Si dice della scuola

Si dice della scuola

di Margherita Marzario

“Oggi hanno deciso di distruggere l’arte e la cultura, e senza cultura la società è barbarie” (cit.). Disincentivare l’arte e la cultura è bloccare le nuove generazioni, le emozioni, la crescita umana, quello sviluppo che si è avuto sin dai graffiti preistorici. Si è tutti responsabili, a cominciare da coloro che non si sentono responsabili, che sono pronti a puntare l’indice ma non a muovere un dito per darsi da fare. Come l’atteggiamento di molti genitori avvezzi ad accusare la scuola, a ricusare i propri errori e a scusare i figli.

La scuola sembra essere diventata merce alla mercé dei genitori e di altri soggetti. La scuola andrebbe rivista dal modo di reclutamento del personale all’edilizia ma, purtroppo, ogni governo introduce una riforma che, talvolta, è solo lessicale o di appesantimento burocratico.

Sulla scuola di oggi la giurista Elisabetta Frezza: “Si è trasformata in un incrocio tra un luna park e un laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva. Una sorta di allevamento di ominidi in batteria, allestito come un villaggio vacanze, con animatori addestrati, i poveri docenti” (in un’intervista dell’8 agosto 2022). L’apprendimento deve avvenire divertendosi ma la scuola non è e non deve essere ritenuta luogo di divertimento come o peggio di altri destinati a ciò.

A scuola non si dovrebbero apprendere (solo) le materie ma la materia della vita, la disciplina, come lo stare insieme e il bello della vita. Da questo discenderebbero poi le materie, le discipline. Per esempio la matematica non usa il linguaggio della solidarietà con divisione, addizione, moltiplicazione…? La scuola ha un valore costituzionale: “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.).

La scuola è la fucina dell’italianità. “Parlare e scrivere correttamente in italiano è la condizione necessaria per vivere appieno il nostro ruolo di cittadini consapevoli a scuola, nel lavoro e nell’esercizio stesso dei diritti civili” (il giornalista Alessandro Bettero). La lingua italiana è elemento fondante e fondamentale dell’italianità, quel patrimonio storico-culturale, che trova i suoi fondamenti nella Costituzione, in tutta la Carta costituzionale e in particolare nell’art. 9, la cui nuova formulazione finisce con “anche nell’interesse delle future generazioni”.

La scuola non deve aprirsi solo per gli open day e non deve diventare una “prigione” per gli alunni così come spesso è percepita.

Lo storico gesuita Giancarlo Pani analizza: “Ci sono bambini di meno di tre anni che vivono in carcere con le loro mamme. È questo il loro interesse? Certamente no. Se fosse rispettato l’articolo 3 [Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia], nel caso di donne in carcere, l’esigenza primaria del bambino imporrebbe che madre e figlio vivessero in casa loro, in ragione della dignità del bambino e del suo accudimento. Gli adulti dovrebbero trovare altre forme per proteggersi rispetto alla pericolosità sociale delle loro madri. Se l’articolo 3 venisse osservato, quando nasce un bambino in una famiglia, tutte le regole e gli orari dovrebbero cambiare per rispettare il suo interesse, compresi gli orari di lavoro, perché i genitori possano dedicargli tutto il tempo necessario. Non è un caso che i Paesi del Nord prevedano due anni di maternità: numerose ricerche dimostrano oltretutto che solo in apparenza questo periodo prolungato sarebbe una spesa sociale, perché, in realtà, i bambini che hanno potuto essere allattati e accuditi più a lungo risultano generalmente più sani, e quindi costano meno alla società” (in “I diritti dell’infanzia”, 2019). Nel mondo odierno i bambini passano da una “gabbietta” all’altra: casa, abitacolo dell’automobile, scuola, ludoteca, palestra, doposcuola, casa dei nonni… Ci si preoccupa della sicurezza, della privacy e di altro ancora, ma vengono meno la naturalezza e la bellezza dell’infanzia.

La priorità dell’interesse del fanciullo in ogni procedimento, stabilita dall’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, purtroppo in Italia è trascurata anche nella quotidianità, per esempio a scuola, dove spesso si continua a procedere per stagioni dell’anno senza chiedersi se ciò possa giovare o meno alla formazione dei bambini. Gli educatori, come i giornalisti, dovrebbero essere “sentinelle della verità”, sempre e solo nel bene e per il bene dei bambini senza alcuna dietrologia adultistica.

Non bisogna scolarizzare precocemente i bambini perché gli effetti sono deleteri se non devastanti. Tra le varie conseguenze, all’ingresso nella scuola primaria i bambini possono provare stanchezza o disamore e possono manifestare vari “disturbi” che gli adulti si affannano a etichettare o certificare, quando in realtà si tratta di tempi non maturi o di abilità non acquisite nel modo giusto. Anche il bullismo, segnale di debolezza o fragilità, può essere un grido di aiuto da parte di quel bambino che non ce la fa a sostenere pressioni e aspettative dei genitori e della scuola.

Una volta i bambini mancini subivano pregiudizi e interventi educativi errati. Questo dovrebbe mettere in guardia da etichettamenti, acronimi o pratiche preconfezionate che si è soliti applicare a scuola nei confronti dei bambini in generale (per esempio BES, bisogni educativi speciali).

La legislazione (in particolare quella sociale) e la cultura scolastica sono cambiate nei confronti dei bambini con disabilità sino a giungere al concetto di “inclusione”. Anche questo concetto, però, andrebbe superato perché dà comunque l’idea di un sistema chiuso o precostituito. Ogni bambino ha una sua personalità, sue capacità, specificità e difficoltà per cui si potrebbero recuperare o rimarcare altri concetti come “personalizzazione”, come si evince pure dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 23 par. 1 relativo alla disabilità e l’art. 29 par 1 lettera a relativo all’educazione. “La società e la scuola non dovrebbero imporsi l’inclusione, ma lavorare attraverso le specificità di ciascuno per costruire l’orizzonte. […] Ma allora che cosa significa cambiare? Di fatto un mutamento di forma e di formato, qualcosa che prima si verifica all’interno per poi rivolgersi al di fuori di sé. Un po’ come un musicista che impara a maneggiare e a comporre con il proprio strumento fino ad accordarsi con gli altri in un’orchestra capace di produrre insieme nuove sinfonie” (il giornalista Claudio Imprudente).

Esemplare il servizio “pedibus” nelle città: bambini e ragazzini che vengono accompagnati a piedi a scuola da volontari e altre figure adulte procedendo lungo una corda e intonando canzoni come boy scout. Così la scuola e la vita, così la scuola della vita: accompagnare e accompagnarsi lungo le strade facendo cordata come gli alpinisti. Nella vita dei giovani bisogna indicare e portare la luce affinché, poi, sappiano trovare la loro strada.

La scuola dovrebbe tornare (o, almeno, provare a tornare) al suo significato etimologico e stimolare il naturale atteggiamento poetico dei bambini e dei ragazzi e fare così naturalmente “poesia”, che è produzione dal sé e del sé. A scuola avvicinare i bambini alla poesia non dovrebbe essere far imparare poesie a memoria, farle imparare più lunghe per dimostrare quanto siano bravi a memorizzarle, scegliere poesie in base agli eventi, periodi o mode (anche editoriali) del momento, secondo il proprio punto di vista adulto, preparare recite e saggi di fine anno, né far studiare poeti, spiegare e far rispettare la metrica. La poesia è linguaggio, emozione, ascolto, espressione, è come la primavera: va annusata, sentita sulla pelle, interiorizzata. Educare alla poesia, coltivare l’atteggiamento poetico è, pertanto, far provare emozioni, far conoscere la propria interiorità e farla esprimere liberamente. La poesia contribuisce allo sviluppo pieno ed armonioso della personalità del fanciullo e a creare un’atmosfera di felicità, amore e comprensione (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Si può parlare di una sorta di “diritto alla poesia” come diritto all’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e diritto alla libertà di espressione (art. 13 Convenzione).

Significativo il monologo del regista Paolo Sorrentino sulla scuola (20 gennaio 2023), in particolare sui genitori nella scuola per i quali usa l’espressione “entusiasmo immotivato” e conclude dicendo che dell’educazione dei genitori si dovrebbe occupare Dio. La scuola è diventata uno show sottoposto all’indice di gradimento, audience, share dei genitori che fanno da fan dei figli e critici televisivi degli insegnanti. Anziché manifestare entusiasmo immotivato per ogni minima cosa (anche irrilevante, per esempio dire ripetutamente “bravo/a, bravissimo/a” al/la figlio/a durante il semplice svolgimento dei cosiddetti compiti a casa), i genitori dovrebbero instillare entusiasmo motivato nei figli (ai quali trasmettono, invece, tutt’altro).

La scuola deve co-progettare e non diventare un progettificio e un’applicazione di programmi: i bambini stessi sono progetti di vita e gli adulti di riferimento devono contribuire a “fare cantiere”. 

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