Vi racconto il Pensatore di Rodin

Muscoloso, nudo, assorto. È universalmente noto come il Pensatore ed è considerato un simbolo della filosofia. Eppure Auguste Rodin lo concepì originariamente come la rappresentazione di Dante che medita sull’Inferno, indicandolo come “il poeta“.

Tutto ebbe inizio nel 1880, quando lo scultore venne incaricato dal governo francese di realizzare una porta monumentale destinata al nuovo Museo di Arti Decorative. Rodin decise di dedicarla all’Inferno dantesco perché, secondo lui, «Dante non è solamente un visionario e uno scrittore; è anche uno scultore. La sua espressione è lapidaria, nel senso buono del termine. Quando descrive un personaggio, lo rappresenta solidamente tramite gesti e pose».

Joseph Noel Paton, Dante medita sull’episodio di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, 1852, olio su tela, cm 160×96, Bury Art museum

L’artista si dedicherà per quasi quarant’anni al progetto della Porta dell’Inferno, trasformando in materia 186 personaggi dei vari gironi infernali e facendoli emergere in altorilievo dai battenti. Dante, seduto su una roccia e alto circa 70 cm, è collocato al centro del sopraporta, intento a meditare sulla propria opera poetica, con il mento poggiato sul pugno chiuso della mano destra, il gomito posato sulla coscia sinistra e l’altra mano penzolante dal ginocchio sinistro, mentre osserva le scene infernali sotto di lui. 

L’opera però resterà incompiuta anche perché il museo per cui era destinata non venne più realizzato né andò a buon fine la proposta di collocarla al Louvre.

La fusione in bronzo arriverà solo dopo la morte dello scultore e si trova oggi al Museo Rodin di Parigi, assieme al gesso originale, alto 5,30 metri.

Rodin decise quindi di sviluppare come statue autonome alcune figure della porta: è in quel momento che Dante diventa una scultura a parte.

Estrapolata dal suo contesto nel 1888, la statua ha assunto un significato più universale: è l’uomo moderno che riflette sul suo destino, carico di incertezze. “Quel che rende il mio Pensatore pensante – scrive Rodin – è che non pensa solo con il suo cervello, con la sua fronte accigliata, le sue narici aperte e le labbra tese ma anche con ogni muscolo delle sue braccia, schiena e gambe, con i suoi pugni chiusi ed i piedi contratti.

Albert Harlingue, Rodin con il pensatore, 1905

Per modellare quel corpo potente, che ricorda il modellato del torso del Belvedere, Rodin scelse come modello il pugilatore francese Jean Baud. Sebbene la forza fisica non fosse normalmente associata alla meditazione, Rodin voleva che quel gesto esprimesse qualcosa di epico. La grandezza del pensiero si doveva manifestare anche attraverso il vigore del corpo.

D’altra parte lo stesso vigore era presente anche nel riferimento artistico scelto da Rodin e cioè la statua cinqucentesca di Lorenzo de’ Medici realizzata da Michelangelo (non per nulla chiamato anche “il pensieroso”), di cui riprende sia la possanza sia la particolare posa, con la testa poggiata sulla mano e il gomito sulla coscia.

Michelangelo, Lorenzo de’ Medici, 1520-1534, Basilica di San Lorenzo, Cappella Medicea, Firenze

Rodin non scelse di ispirarsi a Michelangelo per caso. Quell’artista, infatti, era stato per lui una rivelazione, una scoperta che cambiò per sempre il suo modo di concepire l’arte, passando da un linguaggio classicheggiante a uno più espressivo e immediato.

La svolta era stata innescata dal viaggio in Italia compiuto nel 1875 e soprattutto dalla visione delle opere di Buonarroti. “Da quando sono giunto a Firenze dedico il mio tempo allo studio di Michelangelo e credo che questo grande mago mi stia consegnando alcuni dei suoi segreti”, disse Rodin di quell’esperienza. È per questo che la sua opera più innovativa di quel periodo, L’età del bronzo, ricorda in modo palese lo Schiavo morente di Michelangelo (conservato al Louvre).

Ma torniamo al gesto di Lorenzo de’ Medici. Michelangelo lo ha utilizzato per un motivo molto preciso: la mano che regge la testa o il mento era una posa densa di significati, usata dagli artisti per indicare l’indole melanconica, una condizione associata non tanto alla tristezza ma a una profonda sensibilità, vicina all’ossessione e al genio artistico.

Raffaello la attribuisce a Eraclito, il personaggio seduto in primo piano nel grande affresco della Scuola di Atene.

Raffaello, La scuola di Atene, particolare della figura di Eraclito, 1509-1510, affresco, Stanza della Segnatura, Palazzi Apostolici, Città del Vaticano

Di qualche anno più tarda è una delle raffigurazioni più note di questo tipo caratteriale, opera di Albrecht Dürer, nella quale una figura alata poggia la testa sul pugno chiuso, quasi a sostenere il peso del pensiero.

Albrecht Dürer, Malencolia I, 1514

Tuttavia si tratta di una posa antica, associata anche alla sofferenza, come in questa placchetta greca in cui Ulisse, a destra, si avvicina a una sconsolata Penelope.

Penelope afflitta, 460-450 a.C., terracotta, cm 18×27, MET, New York

Nel tempo diventa la posa ideale per rappresentare la figura del filosofo.

Salomon Koninck, Un filosofo, 1635

Ma anche il generico pensare da parte di qualsiasi personaggio.

Pierre-Auguste Renoir, Ragazza pensierosa, 1877

Basta farci caso e scopriremo che questa posa è diffusissima in tutta la storia dell’arte, applicata ai personaggi più vari.

Tanto per aggiungere un esempio contemporaneo alla carrellata, anche l’emoji che indica il dubbio, il ragionamento, il pensarci-sopra, ha la mano sotto il mento.

La “polisemia” di questo gesto è ciò che ha consentito a Rodin di trasformarlo dalla riflessione sulla propria opera collegata alla figura di Dante, a un’indefinita meditazione da parte di un uomo simbolico, una metafora della vita stessa e del destino.

All’intenso effetto drammatico contribuisce anche il trattamento del corpo nudo, la cui superficie vibrante e imprecisa ricorda la pennellata impressionista ma anche l’incompiuto michelangiolesco.
Eppure, nonostante l’originalità e la potenza di questa scultura, resterà come modello in gesso fino al 1902, quando verrà fusa la prima versione bronzea del Pensatore in grandi dimensioni (che però sarà presentata al pubblico solo nel 1904).

Edward Steichen, Rodin, Il Pensiero, 1902, stampa da due negativi

Nei decenni successivi ne vengono realizzate più di venticinque copie, di varie misure, sparse in tutto il mondo, da New York a Venezia, da Buenos Aires a Dresda, da Tokio a Istanbul.

Una copia venne commissionata nel 1905 dal Dottor Max Linde, un oftalmologo di Lubecca, nonché mecenate e collezionista, che la installò nel parco della sua residenza. Casualmente Linde era anche un estimatore di Edvard Munch e per sostenerlo economicamente gli commissionò nel 1907 un dipinto raffigurante il suo Pensatore. Si tratta di una tela sorprendente, un’opera d’arte che raffigura un’opera d’arte, dandole un nuovo aspetto e un nuovo significato.

Una riproduzione del Pensatore si trova anche sulla tomba di Rodin a Meudon, voluta dallo stesso scultore scomparso nel 1917.

Ovviamente una figura dall’immagine tanto potente non poteva che generare fiumi di citazioni e reinterpretazioni, anche irriverenti. Una delle prime è molto significativa: dipinta da William Orpen nel 1917, in piena Prima Guerra Mondiale, raffigura un soldato seduto su una roccia presso la Butte de Warlencourt, un sito francese teatro di tragici scontri. Accanto a lui un elmetto sul terreno e altri detriti.
Non c’è nulla di ironico nella ripresa del Pensatore di Rodin, anzi, forse aggiunge significato alla scultura originaria con una riflessione sul non-senso della guerra.

William Orpen, Il Pensatore sulla Butte de Warlencourt, 1917, acquerello su carta, cm 51×42, Imperial War Museum, Londra

Poi fu la volta dell’illustrazione, come quella della rivista americana Judge che nel 1925 ha messo in copertina una donna in posa da pensatore intenta a ragionare su un cruciverba.

Del 2014 è un’altra copertina, questa volta con uno dei supereroi della Marvel, insolitamente meditabondo.

Nel frattempo il Pensatore era diventato anche modello per la pubblicità. Questa, del 1943, promuove una sorta di bibita per bambini.

Questa, invece, realizzata nel 2007, è una versione della scultura in forma “automobilizzata“.

La casistica è ancora molto vasta ma, per esempio, quelle con il Pensatore seduto sul wc non mi pare che facciano onore alla creazione di Rodin…

Ad ogni modo solo un vero capolavoro ha il potere di diventare un archetipo. Sta a noi riuscire a meritarlo.

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Tre volte il volto: i ritratti triplici nella storia dell’arte

Di fronte, di profilo e di tre quarti. No, non è una foto segnaletica (o forse dovremmo chiamarlo “quadro segnaletico”), ma il celebre triplo ritratto del regnante inglese Carlo I, realizzato da Antoon van Dyck nel 1635.
Antoon van Dyck, Carlo I in tre posizioni, 1635, olio su tela, cm 84×99, Royal Collection, Londra
Ma che significato aveva questo curioso dipinto? Perché l’artista ha raffigurato il sovrano da tre punti di vista differenti? Voleva sottolinearne l’espressività? Era una prova di virtuosismo? C’era qualche allegoria sottesa?Nulla di tutto ciò: il ritratto serviva perché Gian Lorenzo Bernini potesse realizzare un busto di re Carlo I senza muoversi da Roma (lo scultore non uscì mai dall’Italia se non una sola volta per andare a Parigi e Varsailles a realizzare il ritratto di Luigi XIV). Era quindi necessario che avesse a disposizione più viste possibili del soggetto, in modo da cogliere perfettamente la forma del volto, l’espressione del viso e l’andamento del profilo (ma si dice che Bernini non facesse mai posare immobili i soggetti da ritrarre preferendo osservarli in movimento e in pose naturali).
Purtroppo il busto marmoreo, realizzato nel 1636, è andato distrutto nel terrificante incendio del 1698 che distrusse il palazzo di Whitehall. Alcune copie vagamente simili sono ciò che rimane. Una è quella creata nel 1759 dallo scultore Louis François Roubiliac…

… e l’altra è quella attribuita a Jan Blommendael.

Quando il busto originale arrivò a Londra, nel 1637, fu universalmente lodato “non solo per la squisitezza dell’opera, ma per la somiglianza che aveva con il re” e Bernini fu ricompensato con un anello di diamanti. La regina Enrichetta Maria ne fu talmente entusiasta che nel 1638 incaricò van Dyck di fare anche a lei un triplo ritratto da inviare a Bernini. Quella volta però il pittore fiammingo non mise i tre punti di vista nella stessa tela ma produsse tre dipinti separati, due di profilo e uno frontale. Tuttavia, non si sa perché, il busto di marmo non verrà mai eseguito.
Antoon van Dyck, Tre ritratti di Enrichetta Maria di Borbone-Francia, 1638
Bernini realizzerà invece il busto del cardinale Richelieu utilizzando anche questa volta un triplo ritratto, quello dipinto dal francese Philippe de Champaigne nel 1641, simile al ritratto di Carlo I di van Dyck (ma in questo caso non c’è la vista strettamente frontale).
Philippe de Champaigne, Triplo ritratto del cardinale Richelieu, 1642, olio su tela, cm 58×72, National Gallery, Londra
Quel busto esiste ancora e si trova attualmente al Louvre.

Ma torniamo ai triplici ritratti per sottolineare un aspetto: a livello compositivo non fu un’invenzione di van Dyck ma la ripresa di un’iconografia che esisteva fin dal Medioevo in forma di “vultus trifrons” (volto trifronte), cioè il modo con cui talvolta veniva rappresentata la trinità.
Gregorio Vasquez de Arce y Ceballos, Trinità, XVII secolo, Museo Coloniale, Bogotà
Certo, nella maggior parte dei casi non si tratta di tre volti separati ma di facce sovrapposte che condividono gli occhi del volto centrale, come in questo esempio trecentesco…
Autore sconosciuto, Vultus trifrons (Trinità), XIV secolo, Chiesa di Sant’Agostino, Norcia
… o questo del XVI secolo.
Scuola di Leonardo da Brescia, Cristo trifrons, ca. 1542, chiesa di santa Giuliana, Vigo di Fassa (Trento)
Ma non mancano casi in cui i tre volti sono separati o addirittura lo sono le tre persone della Trinità.

Tuttavia il volto con tre facce era anche quello di Lucifero…
Autore sconosciuto, Illustrazione per la Divina Commedia con Lucifero, XIV secolo
Secondo Dante, che lo descrive nel XXXIV canto dell’Inferno, Lucifero è un mostro peloso, con tre paia d’ali di pipistrello e tre facce sulla stessa testa. Con le tre bocche divora i tre più grandi traditori: Bruto e Cassio ai lati e Giuda al centro. Le tre facce avrebbero anche tre colori diversi: rossa quella centrale, bianca quella destra e nera la sinistra.

Ha tre teste anche Cerbero, il cane infernale della mitologia greca che Dante colloca nel 3° cerchio dell’Inferno a vigilare e torturare i golosi.
William Blake, Cerbero, 1824-1827
Per questa insistente associazione tra le tre facce e gli esseri infernali, lo schema del vultus trifrons per rappresentare la Trinità fu abbandonato nel ‘500. Nel 1745, infine, papa Benedetto XIV, con la bolla Sollicitudini nostrae definì come “non appropriata” l’immagine di Cristo ripetuta tre volte poiché dava forme umane anche allo Spirito Santo. Dal Cinquecento, dunque, il volto triplo diventa un tema squisitamente profano.
Il primo dipinto in cui appare è probabilmente il Ritratto di un orefice di Lorenzo Lotto, una tela del 1525-1535 (dunque di un secolo precedente al ritratto di Carlo I). Qui lo stesso uomo è visto di profilo, di fronte e leggermente da dietro.  Le diverse pose delle mani e la tenda verde che taglia lo sfondo animano il ritratto e lo arricchiscono di espressività.
Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice, 1525-1535, olio su tela, cm 52×79, unsthistorisches Museum, Vienna
Questo quadro però non serviva come base per una statua, tuttavia un legame con la scultura c’era: il dipinto infatti si inserisce nel dibattito noto come “Paragone delle arti“, una disputa dell’età rinascimentale su quale arte, tra pittura e scultura, fosse la “migliore”.Secondo Leonardo, naturalmente, il primato spettava alla pittura, unica arte capace di imitare la natura nei suoi colori e nei suoi spazi. Per Michelangelo, invece, l’arte superiore era la scultura perché capace di riprodurre le forme in modo realmente tridimensionale.
Per superare il limite della pittura evidenziato da Michelangelo gli artisti tentarono di inserire più visioni del soggetto nello stesso dipinto, attraverso diverse modalità. Quella di Lorenzo Lotto consisteva, come abbiamo visto, nel creare un ritratto multiplo del soggetto in modo da raffigurarlo contemporaneamente da più punti di vista (una visione simultanea protocubista…), avvicinandosi così alla scultura.Tiziano, invece, ha inserito nella scena un grande specchio convesso per mostrare anche il retro della persona raffigurata.
Tiziano, Donna allo specchio, 1515, olio su tela, cm 96×76, Museo del Louvre, Parigi
Bronzino sceglie, invece, una terza via, quella del dipinto bifacciale che mostra la stessa scena dai due lati opposti. Suo è il Nano Morgante del 1553, un ritratto del buffone di corte di Cosimo I de’ Medici. Le due vedute, tuttavia, non corrispondono rigidamente: la vista del recto raffigura il personaggio prima della caccia mentre sul verso ha la selvaggina in mano e si volta all’indietro per vantarsene con l’osservatore.
Bronzino, Doppio ritratto del Nano Morgante, 1553, olio su tela, cm 149×98, Palazzo Pitti, Firenze
Due anni più tardi la stessa scelta sarà operata anche da Daniele da Volterra, con la sua lotta tra Davide e Golia in versione bifacciale, un quadro posto lungo la galleria del Louvre sopra un piedistallo, come fosse una scultura.
Daniele da Volterra, Combattimento di Davide e Golia, 1555, olio su ardesia, cm 130×170, Museo del Louvre, Parigi
La disputa sarà superata solo nel Seicento, quando il linguaggio barocco fonderà tra loro tutte le arti. Il dipinto bifacciale scomparirà presto ma non il triplo ritratto, che tornerà in auge nell’Ottocento.
È del 1804 un triplo ritratto di Elizabeth Patterson, prima moglie di Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone.
Gilbert Stuart, Triplo ritratto di Elizabeth Patterson (Betsy Bonaparte), 1804, olio su tela
Stavolta non c’è nessun confronto con la scultura né alcuno scopo utilitaristico: è un ritratto fresco, rapido, quasi uno studio, che evidenzia i bei lineamenti della donna.Ha invece un valore propagandistico il triplo ritratto di Napoleone in tre momenti cruciali della sua vita: il comando della Campagna d’Italia nel 1794, l’incoronazione a re d’Italia nel 1805, e il suo ritorno dall’esilio nel 1815.
Autore sconosciuto, Triplo ritratto di Napoleone Bonaparte in tre momenti della sua vita nel 1805, 1794 e 1815.
Della stessa epoca è un curioso autoritratto, di una sconosciuta artista che si è firmata come D. E. Brante, in cui la donna si è dipinta come pittrice, come scultrice e come arpista. Una tripla immagine che ha uno scopo preciso: quello di esibire il proprio poliedrico talento.
D. E. Brante, Triplo autoritratti come pittrice, scultrice e musicista, 1815-1820, olio su tela, cm 85×70
Questa modalità di rappresentazione non poteva sfuggire ai pittori amanti del simbolismo, per l’opportunità che offriva di mostrare le diverse anime racchiuse nel soggetto. È così che 1874 nasce Rosa Triplex, un triplice ritratto di May Morris (figlia di William Morris e della moglie Jane Burden), del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti. Il dipinto richiama quelle atmosfere estetizzanti tanto care alla confraternita inglese ma anche la tela di van Dyck, che faceva parte della Royal Collection inglese.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa triplex, 1874, acquerello su carta, cm 77×88, Collezione privata
L’immagine è molto simile a una precedente versione a pastello di sette anni prima nel quale la modella era stata Alexa Wilding.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa Triplex, 1867, pastello su carta, cm 50×73, Tate, Londra
Nel 1877 Rossetti riprende ancora una volta lo schema della tripla raffigurazione con Astarte syriaca, una sensuale divinità mediorientale dell’amore e della bellezza, per la quale avrebbero posato Jane Burden e May Morris. La composizione, con la dea frontale e le sue “gemelle” di lato, ricorda in verità un’altra iconografia tripla, quella delle Tre Grazie.
Dante Gabriel Rossetti, Astarte Syriaca, 1877, olio su tela, cm 185×109, Manchester Art Gallery
Poco tempo dopo, il genere del triplo ritratto viene ripreso dal simbolista francese Maurice Denis con una suggestiva rappresentazione della fidanzata Marthe Meurier. Non sfugge all’osservazione la progressiva apertura degli occhi andando verso destra, come se i tre volti raccontassero un risveglio, una maturazione, una consapevolezza verso la vita.
Maurice Denis, Triplo ritratto della fidanzata Marta, 1892
Da questo punto di vista il dipinto si inserisce nell’antico filone dell’allegoria delle tre età dell’uomo, realizzata, appunto, con tre personaggi in diverse fasi dell’esistenza.
Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501, olio su tavola, cm 62×77, Galleria Palatina, Firenze
Tiziano, Allegoria della Prudenza, 1550, olio su tela, cm 75×68, National Gallery, Londra
Denis riprende il triplo ritratto anche con la fidanzata successiva, Yvonne Lerolle, nel 1897. Qui il diverso abbigliamento e la varietà dei gesti e delle espressioni portano a immaginare che l’opera simboleggi proprio tre fasi della vita della giovane donna, come a voler dire che non è possibile conoscere l’anima mutevole di una persona perché il suo essere è la somma di un tempo che scorre.
Maurice Denis, Ritratto di Yvonne Lerolle in tre aspetti, 1897, olio su tela, cm 170×110, Musée d’Orsay, Parigi
Tutto cambia con Egon Schiele. Tormentato osservatore del proprio essere, realizzò nel 1913 un triplo autoritratto in cui sembra voler mostrare il suo multiplo io. La figura al centro, più definita delle altre, ha un’espressione rabbiosa e una posa contorta; il volto a destra sembra più calmo mentre quello a sinistra, tratteggiato con furia, contiene qualcosa di maligno. Si direbbe che abbia voluto raffigurare così le due opposte tensioni, passionale e contemplativa, dolorosa e pacificata, che hanno percorso i suoi giorni.Nonostante appaia come un bozzetto, si tratta di una composizione su cui l’artista ha lavorato anche a livello formale, come dimostra il piccolo schizzo con le stesse tre teste in basso a destra.
Egon Schiele, Triplo autoritratto, 1913, gouache, acquerello e grafite, cm 48×32, Collezione privata
Con l’avanzare del Novecento il tema del triplo ritratto passerà presto alla fotografia. Man Ray lo affronta nel 1926 con un fotomontaggio della ricca americana Rose Wheeler vista di fronte, di tre quarti e di profilo. È forse l’opera che più somiglia al genere inaugurato da van Dyck: un’esplorazione della fisionomia umana ma anche una sottile indagine psicologica che evidenzia le differenze espressive che esistono tra un ritratto di profilo (tipico del Rinascimento), un volto di tre quarti (di origine fiamminga e poi adottato a fine Quattrocento anche in Italia) e il volto frontale di ascendenza medievale (era il modo in cui veniva raffigurato Cristo).
Man Ray, Triplo ritratto di Rose Wheeler, 1926, stampa a gelatina ai sali d’argento, cm 14×10, Centre Pompidou, Parigi
Dopo venne il turno del fotografo francese Philippe Halsman e del suo triplice volto di Marilyn Monroe del 1955. In questo caso non c’è un interesse compositivo e vagamente surrealista come per Man Ray ma un preciso interesse per ciò che racconta il viso di una persona. «Ogni volto che vedo sembra nascondere – e a volte rivelare fugacemente – il mistero di un altro essere umano», diceva il fotografo. 
Philippe Halsman, Tripla Marilyn, 1955, stampa in gelatina ai sali d’argento, cm 25×33
Il triplo Elvis di Andy Warhol si inserisce invece nel suo metodo moltiplicatorio che parte da una fotografia o dal fotogramma di un film (in questo caso una scena di “Stella di fuoco” del 1960) per creare un’opera che ricorda le serie infinite e martellanti di manifesti pubblicitari e che, tramite la ripetizione, finisce con l’annullare l’anima del soggetto rendendolo pura immagine.
Andy Warhol, Triplo Elvis, 1963
Con Norman Rockwell torna per un attimo l’antico olio su tela con un ironico autoritratto allo specchio del 1960. L’uso dello specchio, in verità, era da secoli la modalità standard per realizzare l’autoritratto, ma l’originalità sta nel fatto che l’artista ha fatto un passo indietro rispetto al suo dipinto, mostrando così se stesso nell’atto di riflettersi sullo specchio e nel disegno che ne sta uscendo fuori. Non mancano dei divertenti riferimenti alla storia dell’autoritratto nelle cartoline fissate all’angolo superiore della tela che raffigurano i volti di Dürer, Rembrandt, Picasso e van Gogh, mentre dal lato opposto c’è un foglietto con altri 4 autoritratti dell’artista.
Norman Rockwell, Triplo autoritratto, 1960, olio su tela, cm 113×88, Norman Rockwell Museum, Stockbridge
Non dovremmo tuttavia parlare di novità per questo triplo autoritratto, perché questa modalità era già apparsa altre volte prima dell’opera di Rockwell (sebbene non con la stessa autoironia). La più antica è probabilmente una miniatura del 1403 con la pittrice di età greco-romana Marzia che realizza il suo autoritratto.
Marzia dipinge il suo autoritratto, miniatura dalla versione francese del De Claris mulieribus di Boccaccio, 1403, Biblioteca Nazionale di Francia
Poi c’è la tela del pittore austriaco Johannes Gumpp del 1646 che è effettivamente un autoritratto triplo.
Johannes Gumpp, Autoritratto, 1646
Quello del pittore Jean Alphonse Rohen è invece il ritratto di una pittrice intenta ad autoritrarsi.
Jean-Alphonse Roehn (1799-1864), Ritratto di artista che dipinge il suo autoritratto
Ed è proprio lo specchio l’oggetto che chiude questo percorso sui tripli volti. Perché consente ai fotografi di giocare con la moltiplicazione della figura in modo naturale, senza ricorrere a fotomontaggi o ad altri artifici. Ha usato due specchi messi ad angolo Cecil Beaton, l’originale e irriverente fotografo britannico, per  immortalare Mariana van Rensselaer con un cappello disegnato dallo stilista Charles James. I due riflessi laterali restituiscono delle immagini curiose che sembrano evocare a sinistra una Madonna velata e a destra un mercurio col cappello alato.
Cecil Beaton, Mariana van Rensselaer con il cappello di Charles James, 1930
Gli specchi sono invece contrapposti in uno straordinario autoritratto della statunitense Vivian Maier del 1955. Autrice di un’enorme quantità di autoritratti colti sulle più disparate  superfici riflettenti, la fotografa ha scelto qui il mise en abyme, il più sorprendente effetto che due specchi possano dare: quello di moltiplicare all’infinito il riflesso specchiandosi l’uno nell’altro. Tuttavia Maier ha evitato di mostrarci quella scia sempre più piccola di sagome ponendo al centro la sua macchina fotografica e mostrandoci solo un triplo autoritratto.
Vivian Maier, Autoritratto, 1955
Non deve meravigliare che questa antica iconografia sia sopravvissuta fino ai nostri giorni e goda ancora di ottima salute: la tentazione di voler essere uni e trini, il desiderio di indagare le nostre multiple personalità attraverso la nostra faccia-interfaccia, è quasi un istinto naturale e non smette di regalarci accattivanti capolavori.

Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, una paesaggista in Italia

Ieri pomeriggio ho tenuto un seminario online sulla storia del paesaggio pittorico, un percorso che mi ha sempre affascinata per la bellezza delle viste sul mondo che di secolo in secolo si sono succedute.
Per chi volesse rivedere quella passeggiata sul paesaggio dipinto, questo è il video.
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Alla fine del percorso, tra le domande che ho ricevuto, ce n’è stata una che avrei voluto approfondire di più, e cioè se, oltre ai pittori che ho mostrato, ci sono state anche paesaggiste donne.
Emma Löwstedt-Chadwick (1855-1932), Parasole, Bretagna, 1880, olio su tavola, cm 29 x 50, Collezione privata
Certamente ce ne sono state, sebbene in numero molto inferiore rispetto agli uomini (dipingere all’aperto, per altro, era giudicato “sconveniente” per le donne).
Kitty Lange Kielland, Panorama a Cernay-la-Ville, 1885/1887, olio su tela, cm 46×55, Museo nazionale, Oslo
Se non le ho incluse in quel percorso è perché mi sono mossa partendo da particolari vedute che mi interessava mostrare, perché caratterizzate da un modo specifico di intendere il paesaggio, senza tenere conto di chi fosse l’autore.
Ma voglio cogliere l’occasione di questa domanda per raccontare la storia di una paesaggista francese di straordinario talento: Louise-Joséphine Sarazin de Belmont.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Autoritratto, 21 giugno 1849, grafite su carta, cm 16×20, Kupferstich-Kabinett, Dresda
Nacque a Versailles nel 1790 e studiò pittura privatamente (alle donne non era consentito frequentare l’Accademia) con Pierre-Henri de Valenciennes (1750-1819) un importante paesaggista francese, maestro di un’intera generazione di pittori della natura e anticipatore della grande stagione della pittura en plein air. Già nel 1799, nel suo testo teorico sulla pittura di paesaggio, Valenciennes scriveva «è buona cosa dipingere lo stesso soggetto in diverse ore del giorno, per osservare la differenza delle forme prodotta dalla luce».
Pierre-Henri de Valenciennes, Vista di Roma, 1782-1784, olio su cartone, cm 19×39, Cleveland Museum of Art
Negli anni del Primo Impero, la giovanissima pittrice fu incoraggiata dalla stessa Giuseppina di Beauharnais, moglie di Napoleone, e già a 22 anni, nel 1812, presentò i primi dipinti al Salon (dove continuerà a esporre fino al 1868). Dopo la Restaurazione fu una protetta della Duchessa di Berry, cioè Carolina di Borbone principessa delle Due Sicilie, che possedeva almeno 12 tele di Sarazin de Belmont. Fu apprezzata anche dai colleghi pittori, in particolare da Ingres.
Carl Christian Vogel von Vogelstein, Ritratto di Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, 1843, grafite su carta, cm 34×23, Kupferstich-Kabinett, Dresda
Spirito indipendente, Sarazin de Belmont iniziò a viaggiare incessantemente per dipingere all’aria aperta, spesso in luoghi remoti. Fu tra i primi artisti a dipingere nei Pirenei, dove realizzò un gruppo di studi pensati come “cartoline” per i viaggiatori. Intraprese numerosi viaggi nella regione tra il 1828 e il 1835 e affittò persino un umile cottage di pastori dove visse da sola per tre mesi per dipingere “sur nature”, un atteggiamento molto audace per una donna della sua epoca!
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Viste dei Pirenei, 1828-1835, olio su carta, montato su tavola, cm 95×100, Collezione privata
Sempre nei Pirenei, nel 1830, Louise-Joséphine raffigurò il magnificente Circo di Gavarnie, un enorme teatro di monti del diametro di 6 km.
Louise-Josephine Sarazin de Belmont, Il Circo di Gavarnie, 1830, olio su tela, cm 72×105, Kunsthalle, Karlsruhe
Nel 1833 raffigurò anche la foresta di Fontainebleau, luogo dove si stava formando la Scuola di Barbizon. A differenza degli studi di piccolo formato, realizzati con pennellate sciolte e un vivido effetto di naturalezza, questa tela mostra un linguaggio più accademico e la tentazione di fare di quel luogo una veduta ideale, che tendono a irrigidire leggermente la scena.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Interno della foresta di Fontainebleau, 1833, olio su tela, cm 44×60, Musée d’arts de Nantes
Decisamente più fresco è il piccolo dipinto – forse concepito come souvenir da regalare – che raffigura una costa rocciosa con bagnanti (in Bretagna o in Normandia), del 1835. Nella scena alcune donne si spogliano per fare il bagno mentre una donna vestita con un grande cappello, probabilmente un autoritratto della pittrice, rimane a riva a disegnare.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Costa rocciosa con bagnanti, 1835, olio su carta montato su cartone, cm 14×19, Fondation Custodia, Parigi
Allo stesso anno appartiene anche una suggestiva Veduta di Parigi dal Louvre con il sole che sorge dietro il Pont Neuf e l’Île de la Cité. Da notare l’effetto dei raggi di sole che fuoriescono da alcune nubi che richiamano certe scenografiche albe di Claude Lorrain.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Vista di Parigi dal Louvre, 1835, olio su tela, cm 119×162, Rhode Island School of Design Museum, Providence
Simili raggi luminosi si trovano anche nella Vista di Saint-Pol-de-Léon, città della Bretagna che la pittrice raffigurò nel 1837. Qui torna la tipica nitidezza dei paesaggi classici, con l’albero in primo piano sul bordo della tela e un dettagliato skyline del centro abitato sullo sfondo. Ma la dolcezza del cielo nuvoloso ammanta la scena di un palpitante senso di armonia con la natura.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Veduta di Saint-Pol-de-Léon, 1837, olio su carta, Musée des Beaux-Arts de Quimper
Oltre alla Francia, Sarazin de Belmont dipinse anche in Germania e in Svizzera, ma il grosso della sua produzione riguarda l’Italia, il Paese tanto amato dove l’artista visse e lavorò tra il 1824 e il 1826 e di nuovo tra il 1841 e il 1865.
Tra le prime opere italiane alcune vedute imperdibili per artisti e viaggiatori del Grand Tour, come la cascate di Tivoli, dipinte nel 1826. La maestosa visione è colta dal basso, dalla valle dell’Inferno, e include in alto a destra anche il Tempio di Vesta. Si tratta di un tipico paesaggio romantico, che unisce storia e natura in un insieme allo stesso tempo sublime e pittoresco.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Le cascate di Tivoli, 1826, olio su carta montata su tela, cm 72×42, Fine Arts Museum of San Francisco

La stessa fusione tra classicità e paesaggio viene ritrovata dalla pittrice in Sicilia, terra che attraversò in lungo e in largo, e in particolare presso il teatro greco-romano di Taormina. Quella veduta, con la cavea ricoperta d’erba e il vulcano che svetta sopra la scenae frons, era talmente attraente che Sarazin de Belmont la raffigurò due volte, nel 1825 e nel 1828.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Il teatro romano, Taormina, 1825, olio su carta montato su tavola, cm 41×57, Metropolitan Museum, New York
I due dipinti differiscono per pochi dettagli e per il denso pennacchio di fumo che sale dall’Etna nella seconda veduta.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Il teatro romano di Taormina, 1828, olio su carta montato su tela, cm 43×59, National Gallery of Art, Washington DC
Sempre in Sicilia, nel corso della prima permanenza italiana, la pittrice ha raffigurato le costruzioni sul Monte di San Giuliano, a Erice (il castello di Venere e il castello del Balio).
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Vista del Castello di San Giuliano, vicino Trapani, Sicilia, 1824-1826, olio su tela, cm 23×30, National Gallery of Art, Washington DC
Quella veduta, successivamente arricchita della Torretta Pèpoli (1872-1880), è ancora oggi un vero incanto.

Alla seconda permanenza in Italia, durata ben 24 anni, appartengono opere come la vista di Roma da Monte Mario, un tipico paesaggio  classico con il cupolone sullo sfondo e una donna in primo piano seduta presso un’erma femminile e un sarcofago romano.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Roma, vista da Monte Mario, 1842-1859, olio su tela, cm 140×198, Musée des Augustins, Toulouse
Composizioni simili sono state dedicate dalla pittrice anche al panorama di Firenze da San Miniato…
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Firenze, vista da San Miniato, 1842-1859, olio su tela, cm 140×198, Chambre de Commerce de Toulouse
… e a quello di Posillipo da Napoli. Questo, in particolare, è un’anticipazione della tipica cartolina partenopea, con i pini a destra e il Vesuvio sullo sfondo.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Napoli, vista di Posillipo, 1842, olio su tela, cm 139×197, Muséè des Augustins, Toulouse
Tra l’enorme mole di dipinti italiani c’è anche qualche bozzetto incompiuto che svela il processo artistico di Louise-Joséphine. Questo, un cui spicca una bella cupola argentea, è uno di quelli.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Vista di una città italiana, s.d., olio su tela, montato su carta, cm 11×18, Metropolitan Museum, New York
Per finanziare il suo stile di vita da artista itinerante, Sarazin de Belmont organizzò a Parigi delle aste personali delle sue opere, che si tennero nel 1829, 1839 e 1859. Fu la prima artista donna a farlo.Inoltre, a differenza dei primi pittori en plein air, vendette sia i paesaggi finiti sia gli studi a olio, anche se questi furono probabilmente ritoccati in studio. È il caso, per esempio, di questa veduta dipinta dall’interno di una grotta, iniziata sul posto e completata con alcune aggiunte successive, come la vegetazione pendente. La scelta di collocare l’osservatore all’interno della grotta crea un effetto-finestra che incornicia la vista sulle montagne lontane.
Louise-Joséphine Sarazin de Belmont, Grotta in paesaggio roccioso, s.d., olio su carta montato su tela, cm 42×57, Collezione privata
Non paga della sua attività di pittrice, Sarazin de Belmont si dedicò fin dall’inizio anche alla litografia, tecnica che le consentiva di produrre numerose copie della stessa immagine e quindi di poter diffondere maggiormente il suo lavoro. Ai Pirenei, in particolare, dedicò un’intera pubblicazione a stampa intitolata Album des Pyrénées.

Con la sua lunga carriera artistica – si spense a Parigi nel 1870, all’età di 80 anni – Sarazin de Belmont ha aperto la strada alle pittrici di paesaggio dell’Ottocento. È sepolta al cimitero di Montparnasse assieme a Carmela Bucalo Vinciguerra, la compagna siciliana conosciuta a Taormina da cui la pittrice non si separò mai. Le sue opere si trovano oggi nei più importanti musei d’Europa e Stati Uniti.

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