Lettera aperta al Ministro Valditara

https://1.gravatar.com/avatar/ac2c42ac12e72c455f1ce9bad55dea9723e33769a26b623e871b33b4b5444bfc?s=96&d=identicon&r=G

Così, per passare un po’ di tempo e per sfogarmi su quelli che ritengo siano i mali del nostri sistema dell’istruzione, ho deciso di inviare questa lettera al sig. Ministro dell’istruzione e del merito on. Giuseppe Valditara. Arriverà al suo staff, e temo ch’egli non la legga mai: chissà quante gliene arrivano del medesimo tono, che i solerti collaboratori si affrettano a stracciare! Eppure, nonostante questo, ho voluto ugualmente fare questo esperimento, che qui ripubblico sul blog se non altro per suscitare una pacata discussione sui vari argomenti che tratto. Dico subito che la lettera, per lunga che sia, è ancor molto breve rispetto a tutte le criticità che ci sarebbero da evidenziare. Comunque, questo è il testo:

Egr. Ministro dell’Istruzione e del Merito On.Prof. Giuseppe Valditara

Sig. Ministro,

chi Le scrive è un docente ormai a riposo, che ha insegnato per circa 40 anni materie letterarie (Latino e Greco) presso il Liceo-Ginnasio “A.Poliziano” di Montepulciano (Siena). Affermo espressamente di appartenere alla Sua medesima parte politica e, conoscendo già da tempo i Suoi meriti in ambito culturale, di essere stato molto felice della Sua nomina ad un così importante incarico. Durante questo anno e mezzo di governo di centro-destra ho avuto anche modo di apprezzare e condividere i Suoi provvedimenti per quanto riguarda il problema della disciplina scolastica, del contrasto alla violenza in ogni sua forma e dell’uso a scuola dei cellulari e delle altre apparecchiature elettroniche.

Detto questo, vorrei però ricordarLe che la scuola italiana ha ancora molti problemi da risolvere, il primo dei quali – a mio giudizio – è lo stato di progressivo deterioramento della preparazione degli alunni, un allarme che, pur esistente già da prima, si è accentuato con il Covid e con il conseguente ricorso alla didattica a distanza. Ogni anno gli studenti escono con conoscenze e competenze sempre più incerte e approssimative dagli esami conclusivi della scuola primaria di primo grado e da quelli di Stato, ad onta delle votazioni molto elevate ma prive ormai, in molti casi, di corrispondenza alla reale preparazione. A questo stato di degrado, sempre a mio avviso, contribuiscono anche le molte ore di lezione non effettuate a causa di progetti e attività extrascolastiche, svolte in gran parte in orario curriculare, che rendono frammentario il lavoro dei docenti e compromettono quella continuità di apprendimento che è necessaria per la buona riuscita degli studi. Quest’anno in particolare l’aggiunta di 30 ore di orientamento al triennio della scuola superiore di II grado, da svolgere in orario curriculare, ha ulteriormente acuito il problema.

Avendo sempre insegnato in un Liceo, ho personalmente poca esperienza della scuola primaria e della secondaria di primo grado; ma ritengo che una vera, autentica riforma debba partire dai primi anni di frequenza scolastica, durante i quali dovrebbe essere privilegiato, ed esercitato con strumenti didattici efficaci, lo studio della lingua italiana, da proseguire anche nella secondaria di primo grado; e dico ciò a ragion veduta, giacché debbo amaramente constatare che tanti alunni arrivano ai Licei senza saper distinguere tra un avverbio e un pronome, senza discernere tra verbo attivo e passivo, transitivo e intransitivo ecc., per non parlare dell’analisi logica e del periodo. Per ottenere questo risultato ritengo che sia necessario tornare alla tipologia di esercizi invalsi alcuni decenni fa, come dettati ortografici, riassunti, temi e via dicendo, che erano in grado di formare la personalità dello studente oltre che di offrire un mero apprendimento nozionistico, ed anche ad un maggior rigore nella verifica degli apprendimenti. L’aver abolito l’insegnamento tradizionale per dare spazio a progetti e balzane invenzioni didattiche, spesso ideate da parsone che mai avevano pratica della scuola nella sua realtà, si è rivelato fallimentare. Lo stesso studio della lingua inglese, pur indispensabile per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, rischia di avere ben poca efficacia quando i discenti non conoscono adeguatamente la propria lingua madre. Non è il caso di aver timore a “tornare indietro”, cioè a ripristinare metodi e strumenti che si credevano superati. Io non ho mai creduto al pregiudizio secondo cui tutto ciò che è nuovo debba per forza essere utile e proficuo: se si constata di aver commesso un errore, non v’è nulla di male a riconoscerlo ed a tornare al passato.

Per quanto attiene specificamente alla scuola superiore di secondo grado, molte sarebbero le osservazioni da fare ed i provvedimenti da prendere. Sarebbe intanto utile completare il percorso da Lei giustamente intrapreso contro il dilagare del bullismo e della violenza nelle scuole, con l’adozione di provvedimenti severissimi e inappellabili sia contro gli studenti che si rendono colpevoli di gravi mancanze disciplinari sia contro i genitori che spesso intervengono in modo arrogante e offensivo verso il personale docente e non docente. Oltre a ciò, mi permetto di attirare la Sua attenzione su altri problemi che finora non hanno ancora trovato alcuna soluzione. Mi riferisco anzitutto all’uso degli strumenti elettronici da parte degli studenti, che ormai, anche con l’ultima novità costituita dall’intelligenza artificiale, rischiano di adulterare in tutto o in parte il processo apprenditivo e quello valutativo degli studenti stessi. Per quanto riguarda il primo aspetto mi corre l’obbligo di osservare che il ruolo e l’importanza degli smartphone, dei tablet et similia va molto ridimensionato, nel senso che lo studente non impara né di più né meglio con questi strumenti rispetto allo studio con i quaderni ed i libri tradizionali; constatiamo anzi che l’impiego pressoché esclusivo di queste apparecchiature ha persino danneggiato l’apprendimento, ad esempio in ciò che riguarda la memoria e il consolidamento delle conoscenze acquisite. E’ proprio vero quello che il padre Dante diceva, cioè che “non fa scienza / senza lo ritenere avere inteso,” proprio perché ci accorgiamo ogni giorno di quanto sia difficile per gli alunni far sedimentare nella loro mente delle nozioni e delle conoscenze che arrivano loro a raffica, sui supporti elettronici e senza l’aiuto della scrittura e della rielaborazione personale. Ho letto di recente che la Svezia, che è stata una delle nazioni pioniere per la diffusione degli strumenti didattici elettronici, sta tornando ai libri ed ai quaderni, e qualcosa di simile sta accadendo anche negli Stati Uniti d’America.

E’ tuttavia il secondo aspetto, quello valutativo, che mi preme qui sottolineare. Ormai le verifiche scritte, almeno per le materie che ho insegnato per tanto tempo, sono profondamente adulterate dall’uso degli smartphone, per mezzo dei quali gli studenti trovano su internet i testi di latino e greco già tradotti, e lo stesso vale, per quanto sento dire, anche per l’italiano (con i temi già svolti) ed altre materie. Per il latino e greco il problema si estende anche per gli esercizi da svolgere a casa, sistematicamente scaricati da internet e svolti personalmente da un numero sempre minore di studenti. I Suoi predecessori, signor Ministro, erano già stati avvertiti del problema, ma non hanno mai manifestato la volontà di risolverlo. Come sappiamo, non è lecito (giustamente) perquisire gli studenti, ed anche l’obbligo di consegnare il cellulare viene facilmente aggirato portandosi appresso due smartphone, dei quali uno viene consegnato e l’altro tenuto addosso. Vi sono poi altri oggetti come orologi, penne e quant’altro dotate di videocamere e quindi in grado di fotografare i testi e spedirli a qualcuno fuori di scuola, che si premura di svolgere la traduzione e poi rispedirla allo studente, o di fare per lui il tema o gli esercizi di matematica o di qualunque altra disciplina. Lei comprende senz’altro che, in queste condizioni, sarebbe preferibile abolire del tutto le prove scritte, compresa quella dell’esame di Stato e quelle dei concorsi pubblici, anch’esse viziate dal medesimo problema. Eppure una soluzione ci sarebbe: quella di dotare le scuole di adeguate apparecchiature che possano schermare l’aula dove si svolge la prova scritta, impedendo agli strumenti elettronici di collegarsi ad internet. Le chiedo gentilmente di prendere in considerazione questa possibilità, al fine di restituire al percorso valutativo la necessaria attendibilità; ciò inoltre sarebbe molto proficuo anche sul piano etico, per trasmettere ai giovani un messaggio positivo che ripristini l’onestà ed il rispetto della legalità, sulla quale si organizzano spesso corsi di aggiornamento e seminari che poi vengono clamorosamente disattesi nella pratica quotidiana.

Un’ultima osservazione vorrei fare riguardo ai libri di testo, sempre più minimalisti e qualitativamente mediocri. Il fenomeno, da inserire in un quadro di declino generale dell’istruzione, è dovuto anche – a mio parere – al tetto di spesa imposto dal Ministero per la dotazione libraria di ciascuna classe, che oltretutto è fermo ai prezzi del 2012 quando è ovvio presumere che in questi dodici anni ci siano state variazioni. Questo stato di cose impoverisce sempre più i veri strumenti di lavoro e impedisce perfino l’acquisto di determinati sussidi (si pensi ai classici singoli o antologie di autori classici, ormai praticamente scomparsi) che invece sono necessari per il dovuto approfondimento delle materie umanistiche. Mi chiedo e Le chiedo se non sarebbe preferibile aumentare i tetti di spesa adeguandoli ai prezzi odierni, oppure addirittura abolirli sostituendoli con un “budget” economico da assegnare a ciascun istituto per contribuire all’acquisto dei libri per le famiglie meno abbienti che ne facciano richiesta.  

Le sarò grato, signor Ministro, se vorrà considerare quanto qui Le ho scritto e riflettere sulla gravità dei problemi della nostra scuola, che Lei ha certamente la volontà e l’intenzione di risolvere. Augurandomi che la Sua permanenza nell’alto incarico prosegua per molto tempo e sia tale da permetterLe di lasciare di sé un ottimo ricordo, Le faccio i più vivi complimenti e Le auguro ogni successo.

Con deferenza. Prof. Massimo Rossi – Montepulciano (Siena)

Continua la lettura su: https://profrossi.wordpress.com/2024/03/18/lettera-aperta-al-ministro-valditara/ Autore del post: Prof Rossi Didattica Fonte: https://profrossi.wordpress.com

Articoli Correlati

Vi racconto lo Spinario

È una scultura classica apparentemente ordinaria: un ragazzino seduto su un roccia che si sta togliendo una spina dal piede. Eppure lo Spinario – questo il nome con cui l’opera è conosciuta – ha una storia affascinante e per certi aspetti ancora misteriosa.

Tanto per cominciare: è una statua greca o romana?La versione bronzea conservata ai Musei Capitolini è considerata un’opera eclettica di origine greca perché creata unendo una testa del periodo severo (V sec. a.C.) a un corpo ellenistico del I secolo a.C.Questo spiegherebbe il motivo per cui i capelli non scendono verso il basso, come sarebbe ovvio per un capo chino, ma fluiscono elegantemente ai lati del volto.

Tuttavia lo Spinario era un’iconografia diffusa, tanto che oggi se ne possono osservare diversi esemplari, egualmente antichi, generalmente di età imperiale.

Ma andiamo al soggetto. È un giovane pastore greco? Sì, è possibile. Nell’età ellenistica (IV-I secolo a.C.) la scena di genere, cioè la rappresentazione di episodi ordinari, di momenti di vita quotidiana, era piuttosto comune. In questo caso il gesto del ragazzo non avrebbe alcun significato particolare, sebbene per i Greci la puntura di una spina fosse metafora del dolore procurato dall’innamoramento.
Nella cultura greca però potrebbe anche essere Podaleiros, figlio di Asklepios, guaritore dei piedi.

Presso i Romani invece lo Spinario rappresentava probabilmente Ascanio, il figlio di Enea e l’iniziatore della gens Iulia. Dunque non si tratterebbe di un semplice pastorello ma di una figura fondamentale all’interno del mito fondativo della civiltà romana.

Ma potrebbe essere anche il giovane Marzio, il messaggero che nel IV secolo a.C., nel corso della guerra contro Veio, corse fino a Roma per avvertire dell’imminente attacco da parte degli Etruschi. La spina, che si sarebbe conficcata nel piede durante il percorso, verrà tolta solo a missione ultimata, a sottolineare l’eroismo del giovane e il suo sprezzo del dolore.

Quale che sia l’identità del ragazzo, è indubbio che quel gesto banale di estrarre una spina dal piede abbia ispirato gli artisti per secoli.
È presente in tante chiese romaniche, soprattutto in quelle lungo le vie di pellegrinaggio, sotto forma di bassorilievo nei portali. In questo contesto la spina rappresenta il peccato o l’inganno della ricchezza: il fedele è chiamato quindi a fermare il cammino per liberarsi dal peccato e dalle tentazioni, prima di proseguire. Eccolo nella ghiera del portale della Basilica di Vézelay, in Francia.

Qui è in un rilievo dell’Abbazia di Cluny.

Mentre questo è a Milano, su uno dei portali della Basilica di Sant’Ambrogio.

Lo stesso significato religioso è presente anche nello spinario del mosaico pavimentale del Duomo di Otranto. In questo caso l’uomo che si toglie la spina corrisponde al mese di marzo nella parte dedicata al ciclo dei mesi.

È tutto enormemente più schematico e grezzo, ma il rimando è sempre al nostro antico ‘cavaspino‘. Stessa cosa nel mese di marzo della Fontana Maggiore di Perugia di Nicola e Giovanni Pisano del 1278.

Naturalmente ricompare nel Rinascimento, all’interno dell’ampia operazione di recupero della cultura classica. La prima apparizione si trova nientemeno che nella formella di Filippo Brunelleschi creata nel 1401 per il concorso per la porta Nord del Battistero di Firenze (competizione poi vinta da Lorenzo Ghiberti).Nella scena del Sacrificio di Isacco, nell’angolo in basso a sinistra, si può osservare un uomo seduto, intento a levarsi una spina dal piede.

Non si sa quale copia abbia visto Brunelleschi. Agli Uffizi se ne conserva una versione marmorea ma è certo che lo Spinario capitolino era conosciuto fin dalla fine del XII secolo, quando viene rinvenuto dal viaggiatore inglese Magister Gregorius da Oxford che lo cita nel suo De mirabilibus urbis Romae, anche se la vista dei testicoli che pendono tra le gambe hanno portato lo studioso a ritenere che si trattasse di una raffigurazione di Priapo.

Queste le parole con cui descrive lo Spinario:“De ridiculoso simulachro Priapi. Est etiam aliud aeneum simulacrum, valde ridiculosum, quod Priapum dicunt. Qui dimisso capite velut spinam calcatam educturus de pede, asperam lesionem patientis speciem representat. Cui si demisso capite velut quid agat exploraturus suspexeris, mirae magnitudinis virilia videbis.” 
Cioè: “La buffa statua di Priapo. C’è pure un’altra statua di bronzo, assai buffa, che si dice raffiguri Priapo. Egli, a capo chino, mentre sta per estrarre dal piede una spina appena calpestata, rappresenta l’immagine di chi sopporta un’acuta ferita. Se lo guardi con la testa chinata, come se tu cercassi di distinguere bene cosa vuol fare, potrai vedere le sue parti genitali di una misura notevole“.

Nel frattempo, nel 1471, papa Sisto IV sposta dal Laterano al Campidoglio la sua collezione di marmi e bronzi antichi per farne dono al popolo romano. Tra questi anche lo Spinario. Ed è qui che l’avrebbe visto Luca Signorelli, un altro artista rinascimentale, mentre era a Roma per disegnare statue e rovine. Affascinato da quel personaggio lo inserisce nelle scene sacre più diverse come un tondo con Madonna e Bambino del 1492 e un Battesimo di Cristo del 1508.

Un altro cavaspino è presente in un frammento della Pala Bichi, un’opera smembrata risalente al 1488-1489. Come quello del tondo, l’uomo in realtà non sta togliendo la spina ma sta compiendo l’operazione precedente e cioè togliersi la scarpa.

Non abbiamo più i disegni di Signorelli ma possiamo vedere simili studi sullo Spinario negli schizzi di Jan Gossaert (noto come Mabuse), il primo pittore fiammingo ad andare a Roma.Siamo nel 1509, l’epoca di papa Giulio II e dei grandi cantieri del Vaticano. Il corpo è più muscoloso dell’originale, ma è notevole il fatto che persino un artista del nord Europa, proveniente da tutt’altra cultura, sia stato attratto da quel bronzo.

Poco dopo cominciano a circolare le prime incisioni dello Spinario capitolino, come quella di Marco Dente del 1515-1527 con una vista laterale della statua (che improvvisamente ha sviluppato una schiena michelangiolesca).

… o quella più tarda di Diana Scultori Ghisi, datata 1581, conosciuta anche col titolo “Schiavo che rimuove una spina dal piede”. Grazie a queste opere, riprodotte in gran numero, la fama dello Spinario si diffonde a macchia d’olio.

Tante sono anche le copie tridimensionali della stessa epoca, come questa in avorio, di un autore tedesco.

La posa dello Spinario assume una tale forza visiva che gli artisti cominciano ad attribuirla anche a Venere. Eccola in due incisioni cinquecentesche mentre si asciuga un piede dopo il bagno e mentre si toglie una spina (secondo il mito, dalle gocce del suo sangue, cadute su una rosa bianca, nasceranno le rose rosse).

Con il Ritratto del cardinale Antonio Pucci di Pier Francesco Foschi del 1540, facciamo un salto di qualità. Lo Spinario infatti non è presente come iconografia, come gesto applicato a un personaggio, ma come citazione dell’opera originale, presente in miniatura sul tavolo del porporato a simboleggiarne la vasta cultura.

Lo Spinario non smette di affascinare gli artisti neanche in età barocca. Ecco gli schizzi di Peter Paul Rubens del 1608 in cui il ragazzo appare simile alla versione capitolina (ma con i capelli che scendono verso il basso) e anche con una posa differente, voltato a guardare l’osservatore mentre asciuga il piede con una pezza.

L’olandese Pieter Claesz, invece, lo inserisce in una natura morta del 1628. Stavolta si tratta di un gesso di grosse dimensioni posato su un tavolo assieme a tanti altri oggetti, a creare una splendida vanitas.Ci sono gli strumenti dell’artista: lo Spinario, la bacchetta reggipolso, la tavolozza con i pennelli e il quaderno dei disegni.  Ci sono strumenti musicali posati per terra, tra i quali un violino e un liuto capovolto. E poi libri, un’armatura e un bellissimo calice römer.Ma se tutto questo simboleggia la vita attiva del pittore, ecco che intervengono alcuni oggetti che alludono alla caducità della gloria e della vita stessa: il teschio, la lucerna appena spenta e l’orologio.

Nel passaggio al secolo successivo e con la crescita dell’interesse verso l’arte classica, lo Spinario non può che rivivere un nuovo momento di gloria. Il primo che lo ripropone è Giovanni Paolo Pannini nella sua celebre Galleria di vedute di Roma antica del 1758.Si tratta di una sorta di museo immaginario che raccoglie i monumenti romani in forma di dipinti e le sculture più famose: una sorta di raccolta di souvenir classici ideata per il conte Étienne François de Choiseul. Ovviamente non poteva mancare lo Spinario, collocato su un piedistallo nell’angolo in basso a destra.

Nel dipinto dell’inglese Johan Zoffany del 1772 che raffigura Gli accademici della Royal Academy, lo Spinario è citato invece nella posa del modello sulla destra, a suggerire l’importanza della cultura classica nella formazione degli artisti.

Pochi anni dopo, esattamente nel 1785, lo Spinario capitolino è raffigurato con grande precisione in un’incisione di Francesco Piranesi, figlio di Giovanni Battista. Nel testo che accompagna la stampa il ragazzo è presentato come un atleta vittorioso che potrebbe essersi punto il piede nel corso di una competizione.

Una statua così attraente non poteva che far venire l’acquolina in bocca anche a Napoleone. E così lo Spinario fu portato nel 1798 a Parigi, per arricchire il Museo Universale sognato dal futuro imperatore. Per fortuna, grazie all’interessamento di Antonio Canova, nel 1815 il bronzo è ritornato a Roma.
Da quel momento farà parte integrante dello studio di qualsiasi aspirante artista, tanto che nel 1839 ne uscirà pure una versione ‘a raggi X‘.

Non si tratta di un’immagine satirica ma di una tavola tratta da “Elementi di anatomia fisiologica applicata alle belle arti figurative” di Francesco Bertinatti (anatomista) e Mecco Leone (artista), un genere a metà strada tra scienza e arte diffuso nella metà del XIX secolo. Dello Spinario hanno realizzato addirittura due vedute, in modo da mostrare al meglio ogni articolazione.

Nel frattempo era diventato talmente comune da essere citato anche in tanti quadretti di genere.

Una delle ultime apparizioni del giovane cavaspino è di un insospettabile Gustav Klimt. Nella sua Allegoria della scultura del 1889, la scultura è personificata da una figura femminile nuda con gioielli vagamente grecizzanti. Dietro di lei statue e rilievi classici in marmo, mentre accanto spicca il piccolo bronzo, visto di fronte. Un omaggio allo Spinario capitolino di grandissima raffinatezza.

Sono pochissimi i casi in cui un personaggio del mondo antico riesce ad attraversare senza soluzione di continuità tutta la storia dell’arte. L’appartenenza a una civiltà pagana tendeva, infatti, a far scomparire questi soggetti nelle epoche in cui l’arte era più orientata verso i temi sacri, specialmente nel Medioevo.  Abbiamo osservato questo fenomeno, tra i tanti, con le Grazie, la Medusa.
Ma lo Spinario fa eccezione grazie forse alla giovane età e alla semplicità dell’atto che sta compiendo, un gesto che si è ammantato di volta in volta di nuovi significati, anche opposti, passando dall’allegoria di stoicismo al simbolo di fragilità e inesperienza.

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000