ancora al suo posto. Quello che non sapevano è che la statua che stavano ammirando era una volgare copia in gesso.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Venere, quella vera, torna al suo posto. E in poco tempo ritorna al centro dell’interesse degli artisti, in quella sorta di continuo ritorno al passato, specialmente quello classico, che caratterizza l’arte occidentale.

Nel 1962 se ne occupa Niki de Saint Phalle con una delle sue azioni artistiche da poco inaugurate: realizza una copia cava della Venere, fissa al suo interno dei sacchetti di vernice e poi la colpisce a distanza con un fucile. La statua a quel punto inizia a ricoprirsi di colore, ma in un modo che non può essere controllato dall’artista. È un attacco all’arte antica ma contemporaneamente è una rigenerazione, nata da un gesto di estrema violenza.

Intanto i traslochi non sono finiti. Nel 1964 la statua viene spedita addirittura a Tokyo, in occasione delle Olimpiadi. Ma il lungo viaggio di 33 giorni sul transatlantico francese Vietnam l’ha danneggiata: quattro frammenti del panneggio, all’altezza dello stinco sinistro, si sono staccati. Tre di questi erano pezzi in gesso di un vecchio restauro mentre il quarto era una scheggia di marmo, già staccata dalla statua all’atto del ritrovamento nel 1820.
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Dalì tornerà di nuovo sul tema della Venere negli anni Settanta, evidentemente ossessionato da questo simbolo così potente. In Torero allucinogeno la Venere di Milo si moltiplica in diverse posizioni e varie dimensioni dentro una delirante sovrapposizione di immagini. La dea diventa archetipo femminile inafferrabile, a tratti spaventoso. La sua figura ripetuta dà forma anche al volto del torero, in un gioco di interscambio tra figura e sfondo.

Negli stessi anni Dalì torna anche alla versione scultorea di Venere, ma abbandona i cassetti e inizia a mescolare le parti del volto con la Testa otorinologica di Venere. Naso e orecchio sono scambiati di posto: forse perché ‘sentiamo’ con entrambi?

Poi è stata la volta di Arman che, usando il suo linguaggio basato sulla trasformazione e accumulazione di oggetti comuni, ha iniziato ad affettare, frammentare, scomporre e riassemblare la Venere di Milo. Ma per quanto la si possa fare a pezzi, lei rimane sempre riconoscibilissima.

Quella posa sinuosa con le braccia mozzate si riconosce pure in silhouette, come nello specchio Venere disegnato dall’architetto Carlo Mollino nel lontano 1938 per Casa Miller a Torino (ma ancora in produzione)…

… oppure nella scultura sezionata di César del 1984.

Tra le versioni più recenti ci sono quelle di Jim Dine degli anni Ottanta e Novanta. Le sue Veneri sembrano regredire alla fase di blocco appena sbozzato: mancano della testa e appaiono spigolose e ruvide. Ma il colore, in tinta unita o a chiazze vivaci, rende questi oggetti quasi astratti, specialmente nelle dimensioni colossali che in alcuni casi assumono. Quando queste statue sono disposte in gruppi di tre la classicità raddoppia, attraverso un evidente richiamo al tema delle Tre grazie.

A fronte di tutto questo, di una passione sfrenata verso una dea venuta da una sperduta isola greca che pare non vedere mai flessioni, si può ben dire che l’azione di propaganda messa in atto dalla Francia abbia funzionato davvero alla grande! E però, per trasformare una statua in un’icona, qualcosa di speciale ci dev’essere.

Quella donna di marmo ci guarda da millenni, indifferente al succedersi dei giorni e delle stagioni, alle generazioni umane che, passando, la guardano negli occhi. Aspetta paziente senza aspettare nulla: la sua imperfetta perfezione le basterà per sempre.

Raffinato ma capiente: il vaso da zenzero nei dipinti

Di questo curioso vaso panciuto  mi sono accorta osservando una natura morta di Paul Cézanne del 1895 intitolata Pot de gingembre (ginger jar in inglese), cioè “vaso da zenzero“.

In effetti non era la prima volta che lo vedevo: Cézanne lo ha inserito in decine di dipinti, probabilmente per la sua forma molto semplice assimilabile a un solido geometrico (era lui quello che intendeva «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono»). Eccolo in una Natura morta con mele del 1893-1894, avvolto da una reticella dotata di manici.

Non conoscendo bene quest’oggetto, ma essendo un’appassionata di design dei contenitori (in passato ho scritto dell’aryballos, del rhyton, del calice römer e del cassone nuziale) ho iniziato a documentarmi, scoprendo una storia affascinante e un repertorio vastissimo.
Ma andiamo con ordine: cos’è esattamente il vaso da zenzero? E quando compare per la prima volta in pittura?
William Henry Hunt, Natura morta con vaso da zenzero, 1825, acquerello su carta, cm 19×25, Yale Center for British Art, Londra
Secondo gli storici nacque in Cina durante la dinastia Tang (618-907) come contenitore per le spezie. La sua forma tipica è globulare, con un collo brevissimo e una larga bocca spesso dotata di coperchio. Il vaso è generalmente in porcellana, materiale perfezionato nella stessa epoca simile alla terracotta ma basato su un impasto di caolino e quarzo. Il risultato è un prodotto particolarmente duro ma sottile, dalla superficie liscia e brillante.
Con la dinastia Ming (1368-1644) i vasi da zenzero assunsero una colorazione prevalentemente bianca e blu cobalto e decori a forma di piante, animali o paesaggi. Non mancano anche vasi di colore verde – generalmente esagonali – o decori policromatici.

Questi vasi, che intanto in Cina erano diventati oggetti preziosi di grande valore simbolico (ma ve n’erano anche versioni povere per il trasporto), sbarcarono in Europa nella seconda metà del XVII secolo con l’intensificarsi degli scambi commerciali di tè con l’Estremo Oriente. Nella stessa epoca la conoscenza della cultura cinese venne diffusa in Europa dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) attraverso il suo trattato La Chine illustrée de plusieurs monuments tant sacrés que profanes.Naturalmente si tratta di descrizioni piuttosto fantasiose perché il monaco non si recò mai in Cina ma utilizzò i materiali inviati dai missionari. Non solo: tutto il suo lavoro era teso a dimostrare che la civiltà cinese discendesse da quella egizia (per fare questo paragonò i geroglifici ai segni della scrittura cinese) e che in origine fossero cristiani (questo giustificava le missioni gesuitiche che avrebbero dovuto far “riscoprire” ai cinesi le loro radici).

Al di là di questi aspetti, la moda delle cineserie impazzò presto in tutta Europa. Avere una stanza “alla cinese” divenne quasi un obbligo in ogni palazzo reale e ben presto si tentò di imitare sia la porcellana sia le sue decorazioni (la famosa ceramica di Delft blu e bianca nasce come tentativo di copiare i vasi provenienti dalla Cina).
Stanza della porcellana, 1763-1764, Palazzo di Schönbrunn, Vienna
È in questo periodo, tra Seicento e Settecento, che il vaso da zenzero compare nei dipinti olandesi (non è un caso: gli olandesi erano grandi navigatori e commercianti) assieme ad altri prodotti costosi come calici veneziani, bicchieri römer, tazze ricavate da conchiglie nautilus, vassoi in argento, tappeti orientali nonché agrumi del Mediterraneo.Tuttavia non si tratta solo di prove di virtuosismo o di celebrazioni della ricchezza dei committenti: queste tele sono sempre vanitas, ammonimenti visivi che ci ricordano la brevità della vita e dei suoi piaceri, come suggerito nella tela seguente da un piccolo orologio aperto sul tavolo.
Willem Kalf, Natura morta con vaso in porcellana cinese, 1669, olio su tela, cm 78×66, Indianapolis Museum of Art
Juriaen van Streeck, Natura morta con tazza di nautilus e vaso di zenzero, 1660-1687, olio su tela, cm 49×41, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Appartengono a questa epoca e alla stessa area geografica alcune curiose riproduzioni in argento del vaso da zenzero cinese, con decorazioni riprese dal repertorio classico e dimensioni decisamente maggiorate. Il vaso in foto è alto 42 cm mentre gli originali cinesi vanno dai 18 ai 26 cm di altezza.

Dopo questo primo momento di gloria il vaso da zenzero ricompare nei dipinti nell’Ottocento, in un momento in cui inizia a diventare un oggetto più a buon mercato ampiamente diffuso nelle case europee.Eccolo in un quadro del 1869 dell’olandese Maria Vos (1824-1906), in cui è raffigurato un angolo di un negozio di antiquariato coi suoi ricchi decori blu che risaltano sui toni caldi dell’insieme.

Qui invece è stato dipinto nel 1876 dallo statunitense William Michael Harnett (1848-1892) con la stessa rete impagliata usata per il trasporto che abbiamo visto all’inizio nelle opere di Cézanne.

La cordicella è presente anche nella tela del 1890 del pittore americano di trompe l’oeil John Frederick Peto (1854-1907).

Il britannico Henry Stacy Marks (1829-1898) ha scelto invece di rappresentare il vaso da zenzero nelle mani dell’antiquario Frederick Litchfield, un fine intenditore di ceramiche cinesi bianche e blu, così di moda tra il 1870 e il 1890. Qui sta esaminando un vaso dell’epoca Kangxi (1662-1722).

Accanto al collezionismo di pezzi originali esisteva un’ampia produzione inglese, tedesca e statunitense che riprendeva la forma tondeggiante del vaso da zenzero applicando sulla superficie colori e decori di tradizione europea. Ne sono stati realizzati anche esemplari con motivi vegetali in rilievo, in stile Art Nouveau, e con finiture iridescenti a lustro. Ma i pittori preferivano sempre gli originali!

Il vaso da zenzero era un oggetto talmente famoso che alcuni artisti erano anche grandi collezionisti. Tra questi lo statunitense James Abbott McNeill Whistler (1834-1903), proprietario di una collezione di oltre duecento pezzi (non solo barattoli da zenzero…), di cui alcuni visibili in questo Autoritratto nello studio del 1865.

Whistler è anche autore di un disegno in stile giapponese del 1878 che raffigura il tanto amato vaso cinese…

… nonché dell’allestimento tra il 1876 e il 1877 della Peacock Room (stanza del pavone) per le porcellane cinesi del magnate britannico della navigazione Frederick Leyland, nella sua casa di Londra (oggi la stanza è esposta allo Smithsonian di Washington).

Qualche anno dopo, esattamente nel 1885, un bel vaso da zenzero esagonale, di colore turchese, compare in un’insolita natura morta di Vincent van Gogh, circondato da alcune mele e usato come vaso da fiori.

Quella di riempirlo di fiori è una scelta abbastanza frequente, come dimostrano tanti dipinti di fine Ottocento/inizio Novecento.
Floris Arntzenius, Nasturzi in vaso da zenzero, 1890-1925
George Hendrik Breitner, Vaso di fiori, 1900-1923
Frans Oerder, Anemoni in vaso da zenzero, 1910-1944
Un vaso da zenzero con fiori si trova anche in un suggestivo dipinto del 1916 dell’olandese Jan Mankes (1889-1920)…

… e in tanti quadri di Henry Matisse, come questa Natura morta con Pensieri di Pascal del 1924…

… e questa Natura morta con limoni del 1943.

Insomma, questo vasetto così esotico non smise di esercitare il suo fascino per oltre trecento anni! Ne restò incantato persino l’ideatore del Neoplasticismo Piet Mondian (guarda caso un olandese).Nel 1901, quando non aveva ancora intrapreso il suo percorso verso l’astrazione, ne dipinse uno esagonale, di colore turchese, assieme a cinque mele e un piatto sopra un piano ricoperto da un drappo. È chiaro che, come in Cézanne, l’intento non è la creazione di una vanitas bensì quello della ricerca geometrica e compositiva.

Il vaso da zenzero ritorna dieci anni dopo, quando Mondrian conobbe le opere cubiste di Pablo Picasso e Georges Braque, come oggetto su cui sperimentare nuovi linguaggi. Nel 1911 dipinge Natura morta con vaso da zenzero I, una vista del tavolo da lavoro che ricorda ancora le nature morte della tradizione se non fosse per il trattamento sintetico degli oggetti.

Dell’anno seguente è Natura morta con vaso da zenzero II, una composizione di gusto cubista nella quale l’unico tocco di colore è il celeste del contenitore cinese.

Sappiamo come proseguirà il suo percorso: al posto di vasi e tavoli solo linee verticali e linee orizzontali; al posto delle nuance ocra e turchesi solo toni di grigio e piani rossi, gialli e blu.
Il vaso di zenzero stava per completare il suo ciclo vitale nella pittura, ma rimane nelle opere conservate nei musei, a testimoniare il contatto creativo tra cultura materiale e riflessione concettuale e le epoche passate di fertili scambi estetici tra oriente e occidente.

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