Riflessioni estive su Dante
Quando si pensa al V° canto dell’Inferno, dedicato ai peccatori di lussuria, a tutti viene in mente la celeberrima vicenda di Paolo e Francesca; e benché in giro ci sia tanta ignoranza, penso che questo episodio sia talmente famoso da essere noto a tutti, almeno per sentito dire. Io, rileggendo per l’ennesima volta il testo dantesco in questa estate infuocata, mi sono concentrato di più sulla prima parte del canto, su cui mi è venuto spontaneo fare alcune osservazioni, senza la pretesa di dire nulla di nuovo a livello esegetico. Per carità, sono un semplice lettore!
La figura di Minosse, anzitutto. Giudice infernale già da Virgilio (Eneide, VI, 432-33) è però trasfigurato da Dante che ne fa un mostro diabolico tipico delle raffigurazioni medievali, non solo perché “ringhia orribilmente” ma anche perché ha la coda, attributo non certo umano, con la quale indica ai dannati il luogo d’inferno dove debbono stabilirsi. Tuttavia egli non ha perso la sua umanità, perché è in grado di parlare e di mettere in guardia Dante sull’ampiezza (cioè la facilità) con cui si può entrare nell’inferno, da cui invece è impossibile uscire; ed anche qui la metafora dell’ampiezza, che significa in realtà la facilità con cui si cade nel peccato, è di origine virgiliana: è la Sibilla stessa, infatti, che dice ad Enea “facilis descensus Averno” e che la porta dell’oltretomba “patet”, cioè è aperta notte e giorno, a indicare che tutti prima o poi dovranno attraversarla (Eneide, VI, 126-8).
Giunto sul luogo dove la bufera infernale trascina gli spiriti, Dante si trova in un mondo che potremmo definire “alla rovescia”, perché con il peccato di incontinenza (di lussuria in questo caso specifico) i dannati hanno sovvertito l’ordine morale voluto da Dio, in quanto hanno preferito seguire la via sbagliata dei propri istinti corporei anziché quella retta della ragione che dovrebbe tenere a freno questi istinti: e qui, nella frase famosa “la ragion sommettono al talento” (v.39) si sente un’eco non solo della dottrina cristiana ma anche del razionalismo di certe filosofie antiche come lo stoicismo, di cui il poeta trovava in Cicerone ed in Seneca molti esempi.
Ciò che mi ha colpito di questo “mondo alla rovescia” degli istinti dominanti sulla ragione è però il fatto che Dante, con la grandezza della sua arte, lo rende percepibile anche stilisticamente, con il ricorso a figure retoriche come la climax discendente e l’hysteron proteron, che rovesciano un pensiero esprimendo in anticipo ciò che logicamente verrebbe dopo. Esempio del primo procedimento mi pare il v. 36, “quivi le strida, il compianto, il lamento”, una successione antitetica rispetto alla prevedibile realtà, in quanto le strida dovrebbero essere la conseguenza del compianto e del lamento, non la loro origine. Della seconda figura abbiamo due esempi chiarissimi: quando si parla di Semiramide Dante dice ch’ella “succedette a Nino e fu sua sposa” (v.59), il che capovolge la successione cronologica in quanto ella fu prima sposa di Nino e poi gli succedette. Lo stesso accade per Didone, “che s’ancise amorosa e ruppe fede al cener di Sicheo” (vv. 61-2), con successione logica capovolta in quanto la sfortunata regina di Cartagine prima ruppe la fede di Sicheo e poi si uccise.
Con questi espedienti stilistici, parte integrante della grandissima arte del poeta, Dante ha inteso introdurre il lettore nel clima infernale, che, per la sua natura oscura e peccaminosa, è un mondo rovesciato rispetto a quello che la parola di Dio ha indicato all’uomo invitandolo a seguire la strada della virtù. Spesso gli elementi formali vengono trascurati nell’esegesi moderna, pronta a cogliere di preferenza altri aspetti dell’enunciato poetico; ma Dante, anche in questo degno successore di Virgilio e degli altri poeti antichi, ha dimostrato che non può esistere il contenuto senza la forma, come non può esistere la forma senza contenuto.
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