Commemorato Matteotti alla Camera: il Presidente Fontana fa affiggere una targa sul suo scranno: “Quel posto non sarà più occupato”

Quando il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti pronunciò il suo discorso alla Camera dei deputati, denunciando i brogli, le violenze, le illegalità, gli abusi commessi dai fascisti contro gli elettori, che votavano fra l’altro quel 6 aprile con la famigerata legge “Acerbi”, aveva con ogni probabilità la fondata convinzione che il regime non avrebbe fatto passare impunemente quelle parole così accese, determinate, precise contro la imminente dittatura di Mussolini che avrebbe portato ben presto l’Italia alle leggi razziali, a una alleanza subalterna con la Germania di Hitler e alla guerra.

A cento anni di distanza da quel discoro, che in ogni caso rimane un monito per chi pensa, sbagliando, che la libertà e la democrazia siano ormai beni inalienabili, uno speciale dedicato al deputato socialista è andato in onda dalla Biblioteca della Camera dei deputati, la sala Galileo Galilei, con gli storici Umberto Gentiloni, Michela Ponzani, Mimmo Franzinelli, Emilio Gentile, che hanno messo

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Anatomia di un delitto: il caso Matteotti

Il 10 giugno 1924 la polizia segreta rapì Giacomo Matteotti. Venne subito ucciso, ma il suo cadavere sarà ritrovato dopo 2 mesi. Scopriamo i retroscena dell’omicidio attraverso l’articolo “Anatomia di un delitto” di Simone Cosimelli, tratto da Focus Storia in edicola.

Cronaca di una morte annunciata. Matteotti aveva compiuto uno degli atti politici più coraggiosi di quegli anni, denunciando il violento sistema di potere che faceva capo al duce. Ma così facendo aveva firmato la sua condanna a morte. Ecco che cosa accadde quel 10 giugno, il clima in cui maturò il delitto e le fasi successive.

CLIMA AVVELENATO. La campagna elettorale della primavera del 1924 non fu soltanto costellata da soprusi e intimidazioni, ma diede anche la sensazione che nulla potesse più ostacolare Mussolini. Il 31 marzo, in un teatro di Palermo, il filosofo Giovanni Gentile poté addirittura permettersi di sostenere che il fascismo si doveva accettare come una necessità storica. Disse Gentile: “Ogni forza è morale, perché si rivolge sempre alla volontà: e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire”. In questo contesto il socialista Matteotti, non volendo piegarsi né con la predica né col manganello, divenne un bersaglio.
Nemmeno la vittoria del “listone nazionale” – con il 60% dei voti, grazie anche a una legge elettorale approvata in un clima intimidatorio – lo fermò. E così il 30 maggio, quando chiese l’annullamento in blocco delle elezioni, la reazione non tardò. Il giorno dopo, Il Popolo d’Italia, quotidiano fondato da Mussolini, scrisse che quello di Matteotti era stato un discorso “mostruosamente provocatorio”. Era solo l’inizio.

Senza scorta. Il 10 giugno, intorno alle 16:30, Matteotti lasciò l’abitazione in via Pisanelli 40 per recarsi nel suo ufficio a Montecitorio. Avrebbe dovuto trovarsi a Vienna, in Austria, per un congresso socialista internazionale. Aveva invece cambiato i piani in vista di un prossimo discorso in aula incentrato sulla gestione del bilancio e delle finanze pubbliche e, probabilmente, su un caso di corruzione in grado di chiamare in causa il governo. Si aspettava ritorsioni, visto il diluvio di minacce e insulti che aveva ricevuto, ma girava da solo, a piedi, indifeso. Anche a causa del mancato coordinamento tra la questura e la direzione generale della pubblica sicurezza, la possibilità di essere scortato non si era concretizzata.

Con i documenti su cui lavorare, Matteotti arrivò quindi sul lungotevere Arnaldo da Brescia, non lontano da piazza del Popolo. Lo assalirono lì.

Il sequestro. Vide un’auto scura, una Lancia Kappa a sei posti, svoltare repentinamente l’angolo e venirgli incontro. Secondo letestimonianze raccolte, pur tentando di mettersi in salvo cambiando direzione, venne preso per un braccio, agguantato e sequestrato da cinque uomini. A nulla servirono le sue grida, coperte dal fastidioso rumore del clacson azionato a ripetizione. Alcuni passanti si trovarono sul posto, ma l’azione fu talmente rapida da non lasciare spazio a interventi esterni. Avvenne tutto alla luce del giorno, tanto che i sequestratori non si curarono neppure di coprire la targa dell’auto, 55-12169, annotata da un avvocato che vide tutta la scena.

Cambio di programma. In base al piano iniziale Matteotti avrebbe dovuto essere portato fuori Roma, in campagna, costretto a umiliarsi per poi essere ucciso. Andò diversamente. Trattenuto a forza nella vettura, si divincolò, tentò di resistere e riuscì a rompere un vetro con un calcio. I suoi assalitori, sorpresi dalla colluttazione, lo assassinarono con almeno due pugnalate mortali al torace.

Indignazione. Di Matteotti si persero le tracce e, specialmente tra i suoi compagni di partito, si temette subito il peggio, anche perché il deputato, prima di morire, era riuscito a gettare fuori dalla vettura il tesserino da parlamentare, poi ritrovato sulla strada. La vicenda finì quindi al centro dell’attenzione della stampa e animò un dibattito già molto polarizzato. Le indagini, di carattere investigativo e giornalistico, presto strinsero il cerchio attorno a uomini legati al fascismo. La situazione per il governo si aggravò ulteriormente dopo il ritrovamento della Lancia, che era stata noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del filogovernativo Corriere Italiano e già segretario del fratello di Mussolini, Arnaldo.

Loschi figuri. Seguirono poi l’arresto di alcuni dei responsabili, il coinvolgimento di nomi di rilievo come quello di Giovanni Marinelli, segretario del Partito nazionale fascista, e di Cesare Rossi (detto Cesarino), capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio. Emersero anche nuovi – e solidi – indizi sulla natura politica del delitto. L’Avanti!, il giornale dei socialisti, già il 19 giugno scrisse in prima pagina: “Dimissioni! Dimissioni! Dimissioni!”. Il Corriere della Sera, che pure era stato piuttosto morbido con il fascismo, cercò di districarsi tra ipotesi e certezze ma, il 22 giugno, sollecitò il governo a fare chiarezza.

Si leggeva sul quotidiano milanese: “I fatti hanno una loro eloquenza che è difficile contrastare efficacemente e hanno determinato una persuasione che non le parole ma soltanto altri fatti possono riuscire lentamente e pazientemente a modificare. I ripari esterni valgono poco”.

IL CADAVERE. Tra il 12 e il 13 agosto, non lontano da Roma, fu rinvenuta, e consegnata ai Carabinieri, la giacca di Matteotti, strappata e malconcia, sporca di sangue e fango. Il corpo dell’onorevole venne infine trovato il 16 agosto, vicino alla capitale, nella macchia della Quartarella, presso Riano: in parte putrefatto, aveva le gambe ripiegate ed evidenti segni dei colpi subiti. Era stato gettato in una fossa improvvisata profonda appena mezzo metro, scavata con un martello, una leva, un cric e una lima, troppo piccola per contenere la salma. L’identità del cadavere venne confermata dall’autopsia, dalla perizia odontoiatrica e dai familiari. A quel punto, l’Italia intera fu profondamente scossa.

lutto privato. La moglie di Matteotti, la scrittrice Velia Titta, volle un funerale privato e fece trasferire il feretro in provincia di Rovigo, in Veneto, dove Matteotti era nato. Volendo evitare strumentalizzazioni, diffuse anche una lettera in cui, con parole ferme e accorate, scrisse: “Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio”. Una presa di distanza, questa, che mise in grave imbarazzo il governo. Non a caso le autorità fecero viaggiare il convoglio, decorato col tricolore, di notte, per evitare manifestazioni e potenziali disordini. Matteotti fu infine sepolto nel piccolo cimitero di Fratta Polesine e il feretro venne trasferito nella cappella di famiglia nel 1928.

Delitto politico. Anche dopo il funerale il nome di Giacomo Matteotti continuò a tormentare Mussolini, per tutto l’autunno seguente il crollo del governo apparve così un’opzione concreta, un fatto imminente. Spiega lo storico Mimmo Franzinelli, autore del recente libro Matteotti e Mussolini. Vite parallele. Dal socialismo al delitto politico (Mondadori): «L’assassinio di Matteotti produsse effetti imprevisti ed imprevedibili: e anzitutto dimostrò in modo tragico la realtà delle violenze che il segretario del Partito socialista unitario aveva documentato in Parlamento, tra le minacce e gli sberleffi dei deputati fascisti. Ciò accade nella delicata fase di trapasso dal regime democratico-liberale a quello autoritario, all’esordio della nuova legislatura».

GIÙ LA MASCHERA. La vicenda fu commentata anche all’estero e, col passare dei mesi, assunse lineamenti sempre più nitidi.

I responsabili del delitto appartenevano infatti a un’organizzazione segreta istituita dai vertici del Partito: la cosiddetta “Ceka fascista”. Questa aveva un compito: colpire i dissidenti. Secondo Franzinelli, «il gruppo d’azione aggrediva brutalmente chiunque fosse indicato come meritevole di punizione. E venne informalmente denominato Ceka del Viminale, ovvero una polizia segreta ai diretti ordini del ministro dell’Interno, vale a dire lo stesso Mussolini, che, fino al giugno del 1924, rivestiva anche quel dicastero». In particolare, nel commando che uccise Matteotti erano presenti uomini con un passato oscuro.

Contestazione. Il governo venne così apertamente contestato, mentre l’opposizione antifascista sembrò rinvigorirsi. Mussolini giocò inizialmente la carta del vittimismo sostenendo che l’omicidio fosse stato ordito contro di lui, perché non faceva altro che danneggiarlo, ma con scarso successo. Continua Franzinelli: «Sul momento Mussolini irrise, poi minimizzò e quindi – consapevole di poter essere travolto dall’indignazione morale che attraversava tutto il Paese – si chiuse in una nervosa attesa degli eventi, muovendosi con accortezza per tenere legati a sé Vittorio Emanuele III e il Senato, nella speranza che le opposizioni, incapaci di adottare strategie efficaci, si logorassero al loro interno, perdendo incisività tra polemiche e denunce».

L’italia si tinge di nero. Alla fine non cambiò nulla. Gran parte dell’Italia monarchica, borghese e conservatrice rimase al fianco del governo, i fascisti più radicali spinsero per una soluzione drastica e Mussolini si convinse di poter gettare la maschera, svelando il fascismo per quel che era: una forza eversiva che della violenza aveva fatto la sua pietra angolare. La vicenda si chiuse là dove tutto era iniziato, in Parlamento, quando il 3 gennaio 1925 Mussolini si assunse la responsabilità di tutto ciò che aveva fatto il fascismo, compreso il delitto Matteotti. Il futuro dell’Italia, allora, si tinse di un solo colore: nero.

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