«Decentralizzare l’intelligenza artificiale è un dovere»
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Nel 1999, all’età di 26 anni, Calkins fonda Appian, software company nata per aiutare aziende e organizzazioni complesse ad automatizzare i processi, migliorando i flussi di lavoro, unificando i dati ed ottimizzando le operazioni. Nel 2001 Appian ha sviluppato l’Army Knowledge Online, definita “la più grande intranet del mondo”, lavorando con la Marina americana, il Corpo dei Marines e l’Aeronautica. Nel 2005 si è espansa nel mondo aziendale, con clienti come Aviva, Deloitte, GSK, John Lewis, KPMG, Münchener Re, Natwest, Santander e Serco.
Venticinque anni dopo i quattro amici sono ancora tutti alla guida del business, consolidando un successo che nel 2023 ha portato alla capitalizzazione di 545 milioni di dollari di fatturato. Insolito per un’azienda tecnologica, dove le acquisizioni cambiano spesso i connotati del management e della struttura.
Incontriamo il CEO Calkins durante la conferenza internazionale Appian World a Washington, l’occasione per l’azienda di fare network e divulgare le novità, che quest’anno includono molte novità di Ai generativa nel suo Business Process Management e il consolidamento della collaborazione con AWS. L’occasione è ghiotta per parlare di Ai “privata”, di come impatta sul business aziendale e di come un approccio decentralizzato nella raccolta dei dati sia la chiave per un’Ai più etica e rispettosa della privacy.
Iperboli narrative distopiche contro nuove opportunità pratiche. Da che parte sta?
“L’anno delle chiacchiere è finito. Ci sono state molte iperboli, molte previsioni azzardate, ma in nessun modo un’intelligenza artificiale sarà intelligente quanto un essere umano in questo decennio. La questione non è come superare il test di Turing, ma come fare una cosa specifica con una produttività maggiore rispetto a quella che abbiamo fatto prima. L’approccio pratico è quello che ci interessa”.
C’è qualcosa che frena lo sviluppo dell’Ai nei processi aziendali?
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“Nessuna azienda vuole condividere i propri dati su Internet, caricare i propri database e addestrare un modello di intelligenza artificiale di cui non è proprietaria. E questo è un fatto. E poi, tra i motivi per cui le aziende titubano ancora con l’Ai c’è quello di uno scenario incerto di cui ancora non si conoscono bene gli svantaggi sostanziali che la tecnologia comporta: quello di perdere il controllo dei dati, come detto, e anche impattare negativamente sulla forza lavoro, incorrendo magari in violazioni normative. Queste sono le preoccupazioni che hanno tutti i nostri clienti”.
Lei sostiene che le aziende debbano creare i propri sistemi di intelligenza artificiale privati piuttosto che utilizzare i grandi modelli linguistici disponibili. E’ economicamente sostenibile?
“Un modo sarebbe quello di prendere un’intelligenza artificiale open source, portarla all’interno del firewall, addestrarla, coltivarla e utilizzarla internamente. È possibile ma economicamente oneroso. L’atro modo è invece più rispettoso della privacy ed è il concetto di private Ai in cui non è necessario addestrare in anticipo l’algoritmo dell’intelligenza artificiale: fa un ottimo lavoro nel darti la risposta, a condizione che tu lo affini al contesto. Si chiama Retrieval Augmented Generation e consente una versione più privata dell’intelligenza artificiale”.
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