Un presepe matematico

Un mondo di connessioni affascinanti tra matematica e tradizione. Un presepe matematico e gli Auguri di Buon Natale che la Matematica in persona rivolge ai matematici.

Per augurare un sereno Natale al pubblico di Matmedia, non senza esprimere la speranza che l’orrore delle guerre abbia fine, ci siamo rivolti all’I.A. con questo interrogativo:

è possibile immaginare un rapporto fra il presepe e la matematica?

Nel rispondere, l’I.A. si è prodotta in una serie di approfondimenti progressivi, che hanno comportato anche qualche ripetizione, come avviene quando ci si adegua al motto latino repetita iuvant …

Ecco la risposta:

“La tua domanda, solo apparentemente semplice, apre un mondo di connessioni affascinanti tra matematica e tradizione.

Perché un presepe matematico?

Proporzioni e geometrie: la costruzione di un presepe implica una serie di scelte precise riguardo alle proporzioni tra i personaggi, agli angoli delle costruzioni, alla disposizione degli elementi nello spazio. Tutto ciò richiede una buona dose di geometria e di calcolo delle proporzioni. Simbolismo numerico: molti elementi del presepe hanno un significato simbolico legato ai numeri. Ad esempio, i dodici apostoli, i tre Magi, i sette sacramenti. Sequenze e pattern: la disposizione dei personaggi e degli oggetti nel presepe spesso segue sequenze e pattern ben precisi, che possono essere analizzati con strumenti matematici. Modellazione: la creazione di un presepe può essere vista come un processo di modellazione, dove si parte da un’idea e si costruisce un oggetto tridimensionale, utilizzando concetti matematici come volume, area e perimetro.

Esempi concreti:

Calcolo

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I sessant’anni della scuola media

I sessant’anni della scuola media. Storia dei cambiamenti avvenuti negli insegnamenti di matematica e scienze in un’ottica fusionista.
Giacinto Bosco (1905 – 1997)
La legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 istituì la scuola media unica per tutti i preadolescenti italiani.
Dopo la pubblicazione dei programmi per la scuola elementare nel 1955, dominava un marcato ottimismo circa la definizione dell’assetto da dare alla scuola media, problema reso peraltro impellente dal dettato costituzionale sull’obbligo scolastico. Ci fu bisogno però di un ulteriore settennio di maturazione perché fosse varata la più importante legge del sistema scolastico italiano del dopoguerra,  la legge 31 dicembre 1962, n. 1859, che istituisce e ordina la «nuova» Scuola Media:
Art.1. — Fini e durata della scuola
                 In attuazione dell’articolo 34 della Costituzione, l’istruzione obbligatoria successiva a quella elementare è impartita gratui­tamente nella scuola media, che ha la durata di tre anni ed è scuola secondaria di primo grado.                La scuola media concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i princìpi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva.
 Art. 2. — Piano di studi
                 Il piano di studi della scuola media comprende i seguenti insegnamenti obbligatori: religione (con la particolare disci­plina di cui alla legge 5 giugno 1930, n. 824); italiano, storia ed educazione civica, geografia; matematica, osservazioni ed elementi di scienze naturali; lingua straniera; educazione artistica; educazione fisica.Sono inoltre obbligatorie nella prima classe le applicazio­ni tecniche e l’educazione musicale che diventano facoltative nelle classi successive.Nella seconda classe l’insegnamento dell’italiano viene in­tegrato da elementari conoscenze di latino, che consentano di dare all’alunno una prima idea delle affinità e differenze fra le due lingue.Come materia autonoma, l’insegnamento del latino ha ini­zio in terza classe; tale materia è facoltativa.L’alunno che intenda seguire insegnamenti facoltativi può sceglierne uno o più all’inizio di ogni anno scolastico.Per assicurare con la partecipazione attiva di tutti  gli insegnanti la necessaria unità di insegnamento  il Consiglio di Classe si riunisce almeno una volta al mese[1].
I programmi, gli orari e le prove di esame furono stabiliti con D. M. del 24.4.1963 e pubblicati nel supplemento ordinario n. 1 della G.U. n.124 dell’11.5.1963.
La Matematica e le Osservazioni ed elementi di scienze naturali vi figurano come corsi distinti. La matematica ha 3 ore in ciascuna classe del triennio, e prevede agli esami di licenza prove scritte e orali; alle Osservazioni ed  elementi di scienze sono assegnate 2 ore in prima e in seconda classe e 3 ore nella terza, un voto per l’orale e uno per la pratica.
È  successivamente che avviene il “pasticcio”: è il D.P.R. 15.11.1963 n. 2063 che abbina gli insegnamenti istituendo una cattedra di 16 ore d’insegnamento settimanali per ciascun corso.
Non fu una soluzione inventata dalla sera alla mattina, ma v’era stato un lungo dibattito e un’esperienza di sperimentazione avviata già dal 1957 in molte scuole[2]. Se da una parte, però, la scelta fu determinata anche da motivi organizzativi e pratici  (tra l’altro anche la previsione della necessità, di lì a pochi anni, di un numero elevato di docenti), dall’altra si era formato il convincimento, condiviso più dai politici e dai pedagogisti che dai matematici, che fosse necessario a tale livello di età non frantumare troppo gli insegnamenti. Si riconosceva, infatti, che uno dei vantaggi dell’antico ginnasio inferiore, che anche la scuola media di Bottai (1940) aveva ereditato, era costituito dall’insegnante di classe, il quale svolgendo l’intero gruppo letterario (italiano, latino, storia, geografia, a cui poi si era aggiunta l’educazione civica) “dava di fatto unità all’insegnamento, continuando in certo modo l’unicità di insegnante della scuola elementare, ed evitando nella delicata età della preadolescenza la molteplicità di metodi e di impostazione, inevitabilmente congiunta con la molteplicità di insegnanti. Da questo punto di vista… sembra molto opportuno l’abbinamento della matematica con le osservazioni ed elementi di scienze naturali, che tuttavia pare abbia sollevato difficoltà da parte di alcuni insegnanti di queste discipline”[3]
Tullio Viola (1904 – 1985)
Le difficoltà consistevano, è ovvio, nel dover insegnare cose che non si conoscevano e questo valeva sia per i laureati in matematica che per i laureati in scienze.
A farsi portavoce di tali difficoltà fu l’UMI, il cui ufficio di Presidenza espresse voto unanime contro l’abbinamento perché  “non giova né alla serietà né alla efficacia dell’insegnamento ed è lesivo dei diritti degli insegnanti di ruolo di Matematica”. Ma anche la Mathesis,  presidente Tullio Viola[4] (1904-1985, nella foto a lato), provvide ad inviare al Ministro un “Manifesto” con le firme di 637 docenti che giudicavano “l’abbinamento tra le due materie come fatalmente e gravemente dannoso anche dal solo punto di vista della formazione dei giovani allievi dagli 11 ai 14 anni”. Ad eccezione delle osservazioni sul disagio dei professori di matematica i quali, pur in presenza di un minor numero di classi affidate, sono costretti ad insegnare le scienze, le motivazioni addotte contro l’abbinamento  appaiono, però, abbastanza ripetitive, basandosi sulla impreparazione dei docenti ad insegnare ugualmente bene la matematica e le scienze.
Giganteggia, invece, la figura di B. de Finetti che ovviamente è per l’abbinamento: lui è sempre e solo per la “fusione”.
Vorrebbe non solo non separare la persona (un esempio che fa anche, contrariamente a quel che tutti propongono, per il caso dell’insegnante di matematica e fisica) ma neppure le ore d’insegnamento  (e così sarà in seguito). Espone e motiva la sua posizione in modo esauriente, ponendo a fondamento del suo ragionamento l’assioma: «Nessuna disciplina, avulsa dal contesto generale, giustifica la propria esistenza e la fatica imposta a chi deve apprenderla» e arriva finanche ad abbozzare un possibile futuro libro di testo organizzato a mo’ di dizionario enciclopedico.
La sua è un’idea nuova confacente a quel clima culturale, pedagogico e didattico che favorisce l’abbinamento.
È  quel clima che si alimenta dell’opera di Emma Castelnuovo e di altre voci nuove. Ancor prima che l’abbinamento fosse sancito dal D.P.R. del mese di novembre, nella sua “Didattica della Matematica”, la cui prima edizione è del marzo 1963, con riferimento ai “continui ravvicinamenti” dei due corsi, la Castelnuovo scrive:
« Siamo certamente tutti d’accordo nel riconoscere che l’edu­cazione scientifica deve avere per scopo di far passare da una visione fantasiosa, magica, sovrannaturale del mondo che ci cir­conda ad un’obiettiva consapevolezza e ad un sereno giudizio dei fenomeni naturali; deve essere, in breve, una continua asce­sa nell’arte del saper guardare. Ora, mi sembra di poter distin­guere in questa ascesa quattro grandi periodi ai quali dovreb­bero corrispondere quattro tappe nel corso triennale:
I) L’osservazione dei passatempi preferiti dal bambino sui 10-11 anni ci offre l’opportunità di una scoperta pedago­gica; è a quell’età che si acuisce nel bimbo la passione clas­sificatoria: raccolta di figurine, di francobolli, di farfalle, ecc. Il collezionismo è — per usare una felice espressione della Montessori — il “momento sensibile” del periodo intorno ai 10 anni. È dunque proprio a questa età, nel primo anno della scuola media, che dobbiamo interessare i ragazzi alla classificazione degli animali e delle piante.[….] La costruzione di una classificazio­ne ha per scopo di organizzare le idee, di dare un ordine alle forme, al Ci accorgiamo di essere in piena costruzione matematica: è lo stesso processo mentale infatti che ci conduce, ad esem­pio in geometria, alla classificazione delle famiglie dei poligo­ni[….] Il “saper guardare” porta dunque il ragazzo, spontanea­mente, senza ausilio del numero, ma sorretto da un abito ma­tematico, ad una costruzione astratta basata su osservazioni qualitative: il bambino, analizzando il concreto, coglie analogie e diversità, raggruppa cose simili, forma delle classi, costruisce, sintetizza. Si può, per nostra comodità e guida di pensiero, associare questo periodo al nome di Aristotele.
II) Ma una più precisa osservazione esige la Se vogliamo approfondire la nostra indagine sulla natura dovre­mo cominciare a valerci non solo dell’abito matematico ma anche della matematica come strumento: dovremo osservare la natura misurando quello che i sensi e il pensiero ci sug­geriscono. Se avevamo associato il primo periodo al nome di Aristotele, potremo associare questo secondo periodo al nome di Leonardo da Vinci: «L’esperienza sui fenomeni naturali — dice Leonardo — va fatta misurando». Si troveranno rapporti, proporzioni, armonie nella natura, quelle stesse armonie che i Greci avevano trovato nell’arte. Così lo studio della botanica porterà alla scoperta della fillotassi, la zoologia e l’anatomia del corpo umano ci offriranno infiniti spunti e continuo terreno di ricerca. Al giudizio vago e personale si sostituiscono dei dati numerici, universali. Si va dunque avanti nell’arte di saper guardare; prima erano le somiglianze, le diversità, le forme, era il qualitativo, che ci faceva distinguere, discernere, scoprire gli invarianti; ora, in questo secondo periodo, il saper guardare vuol dire affinare i sensi con l’ausilio del numero: è il quantitativo che ci fa scoprire uguaglianze di rapporti, semplici leggi di proporzioni.
III) Ma la sola misura in un certo numero di casi non è spesso sufficiente per scoprire la legge. Dobbiamo arrivare al terzo stadio, al sistema ipotetico-deduttivo di Galilei per poter dare al ragazzo la consapevolezza della potenza dello strumento matematico allo scopo di riuscire a leggere nel «gran libro della natura».
Galileo si rivolge, come Leonardo, all’esperienza, ma non si accontenta di ciò che essa dà spontaneamente. La natura viene provocata, interrogata, idealizzata; si fanno delle ipo­tesi sui fenomeni che si rivelano ai sensi, si deducono da que­ste ipotesi delle conseguenze, si verifica con esperimenti se queste conseguenze sono esatte.
Anche a dei ragazzetti possiamo parlare del problema del­la caduta dei gravi: possiamo loro riferire dell’ipotesi di Ga­lileo che la velocità sia proporzionale al tempo; è difficile verifi­care direttamente questa legge, ma, se vale questa legge se ne trae la conseguenza che gli spazi sono proporzionali ai qua­drati dei tempi; e questa seconda legge è facile verificarla spe­rimentalmente. È vera allora l’ipotesi da cui eravamo partiti. Non è solo la potenza del procedimento ipotetico-deduttivo che il ragazzo coglie in un’esperienza di fisica molto meglio che in un ragionamento geometrico, ma egli comprende «sul vivo» la dinamicità di una formula, e questo è — a mio av­viso — un risultato importantissimo. Le formule che noi presentiamo nel corso di matematica appaiono in generale come qualcosa di fisso, di statico; cogliere la dinamicità di una for­mula significa entrare in pieno nel concetto di funzione […].
IV) il quarto periodo infine è quello di Cartesio, è l’identificazione di algebra e geometria attraverso un saper guardare che porta l’attenzione non più sul particolare ente (sia esso numero o figura), ma sulle leggi formali che legano questi enti.
La cattedra di Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali
Le proteste dei matematici però non rimasero inascoltate. La C.M. 10 luglio 1965, n. 292 consentirà ai Presidi di affidare a due docenti distinti, per ogni due corsi, l’insegnamento della Matematica e quello delle Osservazioni ed elementi di scienze naturali. In tal caso, ovviamente, il docente che avrebbe assunto quest’ultimo insegnamento doveva completare il suo orario di cattedra in una classe collaterale, effettuando così 16 o 17 ore settimanali, mentre l’altro docente, insegnando la sola matematica per 3 ore settimanali in ciascuna classe dei due corsi, avrebbe avuto un carico orario di 18 ore settimanali. La prospettata soluzione però non ebbe gran seguito; i docenti preferirono sempre di più l’impegno nelle sole tre classi di un corso mantenendo l’abbinamento dei due insegnamenti.  Si arriva così dodici anni più tardi con la L. 348 del 16.6.1977 a sancire un insegnamento unitario che assume la denominazione di Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali al posto di Matematica e Osservazioni ed Elementi di Scienze Naturali. Un insegnamento di matematica e di scienze integrate, finalizzato anche all’educazione sanitaria, che la legge potenzia portando la cattedra da 16 a 18 ore, 6 ore per classe senza altra distinzione interna. Saranno i programmi del 1979[5] a raccomandare di prevedere  per ciascun anno una distribuzione equilibrata dei tempi da dedicare rispettivamente alla matematica e alle scienze sperimentali, e ciò  perché, dati i frequenti collegamenti e la costante interazione prevista nel lavoro di classe fra la matematica e le scienze sperimentali, non è possibile stabilire una rigida ripartizione dell’orario settimanale fra le due aree.
Quei programmi del 1979 rappresentano il punto di arrivo e la meta qualitativa più elevata delle riflessioni sul rinnovamento pedagogico e didattico che aveva infervorato l’ultimo ventennio. Alla loro redazione lavorarono molti dei personaggi che quel dibattito avevano alimentato. realizzando un documento che ancora oggi si presenta il  più completo e maturo e di armonica e coerente sintesi di pedagogia e scienza. Quei programmi, definiti anche tra i migliori d’Europa, rimasero, sia per l’organizzazione dei contenuti in grandi temi che per la modalità di scrittura e per i principi pedagogici, il riferimento per i programmi ministeriali che li seguirono, da quelli delle elementari del 1985 a quelli per il PNI e a quelli del progetto Brocca, cioè fino a quando ha avuto un senso parlare di programmi ministeriali.
La legge sull’autonomia scolastica (1997) infatti affiderà alle scuole il compito di costruire il programma di insegnamento, riservando al Ministero quello di definire gli obiettivi formativi cui i programmi delle scuole, tutte le scuole del territorio nazionale, devono tendere. Ai programmi ministeriali si sostituiscono così le Indicazioni Nazionali,  ovvero gli standard di conoscenze e competenze che ogni scuola avrebbe dovuto perseguire. Un cambiamento la cui influenza sul piano pedagogico e didattico si palesa  potenzialmente notevole.
Le prime Indicazioni Nazionali per il primo ciclo, primaria e secondaria di primo grado (non si chiama più scuola media), sono del 2004  legge Moratti).  Esse non fanno più riferimento ad una cattedra di Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali, ma contemplano l’insegnamento di Matematica e l’insegnamento di Scienze e Tecnologia. L’unitarietà degli insegnamenti così faticosamente raggiunta fu così rinnegata,[6] smembrata anche nel piano orario che su base annua assegnava mediamente 127 ore alla Matematica e 118 ore complessive a Scienze e Tecnologia, ovvero 85 per Scienze e 33 per Tecnologia[7]. Una separazione però durata poco, poco gradita a docenti, presidi e famiglie e all’amministrazione per le difficoltà di gestione delle cattedre (per legge di 18 ore), e gli stessi matematici sono ritornati sulle loro posizioni e hanno lasciato correre. Le attuali Indicazioni Nazionali, in vigore dal 1° settembre 2013, ricostituiscono l’unitarietà perduta: c’è un solo insegnamento, e non si chiama Scienze Matematiche, Chimiche, Fisiche e Naturali, ma ha la denominazione di Matematica e Scienze con sei ore settimanali indivise. Il problema però rimane: è quello dei docenti cui si chiede di possedere padronanza di un campo vastissimo di conoscenze e abilità non sorretto da opportunità formative adeguate.
I principi pedagogici e i contenuti dei programmi della scuola media del 1963 e del 1979
Già la premessa ai programmi del 1963 scandisce in chiare e precise raccomandazioni ai docenti quello che è il frutto migliore del pensiero pedagogico:

La continuità pedagogica (non occorre cominciare da zero): sarà […] necessario raccordarsi con l’insegnamento elementare utilizzando subito le nozioni che l’alunno già possiede (per esempio quelle sulle aree di particolari poligoni, sul sistema metrico decimale, ecc.).
L’ordine della trattazione: la ripartizione del programma nei tre anni di corso e l’ordine degli argomenti per ciascuno di essi non hanno valore vincolante. Ad esempio, già nella prima classe, accennando alle successive estensioni del concetto di numero, potrà essere anticipata la nozione di un numero relativo.
L’insegnamento a spirale: l’insegnante che in relazione allo sviluppo psicologico dell’alunno non abbia ritenuto di trattenersi a lungo sui capitoli più complessi, accontentandosi di una prima, sia pure approssimata, visione d’insieme, riprenderà in seguito i medesimi argomenti per un’analisi più approfondita al fine di un migliore svolgimento del programma.
Pedagogia dell’interesse, metodo genetico: nel passaggio dallo studio dei numeri interi a quello dei razionali e dei relativi, il professore potrà far cogliere agli alunni il processo storico e quello formale che hanno condotto alle successive estensioni del numero. Potrebbe anche essere utile dare un cenno, sotto la stessa luce, dei numeri irrazionali che si presentano con l’estrazione di radice quadrata.
Unità della matematica, fusionismo di de Finetti: sarà cura costante l’armonizzare l’aritmetica con la geometria.
Fusionismo in geometria: argomenti di geometria dello spazio potranno essere introdotti parallelamente ad altri riguardanti il piano, se una qualche analogia facilita la comprensione  (quadrato e cubo…).
Visualizzazione, operatività: è consigliabile, ogni volta che se ne presenti l’occasione, il ricorso ai “grafici “, per la traduzione visiva che essi forniscono delle più varie circostanze, tenendo conto che l’insegnamento parallelo di osservazioni ed elementi di scienze naturali offrirà frequenti spunti per la rappresentazione grafica di relazioni.
La sistemazione e la riflessione su ciò che si sa, dal concreto all’astratto: nella terza classe si [….] porterà [….] l’alunno a ripensare e a riflettere sul programma svolto nelle tre classi al fine di far cogliere il senso e la necessità del passaggio da uno studio sperimentale e concreto a concezioni astratte e indagini razionali.
Pedagogia del controesempio: si terrà presente che una nozione può assumere un più chiaro significato se messa a raffronto con una nozione antitetica o parallela : così, per esempio, il sistema di numerazione decimale acquista tutto il suo valore ove lo si confronti con sistemi non posizionali o con sistemi a base diversa dal dieci ; e così, per mettere in risalto le proprietà formali delle operazioni, l’insegnante potrà portare esempi di leggi di composizione su insiemi numerici e non numerici, in cui tali proprietà vengano a mancare.
Metodo euristico, il valore dell’esercizio: l’esercizio non dovrà essere soltanto strumentale per il consolidamento della tecnica delle operazioni e dei procedimenti; esso deve essere inteso a fare gradualmente acquisire all’alunno il pieno possesso dei significati concettuali. Pertanto non ci si dovrà trattenere su complicati calcoli (espressioni aritmetiche laboriose; scomposizioni in fattori primi di numeri molto grandi; …).
Metodo attivo: alcune esercitazioni consisteranno in relazioni scritte e orali aventi il fine precipuo di fare esprimere all’alunno il proprio pensiero su elementari questioni matematiche derivanti da osservazioni spontanee e sopra le quali l’insegnante avrà chiamato la sua attenzione con suggerimenti, esperienze e ricorso a sussidi didattici (modelli, dispositivi, ecc.). Tali relazioni abitueranno l’alunno alla riflessione, alla correttezza e alla sobrietà di espressione.

 Con chiarezza, sobrietà e concisione si esprime quasi tutto: dai metodi dell’insegnamento attivo, alla pedagogia del controesempio, al metodo bruneriano (ma già di Comenio) dell’approfondimento ciclico o a spirale, dal fusionismo ad un primo accenno di riferimento alla matematica moderna (le leggi di composizione), dal valore della prospettiva storica e dell’esercizio, all’invito a parlare e scrivere di matematica.
Non c’è nulla che non vada e tutto è talmente chiaro e comprensibile che ogni riflessione, ogni possibile miglioramento non può che andare proprio nella direzione di mirare a rafforzare quei principi pedagogici e ad esplicitare meglio taluni contenuti adeguandone anche il linguaggio ai nuovi tempi. È su questo che si discute nell’arco di un quindicennio[8]:  si concorda che manca un riferimento esplicito alla matematica moderna e principalmente agli insiemi e alle strutture e ancora  alla statistica e alla probabilità, alla matematizzazione del reale, alle tecnologie, e si ammette che va precisato meglio il previsto “ricorso ai grafici”, dunque alla geometria cartesiana. Infine va data una risposta alle questioni sull’ordine della trattazione: genetico, psico-genetico, per problemi, ecc.
I programmi del 1979 realizzano tutto ciò prevedendo sette “grandi temi” che mostrano già nei titoli ciò che dei contenuti si vuole rimarcare e rafforzare:

La geometria prima rappresentazione del mondo fisico
Insiemi numerici
Matematica del certo e matematica del probabile
Problemi ed equazioni
Il metodo delle coordinate.
Trasformazioni geometriche
Corrispondenze ed analogie strutturali.

Sul piano pedagogico le concezioni e i metodi già presenti nella premessa del ’63 trovano un loro completamento:
–    nell’insegnamento dinamico della geometria: lo studio della geometria trarrà vantaggio da una presentazione non statica delle figure, che ne renda evidenti le proprietà nell’atto del loro modificarsi; […] La geometria dello spazio non sarà limitata a considerazioni su singole figure, ma dovrà altresì educare alla visione spaziale. È  in questa concezione dinamica che va inteso anche il tema delle trasformazioni geometriche.
–    nell’insegnamento per problemi: si terrà presente che risolvere un problema non significa soltanto applicare regole fisse a situazioni già schematizzate, ma vuol dire anche affrontare problemi allo stato grezzo[9] per cui si chiede all’allievo di farsi carico completo della traduzione in termini matematici.
Ad una didattica per problemi è direttamente connesso il riferimento esplicito alla  matematizzazione intesa come interpretazione matematica della realtà nei suoi vari aspetti (naturali, tecnologici, economici, linguistici…) e particolare rilievo viene ancora dato alla interdisciplinarità e alla operatività: si farà ricorso ad osservazioni, esperimenti, problemi tratti da situazioni concrete così da motivare l’attività matematica della classe e  si sottolineano i legami con la formazione della competenza linguistica, con l’educazione tecnica, con la geografia (metodo delle coordinate, geometria della sfera, …), con l’educazione artistica (prospettiva, simmetrie,…).
Per quanto riguarda gli argomenti, forte è il riferimento all’uso dei materiali[10], e raccomandate sono altresì le costruzioni con riga e compasso e l’uso ragionato degli strumenti di calcolo.
Dopo le accuse di insiemistificazione, il riferimento agli insiemi è posto in una formulazione saggia: il linguaggio degli insiemi potrà essere usato come strumento di chiarificazione, di visione unitaria e di valido aiuto per la formazione di concetti. Si eviterà comunque una trattazione teorica a sé stante, che sarebbe, a questo livello, inopportuna.
Una limitazione è poi inferta ad uno strumento antichissimo:
le proporzioni,  che hanno sempre occupato un posto importante nell’insegnamento già dalle elementari con un legame privilegiato con la realtà e la risoluzione di problemi concreti. Ad esempio, nell’istituto magistrale (l’indirizzo di studio che ha preparato eserciti di maestri)[11] erano particolarmente importanti per le finalità educative e perché consentono di risolvere un’ampia classe di problemi di applicazione dell’algebra alla geometria in modo elementare,   riconducendoli in genere ad equazioni di primo grado (noti il rapporto tra due grandezze e la loro somma o differenza o prodotto, o somma dei quadrati, ecc. ). Ad evitare esagerazioni, nei programmi del 1979 è scritto: l’argomento […] non deve essere appesantito imponendo, come nuove, regole che sono implicite nella proprietà delle operazioni aritmetiche, ma deve essere finalizzato alla scoperta delle leggi di proporzionalità (y = kx; xy = k).
Per quanto riguarda gli argomenti “nuovi”, il successo pieno spetta però alla geometria cartesiana:
il  metodo delle coordinate con il rappresentare graficamente fenomeni e legami fra variabili, aiuterà a passare da un livello intuitivo ad uno più razionale. Alcune trasformazioni geometriche potranno essere considerate anche per questa via. E quella delle coordinate è una via che è divenuta quasi maestra nella pratica didattica a tutti i livelli di scolarità. Tant’è che nella prova scritta di matematica agli esami di licenza media  la geometria analitica è apparsa sempre presente in almeno uno dei 3 o 4 quesiti in cui è articolata la prova[12].  Né la situazione sembra essere mutata in questi anni di disorientamento normativo: dalle prime Indicazioni Nazionali Moratti a quelle Fioroni e alla loro armonizzazione in vigore dal primo settembre del 2013.
Bruno de Finetti (1906-1985)
L’ordine e la struttura per temi
Una rilevanza decisamente maggiore assume poi l’attività di sistemazione e di riflessione su ciò che si è appreso, che trova una suo riferimento specifico soprattutto nel tema 7 ed è rimasta una costante nella didattica della matematica, tenuta particolarmente presente nella redazione dei successivi programmi. Dal punto di vista pedagogico è l’affermazione del convincimento che l’organizzazione dei contenuti matematici debba seguire la formazione dei concetti (Polya: concept formation) ed è la via da seguire per l’introduzione di un’assiomatica. Per la geometria, ad esempio, l’obiettivo da perseguire nella scuola superiore sarà di costruirne l’organizzazione invece di darla come cosa già bella e fatta, in una sua confezione tipo. La sistemazione logica dei contenuti è rinviata agli anni conclusivi del ciclo di studi secondari e ciò trova concretizzazione nei programmi per il PNI e nei piani di studi Brocca, come già detto precedentemente[13]. Si parte invece nei bienni con un lavoro propedeutico di organizzazione logica di piccole “parti”, un insieme ben definito di teoremi legati in una catena deduttiva che fa trasparire l’inferenza logica e prepara il campo alla comprensione del significato di un sistema deduttivo.
Sono  però l’ordine della trattazione e la modalità della struttura per temi le caratteristiche che risaltano di più.
Mentre i programmi del 1963 sono ripartiti per anno e sembrano quasi contraddire quello che è detto nella bella premessa, quelli del 1979 rompono con gli itinerari standard e canonici, chiariscono che non c’è una sistemazione comoda della matematica, riferimento di una via didattica altrettanto comoda, e rimettono alla professionalità dei docenti la scelta del percorso più efficace: “Nel programma i contenuti sono raggruppati in temi  e non elencati in ordine sequenziale, al fine di facilitare la individuazione di quelle idee che appaiono essenziali allo sviluppo del pensiero matematico degli allievi.”  Il docente non deve ripercorrere nell’insegnamento quella che è stata la sua linea di apprendimento né avere a riferimento un ben definito ed esclusivo sviluppo del pensiero matematico, ma deve essere attento a farlo lievitare nei giovani, pronto e sensibile a  manovrare concetti e procedure da saldare insieme trovandone sempre nuovi accostamenti. “I temi – è scritto – non devono essere quindi intesi come capitoli in successione, ma argomenti tratti da temi diversi potranno, in sede di programmazione, alternarsi ed integrarsi nell’itinerario didattico che l’insegnante riterrà più opportuno”.
La struttura per temi, come già più volte detto, è una modalità che ha avuto successo.
Presa a modello e utilizzata nei successivi documenti, ha tuttavia mostrato col tempo alcuni suoi limiti: per esempio,  induce ad accrescere oltre il sostenibile l’ampiezza dei programmi a scapito della coerenza interna degli argomenti. Si parla dei programmi come di raccolte antologiche, di serbatoi enciclopedici. Si cerca di porvi riparo con la tendenza a voler essere più precisi, a dettagliare e ripartire gli argomenti, a corredarli di osservazioni, orientamenti, raccomandazioni e finanche di esempi di esercizi. È un segnale dell’impoverimento della riflessione nel settore della didattica matematica, che si registra tuttavia proprio quando i tempi sono maturi per l’affermazione di un’altra significativa novità, un’altra pietra miliare, e cioè il passaggio dai Programmi Ministeriali  alle Indicazioni Nazionali della legge sull’autonomia scolastica (L. 59/1997 e D.P.R. n.275/99).
Esso stabilisce la dimensione individuale e personale del programma,  che viene affidato alla singola istituzione scolastica e al singolo docente, mentre riserva all’Amministrazione della Scuola il compito di dettare, per l’intero territorio nazionale le mete, i traguardi di conoscenze ed abilità che lo studente deve possedere e la scuola deve aiutare a raggiungere e ad acquisire. A tali finalità avrebbero dovuto, per norma, corrispondere le Indicazioni Nazionali.
NOTE
[1]   La facoltatività degli insegnamenti (reintrodotta dalla L.53/2003) fu eliminata nel 1977 con la legge n.348.
[2] È  la prima esperienza di sperimentazione cui diede un impulso particolare il Ministro Giacinto Bosco. Nell’anno scolastico 1962/63 funzionavano 300 terze classi e 3 mila seconde classi sperimentali; il loro numero rappresentò un argomento decisivo con cui l’allora ministro Luigi Gui sollecitò il Parlamento all’approvazione della legge istitutiva.
[3] C. Motzo Dentice di Accadia, L’obbligo scolastico e la nuova scuola media, LSE, Napoli, 1965.
[4] «E quali non furono le sue preoccupazioni per la riforma della Scuola Media Inferiore! E quale fu il suo dolore per la battaglia.. … che lo vide perdente, contro l’abbinamento folle dell’insegnamento della Matematica alla Chimica, alla Fisica, alle Scienze Naturali nella Scuola Media unica?» da P. Dupont, Tullio Viola: Un esempio da imitare, Periodico di Matematiche 3/1986.
[5] Furono emanati con il D.M. 9 Febbraio 1979 del Ministro Pedini e pubblicati nel  S.O. alla Gazzetta Ufficiale n.50 del 20 Febbraio 1979. Della commissione fecero parte i matematici:   Giuseppe Arcidiacono, Luigi Campedelli, Emma Castelnuovo, Liliana Chini Artusi, Cesarina Dolfi, Michele Laforgia, Lucio Lombardo Radice, Giovanni Prodi, Francesco Speranza, Vinicio Villani.
[6] la battaglia per la separazione della cattedra, invece di affievolirsi è stata perseguita, in particolare dall’UMI, all’interno delle commissioni di studio costituite per l’elaborazione delle Indicazioni.
[7] Dall’anno  scolastico 2006/07 portate a 66 ore.
[8] Le critiche non sono mancate. Significativa quella di Don Milani:  “La seconda materia sbagliata è matematica. Per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari. Chi ha fatto la terza media ne ha tre anni di troppo [….] In quanto alla matematica superiore come parte della cultura generale si può provvedere in altro modo. Due o tre conferenze d’uno specialista che sappia dire a parole in che consiste […] Non è vero che occorra la laurea per insegnare matematica alle medie. È una bugia inventata dalla casta che ha i figlioli laureati. Ha messo la zampa su 20.478 posti di lavoro un po’ speciali. È la cattedra dove si lavora meno (16 ore settimanali) – È quella in cui non occorre aggiornarsi. Basta ripetere per anni le stesse cretinate che sa ogni bravo ragazzino di terza media. La correzione dei compiti si fa in un quarto d’ora. Quelli che non son giusti sono sbagliati” (da Lettera a una Professoressa, 1968)
[9] È un’espressione molto significativa, quasi trascurata però, per dire di problemi mancanti di qualche dato o da “raffinare” nelle richieste, che consentono anche una personalizzazione della formulazione.
[10] Le esperienze didattiche che E. Castelnuovo realizza già dagli anni ’50  sono diffusissime ed oggetto di “mostre” molto apprezzate. Diffusi sono anche, specie a livello primario, il materiale strutturato di Dienes, i regoli di Cuisinaire-Gattegno, quelli di Stern, i geopiani di Gattegno, le esperienze di Libois e di Papy (il minicomputer) e il materiale “povero” della pedagogia della Montessori.
[11] L’ultima maturità per i “maestri”  c’è stata nel 1999 e con essa c’è stato l’ultimo problema per i maestri: una specialità tutta italiana di algebra applicata alla geometria e di legame con la realtà (cose che oggi si sbandierano senza conoscerne la storia).
[12] D.M. 26.8.1981: “La prova scritta di matematica deve tendere a verificare le capacità e abilità essenziali indicate dai programmi ministeriali, con riferimento ad un certo numero di argomenti scelti tra quelli maggiormente approfonditi nel triennio. A tal fine si darà una prova che dovrà riferirsi a più aree tematiche (fra quelle previste dai programmi) e a diversi tipi di conoscenze; la prova sarà articolata su tre o quattro quesiti, che non comportino soluzioni dipen­denti l’una dall’altra. In tal modo si eviterà che la loro progressione blocchi l’esecuzione della prova stessa. Ad evitare una suddivisione troppo schematica dei contenuti, argomenti tratti da temi diversi potranno opportunamente coesi­stere nei singoli quesiti.
I quesiti potranno toccare sia aspetti numerici sia aspetti geometrici sen­za peraltro trascurare nozioni elementari nel campo della statistica e della probabilità. Uno dei quesiti riguarderà gli aspetti matematici di una situazione avente attinenza con attività svolte dagli allievi nel corso del triennio nel campo delle scienze sperimentali, dell’educazione tecnica o eventualmente di altri ambiti di esperienza.
Ogni commissione deciderà se e quali strumenti di calcolo potranno essere consentiti dandone preventiva comunicazione ai candidati. Durata della prova: tre ore.
[13] Didattica delle Scienze, n. 248, diretta da Mauro Laeng
L’articolo è in gran parte tratto da: Emilio Ambrisi, I 120 anni della Mathesis, Aracne 2015

Guerra e Matematica

La riflessione sulle guerre. Il carteggio Einstein-Freud e la matematica per gli scopi bellici.

Parte prima: il dibattito sulla guerra
Cancellare le guerre dai libri di storia è un appello del Movimento Nonviolento.
Senonché accogliere l’appello non cancellerebbe le guerre dalla storia. In assenza di riferimenti alla guerra non ci sarebbe occasione di leggere riflessioni fondamentali come queste:
“Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? […] Ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.”
Sono parole di Lucio Anneo Seneca in un memorabile passo di un’epistola all’amico Lucilio. L’assassinio viene punito se commesso in privato, mentre è motivo di lode e di gloria se commesso in guerra: questa la vergogna denunciata definitivamente dal filosofo latino con parole destinate a riecheggiare in ogni tempo, monito più che mai attuale quando  assistiamo come oggi a orrendi crimini di guerra perpetrati contro civili inermi.
La prevaricazione di chi si ritiene più forte militarmente a danno di un popolo trova riscontro nell’antica Grecia.
Esemplare in proposito il dialogo fra gli Ateniesi e i  Meli nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli Ateniesi, in guerra contro Sparta, inviano in via preventiva  ambasciatori presso i Meli, coloni spartani dell’isola di Melo, per indurli alla resa, ammonendo i loro consiglieri che “i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”. I Meli chiedono come possa esserci un interesse comune fra chi accetti di diventare schiavo e chi si erga a padrone. Osservano ancora i Meli che non cercare ogni via per evitare la sottomissione sarebbe manifestazione di viltà e motivo di vergogna. Replicano gli Ateniesi che sarebbe saggio invece arrendersi a un avversario più potente. Purtroppo il  dialogo tucidideo resta attuale in una sua versione tragicamente aggiornata: oggi qualunque criminale compiaciuto di sentirsi più potente dispone della minaccia al ricorso alle armi nucleari.
Dall’antichità classica proviene anche la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva.
Troviamo in Tito Livio la seguente espressione:  “Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.”
Vale a dire che la guerra è giusta se necessaria per chi non nutra speranza alcuna di salvezza qualora non ricorra alle armi a scopo di difesa. La riflessione sulla guerra giusta era già presente in Aristotele, che da una parte condannava l’aggressione riconoscendo a chi venisse aggredito il diritto di difendersi, ma dall’altra giustificava il muovere guerra ai barbari. Analogamente nel pensiero cristiano medioevale si affermò il concetto di guerra santa contro gli infedeli, “sterpi eretici” secondo la definizione di Dante. Il bellicismo colonialistico cinquecentesco si basava sull’asserita necessità di redimere dalla loro inciviltà i popoli da colonizzare.  Insomma lo ius ad bellum, ovvero diritto di muovere guerra, giustificava in certi casi gli aggressori.
Nel secentesco trattato De iure belli ac pacis di Ugo Grozio viene esplicitato fra l’altro lo ius in bello, ovvero complesso di norme giuridiche da rispettare in  guerra.
Su questo tema si pronuncia anche Louis de Jaucourt, il quale nella voce Guerre della Encyclopédie illuminista scrive che  non v’è diritto che autorizzi “a togliere la vita per deliberato proposito ai prigionieri di guerra, né a coloro che domandano quartiere, né a coloro che si arrendono, né tanto meno ai vecchi, alle donne, ai bambini, e in generale  a tutte le persone che non hanno un’età né svolgono una professione tali da renderli atti alle armi, e che nella guerra non hanno nessuna parte e vi sono coinvolti solo perché si trovano nel paese o nel partito nemico”. Nella voce citata si condanna anche  la brutalità della guerra nei confronti della donna. Eccola tradotta dal francese:
“Essa [la guerra] ha regnato in tutti i secoli sulle più fragili basi; la si è vista sempre desolare il mondo, privare le famiglie dei loro eredi, riempire gli stati di vedove e di orfani: mali deplorevoli, ma tanto comuni! In ogni tempo gli uomini, per ambizione, per avarizia, per gelosia, per malvagità, si sono derubati, bruciati, sgozzati a vicenda […] A più forte ragione, i diritti di guerra non giustificano gli oltraggi all’onore delle donne, dato che una tale condotta non contribuisce affatto alla nostra difesa, alla nostra sicurezza né alla difesa dei nostri diritti; essa serve soltanto a soddisfare la brutalità del soldato privo d’ogni freno.”
Delitti contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati dal “soldato privo d’ogni freno”, a ciò per giunta  incitato dalla viltà di chi in sede di comando pianifica la presa a bersaglio di  civili inermi.
La riflessione sulle cause della guerra trova una delle sue più alte espressioni nel carteggio Einstein-Freud, di cui sono qui riportati alcuni stralci in traduzione.
Il padre della teoria della relatività si rivolge per una risposta al padre della psicoanalisi:
“Caro signor Freud, c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.”
Si riportano qui alcuni passi della lunga risposta:
“Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con lei. […] Ora la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosi che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. […] Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Evidentemente l’evoluzione civile è in inquietante ritardo nel mondo, se non giunge addirittura a configurarsi come involuzione.
Nel filone delle riflessioni sulla pace risalta la cinquecentesca Querela pacis di Erasmo.
Eccone un passo tradotto dal latino:
“E invero, se io sono la Pace, esaltata all’unisono da dèi e uomini come sorgente, genitrice, nutrice, promotrice, tutrice di ogni bene esistente in cielo o in terra, e se in mia assenza nulla mai fiorisce, è saldo, puro, santo, piacevole per gli uomini e gradito ai superi, mentre la guerra viceversa si presenta come l’oceano di tutte le sventure esistenti al mondo, […] ebbene, io allora mi chiedo in nome dell’immortale divinità: chi può ritenere che costoro siano esseri umani ed abbiano un briciolo di senno, quando a dispetto delle mie virtù si adoperano con tanti mezzi, tanta ostinazione, tante macchinazioni, tante astuzie, tanti affanni, tanti rischi a scacciarmi, per acquistare a così caro prezzo un tale profluvio di mali?”
Il testo classico in cui la ragione coltiva l’utopia è  Per la pace perpetua  di Immanuel Kant.
Fra le condizioni necessarie per assicurare la pace perpetua il filosofo annovera la totale scomparsa degli eserciti permanenti, il divieto per ogni Stato di intromettersi con la forza in un altro Stato, la necessità  della forma repubblicana della costituzione di ogni Stato e del federalismo fra Stati. Per lui, che ritiene non inconciliabili politica e morale, i politici dovrebbero avvalersi della consulenza dei filosofi. Se ci chiediamo quali filosofi, dobbiamo escludere quelli come Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  triste figura che la guerra non la condanna, ma la esalta. È l’aberrazione della “guerra sola igiene del mondo”, come la celebra e glorifica Filippo Tommaso  Marinetti.
Encicliche dei sommi pontefici come  Pacem in terris  o Fratelli tutti vagheggiano la pace universale.
Ferma, decisa e risoluta è la  condanna ecclesiastica di ogni guerra di aggressione, definita dal Vaticano “moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega”. Anche il Papa riconosce a chi sia aggredito il diritto di difendersi. Ad ogni  posizione irenica ovvero pacifista, sia religiosa che laica, si contrappone la concezione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” espressa da Klaus von Clausewitz nel suo trattato Vom Kriege.
Oggi i progetti di educazione alla pace sono insidiati dalla  minaccia incombente della cosiddetta guerra nucleare preventiva.
Finora si riteneva che l’equilibrio del terrore potesse scongiurare la terza guerra mondiale. Però era già presente nel pensiero di un presidente statunitense l’idea di una guerra preventiva. La novità  consiste nel fatto che  ora l’uso di armi atomiche in funzione preventiva  è contemplato in una legge voluta da un famigerato dittatore gongolante ad ogni suo lancio di missili. Perciò, quando alla fine del suo volume sull’identità umana Edgar Morin, avvalendosi delle scienze dell’incertezza, scrive che per l’avvenire “niente è sicuro, neanche il peggio”, con tutto il rispetto per il più che centenario studioso dobbiamo purtroppo constatare che la probabilità del peggio è in aumento. Probabilità che un qualunque detentore di un potere assolutistico dia il via in un accesso di demenza, se assecondato da generali altrettanto folli,  allo sterminio della vita sul pianeta per la percezione soggettiva di una minaccia soltanto presunta.
Vittorino Andreoli in Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà, Rizzoli, 2018, osserva che la corsa agli armamenti si svolge più che mai “all’insegna della stupidità e della follia”.
Questa l’amara constatazione dello psichiatra a proposito dello scadimento cerebrale di questo o quel singolo individuo al posto di comando: “Trasformare questo pianeta in una pietra che, nuda e fredda, gira nell’universo non è più nelle mani degli dèi, ma della stupidità del potere.”
Viene in mente la conclusione di un romanzo.
Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Pablo Picasso, Guernica (1937)
Parte seconda: matematici  pro e contro  la guerra
Il trattato L’arte della guerra attribuito a Sun Tzu, risalente al VI secolo avanti Cristo, dedica spazio a una serie di fattori matematici che possono determinare l’esito di una guerra.
Il testo è organizzato in tredici capitoli dedicati all’analisi razionale delle diverse dimensioni della guerra, identificando le modalità per perseguire e riportare la vittoria. Tredici i capitoli: pianificazione e valutazione; preparazione alla guerra; attacco strategico; schieramento e disposizione dell’esercito; forze; punti di debolezza e punti di forza; scontro e manovre militari; variabili, variazioni e adattabilità; spostamenti e movimenti delle truppe; terreno; territorio e i nove campi di battaglia; attacco con il fuoco; utilizzo delle spie. Chi è esperto dell’arte della guerra deve saper controllare il fattore morale, il cuore, la forza e le diverse circostanze. Il numero non  dà vittoria certa: la vittoria deve essere creata sul campo. Tuttavia nel quarto capitolo i fattori numerico e geometrico sono  presi in  considerazione:
“Ricorda, gli elementi della strategia militare sono cinque: primo, misurazione dello spazio; secondo, valutazione della quantità; terzo, calcolo; quarto, confronto; e quinto, probabilità di vittoria. Le misurazioni dello spazio si deducono dal territorio. Le valutazioni della quantità si deducono dalle misurazioni, i calcoli dalla quantità, i confronti dai calcoli, e la probabilità di vittoria dai confronti.”
Galilei, che Einstein definisce padre della scienza moderna, si è occupato di guerra in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali.
L’opera è stata tradotta in italiano da Alessandro De Angelis e pubblicata da Codice edizioni nel 2021. Nell’opera, realizzata in forma dialogica,  la quarta giornata è dedicata al moto dei proiettili. A un certo punto Simplicio si dimostra curioso di sapere perché i proiettili delle armi da fuoco debbano essere considerati diversamente da quelli di archi e balestre e Salvati risponde che “la velocità di una palla sparata da un moschetto o da un cannone è soprannaturale”, cioè più veloce di quella di un corpo in caduta libera:
“Infatti, se una tale palla dovesse cadere da una grande altezza, la sua velocità, a causa della resistenza dell’aria, non aumenterebbe indefinitamente. […] Sono dell’opinione che una palla di moschetto o di cannone, che cade da un’altezza grande a piacere, non produrrà un colpo così forte come se fosse sparata contro un muro da una distanza di poche braccia, cioè a distanza così breve da non essere sufficiente a far rubare l’impeto dalla resistenza dell’aria.”
In questa quarta giornata la matematica mediante una serie di proposizioni o teoremi concorre a spiegare fenomeni fisici che sono l’oggetto della balistica.
Da: il grande Blek
Ormai il progresso scientifico rende possibile l’espansione della guerra in ambito virtuale e nel dominio robotico.
Sono già in atto forme di guerra informatica o cibernetica. Attacchi a internet, diffusione in rete di notizie false, divulgazione di dati militari sensibili ne sono alcuni aspetti. Oltre a ciò ricordiamo i soldati automi dei nostri giorni. L’idea di realizzare un androide di tal genere  sarebbe però non nuova: l’avrebbe concepita  la mente di Leonardo da Vinci, ipotesi che si fonda su studi anatomici e meccanici contenuti nel Codice Atlantico.
Non si combatte soltanto sul campo di battaglia.
Intervengono nei conflitti i calcoli degli economisti. Giuseppe Della Torre, cattedratico di  Economia, distingue fra economia di guerra e guerra economica:
“Anticipo che per economia di guerra intendo l’ambito tradizionale degli studi, legato direttamente al conflitto armato, nei momenti della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle «riparazioni». Per guerra economica intendo le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche. Di conseguenza, i temi delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, ho deciso di inserirli nella guerra economica, perché non strettamente legati al fenomeno bellico.”
La guerra economica contempla oggi, oltre che sanzioni e embarghi, la distruzione di sovrastrutture.
Fino a che punto la razionalità matematica può cogliere la realtà empirica della guerra?
In questo passo di Albert Einstein tratto da On the Method of Theoretical Physics si delinea il controverso rapporto fra matematica e fisica:
“We reverence ancient Greece as the cradle of western science. Here for the first time the world witnessed the miracle of a logical system which proceeded from step to step with such precision that every single one of its propositions was absolutely indubitable – I refer to Euclid’s geometry. […] But before mankind could be ripe for a science which takes in the whole of reality, a second fundamental truth was needed, which only became common property among philosophers with the advent of Kepler and Galileo. Pure logical thinking cannot yield us any knowledge of the empirical world; all knowledge of reality starts from experience and ends in it. Propositions arrived at by purely logical means are completely empty as regards reality. Because Galileo saw this, and particularly because he drummed it into the scientific world, he is the father of modern physics-indeed, of modern science altogether.”
Dunque Einstein riconosce all’antica Grecia il merito di avere dato all’umanità con la geometria euclidea un sistema logico preciso e indubitabile nella consequenzialità del suo svolgersi. Era però necessaria un’altra fondamentale verità, dovuta a Keplero e Galilei: il puro pensiero logico non è in grado di cogliere la complessità esperienziale. Tuttavia, argomenta ancora Einstein, logica ed esperienza risultano complementari, in quanto la ragione elabora una struttura teorica con la quale devono accordarsi i contenuti empirici:
“The structure of the system is the work of reason; the empirical contents and their mutual relations must find their representation in the conclusions of the theory.”
Nella Repubblica Platone esalta l’aritmetica e la geometria come discipline indispensabili sul piano pratico per gli scopi bellici, ma ancor più importanti sul piano teorico come mezzi di elevazione dell’animo verso la verità.
Ci troviamo così di fronte a una visione filosofica in cui la ricerca del vero  non contempla il ripudio della guerra. Quindi  alla matematica viene attribuita un’ambivalenza, anzi un ruolo dicotomico, che risulta comprensibile se si considera il periodo storico in cui Platone  visse, mentre non è accettabile oggi in quanto sappiamo ormai che la matematica può essere utile alla guerra, ma per sua natura non può non comportarne il ripudio. Il vero a cui mediante la matematica giunge col  pensiero assume una dimensione etica. Infatti una verità che non contempli l’etica è una verità falsificata. Si tratterebbe di spingere il genere umano a inverare in sé il connubio di verità ed etica. E in ciò la matematica può dare un contributo di prim’ordine.
Un noto tentativo di integrare i calcoli matematici relativi alla guerra con fattori di ordine sociale è quello di Lewis Fry Richardson in Mathematical Psycology of War.
Matematico pacifista e obiettore di coscienza, Richardson si impegnò nella ricerca di possibili rimedi preventivi all’insorgere di conflitti fra nazioni. Nei suoi sistemi di equazioni si tiene conto anche di elementi non matematici, come, ad esempio, il grado di conflittualità latente fra potenze. La sua teoria dell’equilibrio trova riscontro nell’opera di John Nash, del quale è noto il “dilemma del prigioniero”, sviluppato anche dal matematico americano di origine russa Anatol Rapoport, pacifista al pari di Richardson, cofondatore fra l’altro del Center for Research on Conflict Resolution
Ai conflitti fra nazioni è stata applicata anche la teoria dei giochi.
Nella Prussia dell’Ottocento già George Leopold von Reisswitz e il figlio Georg Heinrich Rudolf Johann avevano inventato il Kriegsspiel, gioco di guerra,  non per giocare alla guerra, ma per farla, simulandola sulla falsariga del gioco degli scacchi.  Nel suo evolversi il gioco di guerra andò svolgendosi con la supervisione di un arbitro.  I moderni wargames possono essere considerati sviluppi del Kriegsspiel. La teoria dei giochi presenta anche un aspetto costruttivo, giacché in base ad essa si può dimostrare che per due competitori è più vantaggioso cooperare piuttosto che combattersi a vicenda. Pertanto alla tradizionale strategia militare dovrebbe subentrare una strategia di altro tipo, orientata all’incontro piuttosto che allo scontro. C’è da augurarsi che anche la Ricerca Operativa si prefigga uno scopo analogo. In definitiva, i modelli matematici non necessariamente risultano adeguati per progettare o prevedere l’andamento di una guerra, mentre si palesano più funzionali alla preparazione alla pace.
I matematici italiani in guerra.
È l’argomento studiato in Laurent Mazliak, Rosanna Tazzioli. Ciascuno secondo il proprio mestiere. Lettera Matematica PRISTEM, 2015, La vittoria calcolata. Hal-01477415. Nel corso della prima guerra mondiale matematici come Vito Volterra, Eugenio Elia Levi, Mauro Picone sono apertamente a favore di un intervento italiano, ma non tutti i matematici li seguono. Vito Volterra, arruolato nell’esercito, non si limita ad assumere la posizione interventista, ma si adopera anche per mettere la matematica al servizio degli strumenti di guerra. Così anche Mauro Picone, che si dedica particolarmente alla balistica in collaborazione con matematici francesi. Dagli scambi epistolari fra matematici si desume entusiasmo patriottico per l’apporto dato alle operazioni belliche. Scrivono Mazliach e Tazzioli a proposito dell’abbandono della ricerca pura:
“L’intento è piuttosto quello di aiutare  concretamente il proprio paese cui si offre il sacrificio dei lavori teorici per consacrarsi alle applicazioni, probabilmente meno profonde, ma di immediato impiego nel conflitto.”
Tuttavia altri matematici erano su posizioni neutrali e ritenevano di dover dedicarsi agli studi teorici. Dalla  ricerca di Mazliach e Tazzioli si desume dunque il riproporsi in forma moderna della dicotomia platonica fra matematica applicata alla guerra e matematica come elevazione dello spirito. Dicotomia che va superata con il ripudio dell’uso della matematica a scopi bellici in seguito all’avvento delle armi nucleari e alla dimostrazione della loro tremenda distruttibilità nel corso della seconda guerra mondiale. Superamento necessario non solo alla matematica, ma alla scienza nel suo complesso.
Ogni pettoruto presidente di nome ma dittatore di fatto, tanto tronfio e eccitato quanto ottuso e stolto, può minacciare il ricorso alle armi nucleari tattiche o peggio con intenzioni ricattatorie.
Contro una tale esaltazione fissata, per usare un’espressione dello psichiatra Ludwig Binswanger, bisognerebbe tener presente di fronte a ogni guerra di aggressione questa presa di posizione di  scienziati russi tradotta dal russo:
“[…] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni […] è del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso […] Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri […]”
Ciò nell’anno 2022 dall’avvento dell’era cristiana.
Albert Einstein (1879 – 1955)
Albert Einstein avvertì l’urgente necessità di adoperarsi per la pace nell’era degli armamenti nucleari.
Ne discusse non solo con lo psicoanalista  Sigmund Freud, ma anche col matematico Bertrand Russell. Dalla collaborazione con quest’ultimo scaturì The Russell-Einstein Manifesto. Eccone l’incipit:
“In the tragic situation wich confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.”
È necessaria, dunque, una conferenza degli scienziati per valutare i pericoli sorti per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa e giungere a una comune risoluzione. Sul genere umano, proseguono gli autori del manifesto, incombe una minaccia di estinzione totale. Non solo una H-bomb può distruggere intere città ben più grandi di Hiroshima, ma gli effetti della ricaduta di particelle radioattive possono anche interessare a lungo termine aree ancor più vaste.  Di qui l’inquietante interrogativo:
“Shall we put an end to the human race, or shall mankind renounce war?”
L’alternativa si pone fra rinunciare alla guerra o porre fine al genere umano. Il manifesto si conclude con la proposta agli scienziati di firmare la seguente risoluzione:
“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governements of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”
Considerando dunque che l’impiego di armi nucleari minaccia di distruggere l’umanità, i governi dovrebbero rinunciare pubblicamente a mettere in atto i loro propositi con la guerra, impegnandosi a risolvere con mezzi pacifici ogni contrasto.
Giorgio Gallo nel suo saggio Costruzione della Pace: quale ruolo per la matematica? osserva opportunamente che la matematica, come ogni altra disciplina, è da considerare nel suo inverarsi in una “persona che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire”.
Di qui la responsabilità dei matematici, chiamati a prendere posizione contro la guerra e ad adoperarsi per la pace. Ce lo ricorda fra gli altri in Mathematics and Peace: Our Responsibilities il matematico brasiliano Ubiratan D’Ambrosio, citato da Michele Emmer del Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’articolo La matematica della guerra.
Il destino della civiltà sul pianeta può essere affidato ai matematici?
Mentre l’uomo del nostro tempo è “ancora quello della pietra e della fionda”, come canta Salvatore Quasimodo, ci chiediamo in particolare se i docenti di matematica possano essere tramiti privilegiati di civiltà. Forse più di altre discipline la matematica è in grado di concorrere a plasmare una forma mentis orientata alla pace. L’auspicio è che le giovani generazioni siano formate non solo umanisticamente, ma anche scientificamente e soprattutto matematicamente.
Proposte di approfondimenti
Per approfondire la parte prima: academia.edu/Per_un_lessico_della_politica_pace_e_guerra
Per approfondire la parte seconda: Matematica%26Pace_Articolo.pdf

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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