Dante, Canto V: percorso letterario con apprendimento cooperativo

Al link in basso riportiamo un percorso didattico ricchissimo, interessante e, soprattutto, collaborativo, sul V canto dell’Inferno (Sì, quello di Paolo e Francesca).

Si tratta di uno dei tanti testi presenti nel libro “Percorsi letterari con l’apprendimento cooperativo” della Erickson, e disponibile gratuitamente. 

L’attività prevede le seguenti strutture cooperative:

INTERVISTA A QUATTRO PASSI

PENSA-SCRIVI-TAVOLA ROTONDA (ORALE)
JIGSAW
TAVOLA ROTONDA SIMULTANEA (SCRITTA)
POESIA A DUE VOCI

PASSAPORTO DELLA PARAFRASI

PENSA-COPPIA-CONDIVIDI

CAROSELLO FEEDBACK

ANNOTAZIONE RAPIDA-COPPIA-CONDIVIDI

QUIZ-QUIZ-SCAMBIO 

L’attività puoi scaricarla CLICCANDO QUI

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Qui trovi altri volumi su percorsi letterari con l’apprendimento cooperativo:

Percorsi letterari con l’apprendimento cooperativo. Testi scelti di letteratura italiana da Dante a Galileo

Percorsi letterari con l’apprendimento cooperativo. Testi scelti di letteratura italiana da Leopardi a Ginzburg

Percorsi letterari con l’apprendimento cooperativo. Epica e mito da Esiodo a Virgilio

Continua la lettura su: http://www.guamodiscuola.it/2025/01/dante-canto-v-percorso-letterario-con.html Autore del post: Guamodi Scuola Fonte:

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Virgilio, ci manchi!

Virgilio, ci manchi!

di Antonietta Cataldi

     Voglio dare voce a tutti i genitori che, dinanzi alla crisi in cui sembrano irrimediabilmente immersi tanti giovani oggi, vengono accusati di immaturità, di giovanilismo, di disattenzione, di incompetenza. Ebbene sì, è colpa nostra ma non è vero che non li guardiamo, che non ci occupiamo di loro. Il fatto è che, quando cerchiamo di parlare, veniamo subito respinti. Non siamo stimati, non siamo visti come interlocutori utili o credibili. Per questo motivo preferiscono vivere all’interno di un gruppo di loro pari o fissi davanti a uno schermo popolato di anonimi guaritori. Abbiamo provato a chiedere aiuto, a consultarci con i nostri vecchi, con esperti, con persone che, fino ad alcuni anni fa, i ragazzi avevano stimato e anche amato. Inutilmente.  Non sappiamo più cosa fare. Vediamo che sono infelici, che la loro vita è un buco nero dal quale non siamo in grado di farli uscire, di salvarli. E mi viene in mente Virgilio.  Anche loro, come Dante nella Divina Commedia, sono in una selva oscura popolata di mostri che non consentono loro una via d’uscita. Ecco, forse, un tentativo da fare sarebbe che noi genitori, possibilmente padre e madre insieme, trovassimo una persona disposta a porsi accanto a nostro figlio o a nostra figlia con autorità ma senza pretese. In fondo, è ciò che viene raccontato nel secondo canto dell’Inferno. Certo, ciò non fu possibile ai nostri progenitori, che sperimentarono subito la difficoltà di crescere figli.

     Il problema, per Adamo ed Eva, fu che erano i soli adulti sulla terra quando si trovarono a gestire Caino e la sua rivalità con Abele. Non sappiamo se abbiano commesso errori, giacché ogni figlio cerca il modo per farsi amare dai genitori, anche a dispetto dei fratelli, e, nel migliore dei casi, lo trova. Dalla Bibbia apprendiamo solo che il problema si pose nel rapporto dei due ragazzi con Dio e nella maggiore devozione rivelata da Abele. Caino si dimostrò irritato dal fatto che la sua offerta non fosse stata gradita e abbattuto per la sconfitta; riconobbe la propria colpa ma si lamentò della condanna all’esilio. Non gli bastò la garanzia di non essere ucciso, con la promessa, da parte di Dio, di infliggere la vendetta sette volte a chi lo avesse fatto. Poca cosa, rispetto alla moltiplicazione della violenza che si generò col tempo nell’animo di quel giovane assassino, a giudicare dalla sua dichiarazione che si sarebbe vendicato settantasette volte contro chi avesse ucciso il suo sesto discendente. Meglio lasciar passare i millenni e pensare, per i peccatori, a interventi paragonabili a quelli proposti nella Divina Commedia. Vediamoli nell’ordine.

      In cielo c’è una donna gentile, la Madonna, immagine di maternità universale, che prova dolore per la condizione in cui si trova Dante e intercede in suo favore presso Dio. Chiede aiuto a Santa Lucia con parole che qualunque madre userebbe rivolgendosi a persona che sa essere sempre stata cara al proprio figlio: “Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io te lo raccomando”[1]. Lucia subito si muove, va da Beatrice e, con tono quasi di rimprovero, la interroga: “ché non soccorri quei che t’amò tanto?”[2],  non senti l’angoscia della sua sofferenza? Questo basta per farla andare subito da Virgilio e affidare quell’uomo in pericolo di perdizione a colui che è stato il suo grande maestro di poesia.

     Immaginiamo questo iter nella nostra realtà.  Un genitore che capisce che c’è un problema ma non sa o non può affrontarlo direttamente, ne parla con una persona amica, la quale può ritenere utile l’intervento di chi il giovane ha amato da adolescente. Costui o costei suggerisce come figura idonea quella di una persona molto stimata ai tempi della scuola. Con o senza i vari passaggi, il prescelto potrebbe essere un giovane adulto, un amico fuori dal giro, un fratello maggiore ormai psicologicamente autonomo, un cugino o anche uno zio, un nonno o un estraneo, un sacerdote, un insegnante, purché non ingombrante, disposto ad essere semplicemente una presenza, un’ombra che non intende comandare o giudicare ma solo pronta ad aiutare quando le paure si ingigantiscono. I giovani, di paure, ne hanno tante, paralizzanti, e gli adulti, quando vengono percepiti come meritevoli di rispetto, sanno fare prodigi. Ho in mente i casi, vissuti da testimone a distanza di molti anni, di due professoresse che si sono trovate a correggere elaborati sconcertanti: uno con la descrizione viva, bruciante, di uno stupro subìto; l’altro con la definizione del proprio “inferno”. In entrambi i casi le famiglie non avevano capito niente, non avevano colto il mare di sofferenza. Ecco perché un estraneo sensibile, competente, a volte può riuscire dove tanti sembrano fallire. L’amore non basta, anche perché spesso è cieco.

     Salvare un giovane è un compito difficile, è quello al quale è stato chiamato Virgilio, che compare come una figura evanescente. Dante non sa chi sia ma è disperato e gli chiede aiuto. Quando poi apprende la sua identità, ne riconosce l’autorevolezza e, chiamandolo sempre “Maestro”, a lui si affida. Gli chiede di essere difeso dalla belva che lo minaccia ma Virgilio gli spiega che deve seguire un altro percorso. La salvezza si raggiunge conoscendo e riconoscendo gli effetti del male ma non lo si può fare da soli: c’è bisogno di una guida. Così, mano nella mano, con volto sorridente, gli spiega la realtà di quel mondo e cosa vuol dire perdere “il ben de l’intelletto”[3]. Poi, quando Dante piange nel sentire i forti lamenti delle anime immerse nel dolore, lo rassicura e, all’ultima richiesta di spiegazioni, con gentilezza lo chiama “Figliuol mio“[4].  È la prima volta che il suo tono diventa familiare, prima del terremoto che spaventa il suo protetto al punto da farlo svenire.

     Si preparano a scendere nell’inferno, Virgilio per primo, ma Dante si accorge che il maestro è “tutto smorto“[5]. Interpretando il suo aspetto come segno di timore, gli chiede come possa seguirlo se ha paura anche lui che di solito gli funge da sostegno. Non ha capito che il pallore è solo manifestazione della pietà che prova per le anime del Limbo, alle quali egli stesso appartiene. È l’angoscia di chi, non per colpe commesse ma per non essere stato battezzato, si trova escluso in eterno dalla visione di Dio. Il dolore di questa condizione, propria dei bambini morti privi di battesimo ma legata anche, come nel caso di Virgilio, all’essere vissuti “nel tempo de li dei falsi e bugiardi”[6], cioè prima di Cristo, avvicina Dante all’interlocutore, al quale si rivolge con tono più accorato: “Dimmi, maestro mio, dimmi segnore”[7]. Non esiste nessuno immune dal dolore: è un progresso sul piano emotivo. Dante ha potuto cogliere l’umanità di Virgilio e ne trae conferma dalle parole di Francesca da Rimini: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.”[8]

     Il rapporto tra i due diventa sempre più intenso: a Dante risulta spontaneo riferirsi a Virgilio come al “mar di tutto il senno”, alla “virtù somma”, a “lo savio mio”, al “savio gentil”, al “maestro mio”, al “buon maestro”, a “‘l savio mio maestro”, ma soprattutto come a “‘l mio buon duca”, “lo duca mio”, la mia guida. Vuol dire riconoscere il suo ruolo e il proprio bisogno. Dal canto suo, Virgilio sempre più spesso lo chiama “figlio” e “figliolo mio”, dando al proprio compito una dimensione genitoriale che non esclude il rimprovero, anche duro, all’occorrenza. È quanto accade quando Dante piange nel vedere il corpo stravolto dei maghi e degli indovini[9] e quando si sofferma ad ascoltare un litigio tra falsari[10].

     Occasione di fermezza è anche il desiderio di conoscenza di Dante il quale, come capita agli alunni curiosi e impazienti, talvolta non si pone limiti, col rischio di risultare molesto. Rendendosene conto, decide: “Allor con gli occhi vergognosi e bassi, temendo no ‘l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi”[11]. Quando poi, più avanti, Virgilio lo rassicura che non solo riceverà risposta alla domanda che gli pone ma anche che sarà soddisfatto il desiderio che gli nasconde, Dante si giustifica: “Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m’hai non pur mo a ciò disposto”[12], gli nasconde ciò che prova solo per parlare poco ed è ciò che anche adesso la sua guida gli ha chiesto di fare. Ha trovato la misura: “Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace”[13],  mi è gradito tutto quello che piace a te: tu decidi e sai che non mi allontano dal tuo volere, e conosci ciò che non viene detto.

     Il rispetto e l’obbedienza diventano sintonia, così che arrivano le lodi. Pensiamo a quella, esaltante, plateale, che conclude il contrasto con Filippo Argenti. Dante, che in precedenza si è lasciato inopportunamente turbare dal dolore dei dannati, rimane del tutto indifferente dinanzi a questo “spirito maladetto” e Virgilio prima impedisce che l’arrogante con ira rovesci la loro barca e dopo manifesta tutta la propria soddisfazione al discepolo, che racconta: “Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ‘l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ‘n te s’incinse!»”[14]. Non ci può essere riconoscimento maggiore: Anima capace di sdegnarsi, benedetta colei che fu incinta di te!  Analoga esaltazione il maestro manifesta per la tremenda invettiva di Dante contro i papi simoniaci che si sono fatti “dio d’oro e d’argento”. Racconta: “I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via onde discese. Né si stancò d’avermi a sé distretto”[15], credo proprio che alla mia guida piacesse, dato che seguì sempre con aria felice il suono delle parole di verità che esprimevo. Perciò mi prese con tutte e due le braccia e, dopo avermi sollevato fino al petto, ripercorse la strada da cui era disceso e non si stancò mai di tenermi stretto a sé.

     Gli slanci e le manifestazioni di consenso, espressi con una fisicità sconosciuta tra adulti con ruoli diversi, ci devono far riflettere sul bisogno di affetto che non si riduce con l’età e che contribuisce a dare conforto e sicurezza. Tra Virgilio e Dante ormai non c’è solo obbedienza, c’è comune sentire. Ne è un esempio l’atteggiamento nei confronti dei sodomiti, gli omosessuali, l’incontro coi quali occupa due canti. Virgilio non solo presta attenzione alle loro grida ma dice a Dante: “Or aspetta, a costor si vuole esser cortese.”[16] L’esortazione alla sosta e al dovere della cortesia nei confronti di quelle anime è superflua perché Dante, se non fosse per la paura del fuoco, si getterebbe ad abbracciarle, a cominciare da quella di Brunetto Latini, suo antico maestro. Infatti, fermo restando il loro destino, che in un caso sembrerebbe addirittura legato al danno prodotto dalla presenza di una “fiera moglie”[17], cioè di una moglie scontrosa, c’è rispetto e stima per le loro persone, per la loro statura di letterati e guerrieri, per le loro virtù civili e la loro nobiltà  d’animo.

     È il contrario di quanto accade con un’altra categoria di dannati, ai quali pure sono dedicati due canti ma dai quali Virgilio invita Dante ad allontanarsi. Si tratta dei barattieri, cioè dei truffatori che, attraverso inganni e raggiri, hanno mirato sempre e soltanto al proprio beneficio. Sono numerosi nella terra in cui “del no, per li denar, vi si fa ita”[18], lì dove, per denaro, qualunque no diventa sì. Forse, ancora oggi, ne sappiamo qualcosa. Il rapporto tra i due è divenuto via via più stretto, così che Dante, quando ha paura, si stringe a Virgilio, mentre costui lo trae a sé, come sempre fa quando vuole proteggerlo. I gesti di entrambi sono di grande tenerezza. Per evitare che rimanga impietrito guardando la Gorgone, lo fa girare e gli copre gli occhi con le proprie mani[19]. Quelle stesse mani, “animose”, cioè in atto di incoraggiamento, lo spingono a parlare con Farinata, accompagnate dall’esortazione: “Le parole tue sien conte”[20], le tue parole siano adeguate.

     Lo prende per mano per accompagnarlo vicino al cespuglio in cui è prigioniero un suicida che inutilmente piange, avendo rifiutato il proprio corpo in vita[21]. Ancora “caramente” lo prende per mano per avvertirlo che gli appariranno, come una strana sequenza di torri, i giganti che, disposti intorno alla parete del pozzo infernale, vedrà sporgere dalla voragine solo fino all’ombelico[22]. Istiga il Minotauro che vuole impedire il loro passaggio in modo da farlo infuriare e, approfittando delle sue smanie, far passare Dante[23].

     Si sente responsabile di questo essere timoroso che Caronte ha definito “anima viva”[24]. Perciò, via via che il loro rapporto diventa più stretto, passa dal tenerlo per mano, come davanti alla porta dell’Inferno, al sostenerlo con le braccia quando il percorso è difficile, tant’è che Dante riferisce che, appena salì in groppa a Gerione, il maestro “con le braccia m’avvinse e mi sostenne”[25].

     Quando ci sono da affrontare difficoltà particolari, il maestro ha un attimo di forte turbamento ma trova subito la soluzione. Dante racconta: “con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte, le braccia aperse” e mi afferrò. Segue una similitudine: “E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ‘nnanzi si proveggia”, come chi agisce e valuta, così che mostra sempre di provvedere in anticipo, mentre lo spinge verso la cima di una sporgenza, ne osserva un’altra e gli dice: “Sovra quella poi t’aggrappa, ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”[26], poi aggrappati a quella, ma prima prova se è tale da poterti reggere.

     Virgilio è una guida perfetta, seria, prudente, ma, quando il discepolo, giunto in cima, si sente esausto e si siede, non esita a cambiare tono “Omai convien che tu così ti spoltre”, ormai è il caso che tu ti scuota di dosso la pigrizia, perché, sedendo sulle piume, non si arriva alla fama, e nemmeno stando sotto le coperte, perché, chi consuma la propria vita senza fama, lascia di sé sulla terra un ricordo simile al fumo nell’aria e alla schiuma nell’acqua. Perciò alzati e supera la difficoltà di respiro col vigore che vince ogni battaglia se non si lascia abbattere dal peso del suo corpo. A questo invito perentorio, Dante reagisce: “Levàmi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentia”, allora mi alzai, mostrandomi provvisto di una lena maggiore rispetto a quella che mi sentivo e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”. L’esortazione genera una nuova dimensione nel loro rapporto, sicché il discorso tra i due si conclude semplicemente con un invito all’allievo ad agire: “Altra risposta”, disse, “non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo”[27], non ti do altra risposta che agire, perché la domanda legittima deve essere seguita dall’azione senza parole.

     E’ una lezione di vita. Egli stesso ne è un esempio perché, nel momento più difficile, tocca a lui la parte più faticosa, quella dell’uscita dall’inferno.

     Se veniamo un attimo ai nostri giorni, ci rendiamo conto che, per un giovane che ha perso il senso dell’esistenza, abbandonare la realtà, umana o virtuale, che comunque sembrava offrirgli un rifugio, deve essere drammatico. Ecco perché, a questo punto, è la guida a doversi assumere tutto il peso e la responsabilità del passaggio.

     Tornando alla Divina Commedia, pensiamo che l’anima di Dante è salva in quanto sta sfuggendo alla condanna eterna ma ha ancora tanto da capire, tanto da imparare prima di poter procedere da sola. Ancora una volta, dovrà essere la guida a prendere tutte le decisioni. E’ allora, quando sono giunti nel fondo dell’inferno, costituito da un lago ghiacciato, dopo che Dante ha visto Lucifero con le sue tre facce, le gigantesche ali di pipistrello e il corpo peloso, è quello il momento di ripartire. E’ un momento quasi cinematografico: l’uscita  avviene attraverso la discesa lungo il corpo de “lo ‘mperador del doloroso regno”[28]. Dante riferisce che Virgilio aveva stabilito tutto nei dettagli: “Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai”, il discepolo si avvinghiò al suo collo mentre lui, la guida, quando furono ben aperte le ali di quello che era stato l’angelo più bello del Signore prima di precipitare orribilmente, “appigliò sé a le vellute coste” si aggrappò ai fianchi pelosi e, “di vello in vello”, da un ciuffo di pelo all’altro, giù discese fino al punto in cui la coscia si articola e s’ingrossa l’anca. Erano al centro della terra e, per salire nell’emisfero australe, dove s’innalza la montagna del Purgatorio, dovevano capovolgersi e girare la testa in direzione delle gambe del mostruoso gigante, aggrappandosi al pelo “com’om che sale”. Tutto questo Virgilio fece “con fatica e con angoscia”, infine “ansando com’uom lasso”[29], ansimando come un uomo sfinito.

Ci vuole tanto amore per agire così, un amore che Virgilio ha già dimostrato quando Dante era atterrito al sopraggiungere dei diavoli: “Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura”. Il maestro si era lasciato andare supino lungo la parete scoscesa “portandosene me sovra ‘l suo petto, come suo figlio, non come compagno”[30].

     Trovo stupenda la similitudine col gesto protettivo della madre che fugge per portare il figlio in salvo dall’incendio, sia perché l’amore non è una questione di genere, sia perché, come vedremo, anche nell’aldilà, non sempre risponde ai canoni. Sappiamo solo che, quando c’è, può dare fiducia, speranza, salvezza.

     Vediamo ora cosa accade nel Purgatorio, dove Virgilio viene definito “dolcissimo patre”[31] e – come abbiamo visto –  tale è  stato per Dante, che a lui si è affidato per la salvezza e tale continua ad essere nel regno in cui le anime espiano le proprie colpe in vista del Paradiso. Nell’Antipurgatorio, seguendo le istruzioni di Catone, pone “soavemente” tutte e due le mani aperte sull’erba tenera, ancora bagnata di rugiada, e gli lava le guance segnate dalle lacrime per renderne visibile il colore offuscato dall’inferno[32]. Soddisfa i suoi bisogni senza che nemmeno gli vengano manifestati, come quando, nella cornice degli iracondi, avvolta da un denso fumo, quale “scorta saputa e fida”[33], come guida esperta e fedele, gli si avvicina, gli offre l’appoggio della propria spalla e lo esorta a non separarsi da lui.

     Non che non sappia svolgere il proprio ruolo quando si tratta di incoraggiarlo a fare qualcosa che teme, ma lo fa sempre da “dolce padre”[34]. Insieme a Stazio, sono nella settima cornice; l’angelo della castità li esorta ad attraversare il muro di fuoco purificatore che permetterà loro di accedere all’ultima scalinata del monte ma Dante, pallido come un cadavere, non si muove. Quando – come vedremo – riesce a convincerlo, entra nel fuoco per primo, si fa seguire da lui e chiede a Stazio di stargli dietro, affinché la sua posizione sia la più sicura. Poi, superata la barriera di fiamme e saliti i primi gradini della scala, quando si devono fermare per la notte, ciascuno si distende su un gradino. Dante precisa: “io come capra, ed ei come pastori”[35]. Infatti Virgilio e Stazio fanno la guardia a lui come i pastori al gregge.

     Soffermiamoci un momento su come Virgilio ha indotto Dante ad affrontare la prova.  Dapprima gli ha spiegato che la fiamma non lo avrebbe potuto privare nemmeno di un capello; poi, turbato nel vederlo irremovibile, gli ha fatto notare: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”[36]. Così il “savio duca” ha saputo vincere la sua ostinazione. Per questo ha sorriso “come al fanciul si fa ch’è vinto al pome”[37], come si fa col fanciullo che si lascia convincere da una ricompensa. E ancora di Beatrice gli ha parlato continuamente mentre erano dentro il fuoco, sostenendo: “Li occhi suoi già veder parmi”[38].

     Dopo tante aspettative, nel Paradiso terrestre infine Beatrice appare “dentro una nuvola di fiori”[39]. Dante è scosso dalla grande potenza del sentimentoche  –  rievoca  –  “m’avea trafitto prima ch’io fuor di puerizia fosse”[40], lo aveva colpito prima che fosse uscito dall’infanzia.  Si volta, “col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli è afflitto”, con la fiducia di un bambino impaurito o sofferente, per dire a Virgilio: “Men che dramma di sangue m’è rimaso che non tremi”, non mi è rimasta nemmeno una goccia di sangue che non tremi, ma lui “n’avea lasciati scemi di sé”[41], ci aveva lasciati privi di sé. E piange, rievocando la tenerezza con cui gli aveva pulito le guance con le mani bagnate di rugiada.  Piange tanto da essere persino compatito dagli angeli, anche perché, in contrasto con la premura paterna di Virgilio, Beatrice si comporta con lui come la madre che “al figlio par superba”[42] perché gli si rivolge con tono aspro. Questo gli fa sentire come amaro il sapore del suo affetto. Eppure la donna ha pianto per lui. Glielo fa sapere lo stesso Virgilio nel suo ultimo discorso, quando ne ricorda “li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno”[43].

     Allora era disperata perché, dopo la morte, notando che Dante aveva preso una strada sbagliata, aveva tentato in ogni modo, attraverso ispirazioni divine, di richiamarlo alla fede. Inutilmente. L’unica possibilità rimasta era fargli vedere le condizioni dei dannati. Per questo era scesa all’inferno e aveva implorato l’aiuto di Virgilio. Ma ora che costui ha svolto la propria funzione, occorre che Dante si penta, che “sia colpa e duol d’una misura”[44], cioè che il suo dolore sia pari alla sua colpa e che il prezzo dell’espiazione sia pagato attraverso un “pentimento che lagrime spanda”[45].

     Da qui la sua severità, sconosciuta a Virgilio, il quale, in cima alla scala che porta al Paradiso terrestre, chiamandolo “figlio”, gli aveva spiegato di avere portato a termine il proprio compito: “Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce”[46], ormai puoi prendere la tua volontà  come guida. Colui che al primo incontro Dante aveva chiamato “lo mio maestro e lo mio autore”[47], gli aveva segnalato il traguardo raggiunto: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio”[48], non aspettarti più da me parole o gesti; il tuo arbitrio è libero, retto e incorrotto, e sarebbe un errore non seguirlo: perciò io ti proclamo signore e guida di te stesso[49].

      In quel momento Dante non sapeva che sarebbero state le sue ultime parole. Lo ha visto sorridere insieme a Stazio quando hanno sentito richiamare gli antichi poeti[50]; con loro ha assistito alla processione mistica[51] ma poi, quando, all’apparizione di Beatrice,  sbigottito, si è girato verso di lui per comunicargli la propria emozione, non lo ha trovato. Era uscito di scena con la grandezza della sua statura morale.

     Ecco, la sua uscita di scena è ciò su cui più dovremmo riflettere perché è il segno caratterizzante la sua azione: la levità. Tutti i suoi gesti hanno una delicatezza sconosciuta a tanti di noi genitori. Tendiamo ad essere pesanti, ingombranti, quando li affrontiamo, per essere sicuri dell’efficacia dei nostri interventi, dell’effetto delle nostre parole. E quando sembriamo disinteressarci dei nostri figli è per il senso di inadeguatezza che ci pervade. Non sappiamo essere maestri.

     Non è stato così per le generazioni passate, che erano istintive e non si ponevano problemi. Prendiamo il caso di quando avrebbero dovuto lasciar andare i giovani: a parte il richiamo alle armi e l’emigrazione per fame, riuscivano a condizionarli a vita. Un uomo di una certa età mi ha descritto con angoscia una scena, alla quale aveva assistito molti anni prima, in cui la propria madre rincorreva piangendo giù per le scale il figlio minore in partenza per andare a vivere altrove. Mi ha confessato di aver deciso in quel momento che non avrebbe mai causato il ripetersi di quello strazio e di non avere, per questo motivo, colto alcune occasioni che lo avrebbero portato ad abbandonarla.

     Certamente è un caso estremo ma, ancora oggi, sono tante le mamme chiocce e non sono pochi i padri che costruiscono la casa ai figli nel proprio paese e che portano avanti l’impresa che hanno creato con l’intento di lasciarla loro in eredità, sentendosi traditi se questi aspirano a fare altro.

     Non accettiamo di definire quello del genitore un difficilissimo compito a tempo, che potremo considerare assolto quando il figlio avrà capito cosa significa vivere e sarà, come dice Virgilio, signore e guida di sé stesso.

     Dobbiamo chiedere scusa per la nostra inutile invadenza, per la nostra incapacità di far crescere e lasciar crescere i ragazzi, per la presunzione di poterli proteggere e l’arroganza di volerli difendere incondizionatamente, senza mai uscire di scena dalla loro vita.  

     In fondo, tutto dipende dal fatto che siamo viziati: dal XIII secolo avanti Cristo siamo tutelati dalle tavole di Mosè e dal comandamento “Onora il padre e la madre” che – badiamo bene – accosta le due figure genitoriali pur non equiparandole, tant’è che, nel Siracide, uno dei Libri sapienziali della Bibbia, del secondo secolo prima di Cristo, si chiarisce: “Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole”. Non ci possiamo meravigliare del potere che ci sentiamo in diritto di esercitare, anche se, già in quel testo, da alcuni precetti traspare l’onere della loro osservanza: “Chi onora il padre espia i peccati; chi onora sua madre è come chi accumula tesori”[52]. Il discorso si fa addirittura minaccioso, in caso di mancato rispetto della norma da parte di “chi teme il Signore”: “poiché la benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta”[53]. Le indicazioni sono molto più toccanti quando riguardano i genitori in disgrazia: “Non vantarti del disonore di tuo padre, perché il disonore del padre non è gloria per te; la gloria di un uomo dipende dall’onore di suo padre, vergogna per i figli è una madre nel disonore”[54].  Trovo infine commovente l’invito al figlio di un genitore in condizione di fragilità: “Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Sii indulgente, anche se perde il senno, e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore”[55]. Tutte queste disposizioni sono sbilanciate a favore dei genitori, ai quali si deve rispetto, gratitudine e cura in quanto rappresentano l’autorità di Dio: onorarli significa onorare Dio.

     Passano tanti anni e, nel 60 dopo Cristo, San Paolo assume una posizione di maggiore equilibrio. Comincia: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto” ma, due righi dopo, aggiunge: “E voi, padri, non esasperate i vostri figli”[56]. Questi cominciano finalmente ad esistere come persone, non più solo come esecutori della volontà divina. Bisogna tuttavia arrivare all’inizio del XX secolo perché vengano giuridicamente riconosciuti loro dei diritti. Non ci possiamo sorprendere che tanti di noi genitori ancora non li prendano in considerazione e agiscano come se essi non esistessero. I nostri figli, dal canto loro, come tutti gli adolescenti, quando vogliono oltrepassare i confini e opporsi all’autorità, possono invischiarsi in situazioni pericolose rispetto alle quali non sappiamo come agire.

     Forse, tra qualche decennio, quando gli adulti saranno più preparati e consapevoli di quanto siamo noi, i casi da “selva oscura” saranno rari ma oggi, quando noi stessi siamo frutto di un’educazione legata al passato e ci permettiamo di ripetere che “ai nostri tempi …”, in questa fase di transizione, dobbiamo prendere atto dei nostri limiti e accettare di non potercela fare da soli. E’ a questo punto che ci rendiamo conto che … ci manca Virgilio.

[1] Inf III, 98-99.

[2] Inf. III, 104.

[3] Inf III, 18-20.

[4] Inf III, 121.

[5] Inf IV, 14.

[6] Inf I, 72.

[7] Inf IV, 46.

[8] Inf V, 121-3.

[9] Inf XX.

[10] Inf XXX.

[11] Inf III, 79-81.

[12] Inf X, 19-21.

[13] Inf XIX, 37-9.

[14] Inf VIII, 43-5.

[15] Inf XIX, 112 e 121-7.

[16] Inf XVI, 14-5.

[17] Ibidem, 45.

[18] Inf XXI, 42.

[19] Inf IX, 59-60.

[20] Inf X, 37-9.

[21] Inf XIII, 130-1.

[22] Inf XXXI, 28-33.

[23] Inf XII, 22-7.

[24] Inf III, 88.

[25] Inf XVII, 96.

[26] Inf XXIV, 20-30.

[27] Ibidem 16-78.

[28] Inf XXXIV, 28.

[29] Ibidem, 70-83.

[30] Inf XXIII, 37-51.

[31] Purg XXX, 50.

[32] Purg I, 121-9.

[33] Purg XVI, 8-15.

[34] Purg XXVII, 51.

[35] Ibidem, 86.

[36] Ibidem, 35-6.

[37] Ibidem, 45.

[38] Ibidem, 54.

[39] Purg XXX, 28.

[40] Ibidem, 41-2.

[41] Ibidem, 43-9.

[42] Ibidem 79-81.

[43] Purg XXVII, 136-7.

[44] Purg XXX, 108.

[45] Ibidem, 144-5.

[46] Purg XXVII, 130-1.

[47] Inf I, 85.

[48] Purg XXVII, 139-142.

[49] In questa, come in alcune altre occasioni, ho tratto spunto dal commento contenuto nell’edizione SEI del 2021.

[50] Purg XXVIII,144.

[51] Purg XXIX.

[52] Libro del Siracide 3:2-4.

[53] Ibidem 3:9.

[54] Ibidem 3:10-11.

[55] Ibidem 3:12-13.

[56] Lettera agli Efesini 6:1 e 4.

Il furor del Conte Ugolino

Il dramma di un padre amoroso che soffre per le sofferenze dei figli. Il furor del Conte Ugolino.
Dedico questo saggioa Pier Francesco Savonaalunno di ieridal quale oggi apprendo
Il testo
Inferno, XXXII, 124-139; 1-91:Bocca degli Abati, “malvagio traditor”, si ostina nel rifiuto di dire il suo nome a Dante, benché questi  lo abbia preso per la collottola, cominciando a strappargli ciocche di capelli e minacciando di strapparglieli tutti. Un altro dannato, udendo le urla di Bocca simili a latrati, gli si rivolge svelandone il nome. A questo punto Bocca, che ormai potrà essere svergognato da Dante una volta ritornato sulla Terra, si vendica nominando diversi altri traditori affinché siano svergognati anch’essi. Dopo di che Dante e Virgilio si allontanano da “ello”. I versi
Di consueto in Ugolino si vede raffigurato il dramma di un padre amoroso che soffre per le sofferenze dei figli.
Dramma al quale il lettore si sente spinto a partecipare fino a porre in oblio il peccato di tradimento che l’anima dannata sconta con l’eterna condanna. Viene sentito come solo traditore l’Arcivescovo Ruggieri, l’anima dannata sul quale l’odio di Ugolino è destinato a sfogarsi  in eterno senza appagamento, come se esercitasse una vendetta divina nel momento stesso in cui sconta così la sua pena. Come vedremo, Dante qui ripropone in termini sconvolgenti il problema della giustizia, uno dei grandi temi della sua opera, se non il più grande, perché è il tema della giustizia in politica.
Sembra che Dante personaggio partecipi al dolore di Ugolino con una sorta di simpatia.
Eppure può essere ipotizzata una diversa lettura dell’episodio, tenendo presente quanto Vittorio Russo argomenta circa l’uso dantesco del termine “dolore”. Nella psicologia morale del cristianesimo, quale essa risulta da una serie di fonti fra cui spicca ovviamente la Summa Theologiae  di Tommaso d’Aquino, il dolore è passione negativa che s’identifica con la cattiva ira, quella “ira mala” da cui sono esenti i “pacifici” (Purgatorio, XVII, 68-69) e che è “dolor … cum appetitu vindictae”.  Nel segnalare  i nuovi riscontri linguistici, Enrico Malato non ritiene di poter accettare del tutto la nuova interpretazione che ne consegue.
Mette infatti a confronto i passi seguenti:
“Infandum, regina, iubes renovare dolorem” (Eneide, II, 3)“Nessun maggior dolore – che ricordarsi del tempo felice – nella miseria” (Inferno, V, 121-123)“Tu vuo’ ch’io rinovelli – disperato dolor che ‘l cor mi preme” (Inferno, XXXIII, 4-5)
In chiave  cristiano-medioevale il dolore di Ugolino è da considerare inseparabile dall’adirata bramosia di vendicarsi. Invece per Enrico Malato alla luce dei passi sopra citati il termine “dolore” nell’episodio deve continuare ad essere inteso nel senso per noi più comune.
Eppure si può andare ancora oltre e formulare l’ipotesi che Dante abbia voluto raffigurare in Ugolino una simbiosi di dolore e furore degenerata in vera e propria follia.
Per collaudare questa proposta di lettura, conviene innanzitutto andare oltre il ritaglio antologico dei versi dedicati a Ugolino, immergendosi  nei canti che lo  precedono  e rievocando l’atmosfera di  degrado in cui esso si colloca. Degrado  che investe anche la figura di Ugolino in quanto traditore, sebbene la critica di ascendenza romantica inaugurata da Ugo Foscolo lo faccia risaltare come uomo piuttosto che come dannato, quasi che le estreme sofferenze patite facessero sbiadire la sua condizione di peccatore.
Nel cerchio ottavo, decima bolgia, la rabbia dei falsari di persone si fa furore.
Degenera in follia. Lo preannunciano esempi tratti dal mito. Giunone si vendica di Atamante rendendolo così “insano” da  fargli tendere le reti per catturare  la moglie e i due figli  nelle sembianze di leonessa e leoncini, sbattendone mortalmente uno contro un macigno e spingendo la madre a precipitarsi in mare con l’altro (Inferno, XXX, 1-12). Ecuba, “trista, misera e cattiva” per la caduta di Troia, “dolorosa” per aver visto morta Polissena e morto Polidoro sulla riva del mare, divenne “forsennata” al punto che “latrò sì come cane” per il “dolor” che le rese  “la mente torta” (Inferno, XXX, 13-21). Si noti come qui l’uscire fuor di senno comporti il degrado nella bestialità  e come il dolore nel senso di rabbiosa e furibonda ira sia causa di follia.
Dopo che nel canto XXXI è avvenuto l’incontro coi giganti e ha avuto luogo la discesa nel nono cerchio, nel canto successivo si vede derivare dal fiume di Cocito un lago ghiacciato ove sono confitti nella prima zona o Caina i traditori dei congiunti (Inferno, XXXII, 1-69), nella seconda zona o Antenora i traditori politici (Inferno, XXXII, 70-139; XXXIII, 1-90), nella terza zona o Tolomea i traditori degli ospiti (Inferno, XXXIII, 91-157), nella quarta zona o Giudecca i traditori dei benefattori fra cui Giuda traditore di Cristo e Bruto e Cassio traditori di Cesare, maciullati nelle tre bocche  di Lucifero, in quella centrale Giuda, in quelle laterali Bruto e Cassio (Inferno, XXXIV, 1-69). Queste anime vengono trattate  come degne di estremo sdegno quali esponenti di un’umanità degradata.
L’incontro con i traditori politici, fra i quali Ugolino, si colloca in questo  clima di perversione suprema, al punto che  Dante stesso si adira contro un dannato.
Dopo averlo percosso accidentalmente nel viso col piede,  diventa violento contro di lui che si ostina nel non volergli rivelare la sua identità: lo prende “per la cuticagna”, lo minaccia di strappargli tutti i capelli, glieli serra fra le mani e comincia a staccargliene “più d’una ciocca”, fermandosi  solo quando un altro dannato gli svela che il “malvagio traditor” è Bocca degli Abati, il quale poi per vendicarsi gli fa i nomi di diversi altri traditori politici (Inferno, XXXII, 73-123).
Dopo l’alterco con Bocca degli Abati, Dante vede “due ghiacciati in una buca – sì che l’un capo a l’altro era cappello”. Trovandosi di fronte al dannato che fa da cappello e rode il cranio dell’altro “come ’l pan per fame si manduca”, nel vedere che sfoga un suo odio con quel “bestial segno”, gli chiede chi egli sia (Inferno, XXXII, 124-139):Noi eravam partiti già da ello,ch’io vidi due ghiacciati in una buca,sì che l’un capo a l’altro era cappello;e come ’l pan per fame si manduca,così ’l sovran li denti a l’altro poselà ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:non altrimenti Tidëo si rosele tempie a Menalippo per disdegno,che quei faceva il teschio e l’altre cose.“O tu che mostri per sì bestial segnoodio sovra colui che tu ti mangi,dimmi ’l perché”, diss’io, “per tal convegno,che se tu a ragion di lui ti piangi,sappiendo chi voi siete e la sua pecca,nel mondo suso ancora io te ne cangi,se quella con ch’io parlo non si secca”.
Il “bestial segno” indica come in  quel traditore si manifesti la “matta bestialitade” di cui al canto XI dell’Inferno, ove Dante si ricollega alla φηριότης che Aristotele nell’Etica Nicomachea annovera fra i mali  morali, così come tremendo male morale è in  Tommaso d’Aquino la bestialitas. Ed è da notare che per Giovanni Boccaccio la bestialità è matta in se stessa, ovvero coincide con la follia. All’inizio del canto XXXIII la bestialità di Ugolino viene ribadita con l’espressione “fiero pasto”, che equivale allo sbranare ferinamente una preda. Il “dolor” è associato  alla ferocia derivante dall’ira, ovvero a un furor rabbioso destinato a durare in eterno nel rodere il teschio dell’Arcivescovo Ruggieri, del quale Ugolino si era fidato e che lo aveva tradito (Inferno, XXXIII, 1-9):
La bocca sollevò dal fiero pastoquel peccator, forbendola a’ capellidel capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovellidisperato dolor che ’l cor mi premegià pur pensando, pria ch’io ne favelli.Ma se le mie parole esser dien semeche frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,parlare e lagrimar vedrai insieme.
Forse Ugolino solleva soltanto la bocca e non drizza il volto sul collo, mentre le lacrime come per gli altri dannati gli si ghiacciano e la voce fuoriesce roca dalla gola.
La tragica vicenda della morte per fame dei prigionieri privati del cibo  nella torre carceraria si inserisce fra questi versi e i versi in cui, una volta conclusa la sua narrazione, Ugolino manifesta ancora il suo odio maniacale storcendo lo sguardo e riprendendo a rodere il teschio coi denti paragonati alle zanne di un cane (Inferno, XXXIII, 76-78):
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi tortiriprese ’l teschio misero co’ denti,che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Si noti la violenza espressiva del verso 78 per il suo ritmo anomalo  con quell’accento sulla nona sillaba, che mette in estremo risalto la ferocia del “can”. E si noti anche l’esasperato realismo della scena, in cui le anime sono presentate come se avessero i loro corpi, che riavranno invece soltanto nel  dies irae.
Il  realismo fa porre in oblio questa circostanza, che Dante metterà in luce nella seconda cantica.
Quando Dante personaggio si accorge che Virgilio non ha corpo, perché non proietta ombra, resta interdetto finché non gli giunge una spiegazione del mistero, spiegazione che rimanda al mistero dell’operato della virtù divina (Purgatorio, III, 31-33):
A sofferir tormenti e caldi e gelisimili corpi la virtù disponeche come fa non vuol ch’a noi si sveli.
Quale è la reazione di Dante mentre Ugolino narra la tragica vicenda da lui  vissuta nel carcere ove ebbe a patire la morte per fame coi quattro figli?
Due dei quali erano in realtà nipoti, divenuti figli nella finzione poetica per accentuare la tragicità della vicenda. Dante, si duole Ugolino, è  “crudel”, perché non piange con lui. In realtà Dante, mentre ascolta, sente crescere in sé lo sdegno non tanto per la sorte di Ugolino, in cui continua a vedere il traditore politico, quanto per le sofferenze dei figli. Una volta finita la narrazione della tragedia svoltasi in quel tetro carcere, simile a un inferno sulla Terra, l’indignazione erompe nella tremenda, iperbolica, apocalittica invettiva contro i Pisani, responsabili di avere martoriato degli innocenti. Dunque siamo di fronte all’episodio non tanto della paternità sofferente, quanto dell’innocenza violata (Inferno, XXXIII, 79-90):
Ahi Pisa, vituperio de le gentidel bel paese là dove ‘l sì suona,poi che i vicini a te punir son lenti,muovasi la Capraia e la Gorgona,e faccian siepe ad Arno in su la foce,sì ch’elli annieghi in te ogne persona!Che se ’l conte Ugolino aveva voced’aver tradita te de le castella,non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.Innocenti facea l’età novella,novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigatae li altri due che ’l canto suso appella.
Innocente Ugolino, in quanto traditore, non lo è, Dante, dopo averlo incitato a parlare all’inizio, non ritiene di dovergli parlare alla fine.
A differenza di come si comporta con Francesca, alla quale si rivolge dicendole “i tuoi martiri – a lacrimar mi fanno tristo e pio” (Inferno, V, 116-117),  in questo canto si lascia alle spalle il furor del dannato (Inferno, XXXIII, 91-93) con un “passammo oltre”:
“Noi passammo oltre, là ’ve la gelataruvidamente un’altra gente fascia,non volta in giù, ma tutta riversata.”
Lascia comunque perplessi quell’invettiva in cui per vendicare quei figliuoli innocenti viene invocata la distruzione di ogni persona in Pisa. Paradossalmente è come se Dante condividesse la furia del dannato. In tutto ciò, laddove Benedetto Croce incredibilmente vede in Ugolino un “giudice dei giudici” che “ferocemente, ferinamente, pur vendica l’umanità”, Teodolinda Barolini ravvisa invece “l’emblema definitivo della politica perversa e dell’umanità fallita”.
La lettura di Francesco De Sanctis ha già in sé gli elementi atti a corroborare la tesi di quel furor di Ugolino che per noi è una manifestazione della follia del dannato: il rodere il teschio è “un atto così fuor dell’umano, così ferino”. Nella ferinità si annida l’irrazionale, la privazione della ragione. È sintomatico il lapsus del De Sanctis che, nel riportare il verso “ambo le man per lo dolor mi morsi”, sostituisce “furor” a “dolor”. L’illustre critico ascolta  proveniente  da  Ugolino “una voce che non sai più se sia d’uomo o di belva”  e gli attribuisce “un sentimento di furore canino”,  continuando ad associare il “dolore” al “furore”:“Ma quanto dolore ha prodotto tanto furore!”Non sfugge al De Sanctis la bestialità di Ugolino:“Prima che morisse il corpo, morto era l’uomo; sopravviveva la belva, mezza tra l’amore e il furore, i cui ruggiti spaventevoli non sai se esprimano suono di pietà o di rabbia.”
Nella prospettiva del furor di Ugolino può essere riconsiderato il dubbio suscitato dal verso “Poscia, più  che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, con cui il discorso del dannato si conclude.  In proposito  si sono creati due opposti schieramenti critici, favorevole l’uno, sfavorevole l’altro alla tesi dell’ antropofagia o tecnofagia o cannibalismo di Ugolino.
Fra i sostenitori di quest’ultima annoveriamo proprio il De Sanctis, che non a caso usa il termine “delirio”:
“Forse, mentre la natura spinge i denti nelle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono le carni del suo nemico […]”
Senonché, se intendiamo il dolore come sentimento legato all’odio verso l’Arcivescovo Ruggieri, è da ritenere che  la tesi favorevole sia da escludere. Vero è che Dante disponeva di fonti in cui padri o madri straziavano la carne dei figli, compreso il De bello judaico  di Giuseppe Flavio segnalato da Rossana Fenu Barbera in aggiunta alle fonti già note, ma non è detto che un poeta debba sempre riprendere pedissequamente i passi ai quali attinge. Può sembrare che il padre si sia deciso a sfamarsi delle carni dei figli, proprio perché essi stessi gli si erano  offerti come cibo. Riconsideriamo però  la scena nella parafrasi di Jorge Luis Borges:
“Nel fondo glaciale del nono cerchio, Ugolino rode infinitamente la nuca di Ruggieri degli Ubaldini, e si forbisce la bocca insanguinata coi capelli del reprobo. Solleva la bocca, non il volto, dal feroce pasto, e narra che Ruggieri lo tradì e lo incarcerò coi suoi figli. Dall’angusta finestra della cella vide crescere e decrescere molte lune, fino alla notte in cui sognò che Ruggieri, con mastini affamati, dava la caccia sul fianco di un monte a un  lupo e ai suoi lupacchiotti. All’alba sente i colpi del martello che mura l’uscio della torre. Passano un giorno e una notte, in silenzio. Ugolino, spinto dal dolore, si morde le mani; i figli credono lo faccia per fame, e gli offrono la loro carne, da lui stesso generata. Tra il quinto e il sesto giorno li vede morire ad uno ad uno. Poi resta cieco e parla coi suoi morti e piange e li tasta nel buio; poi la fame poté più del dolore.”
William Empson ha mostrato come nella poesia ricorrano diversi tipi di ambiguità, voluta o meno che sia, e come ciò influisca sull’interpretazione, mettendone in forse i limiti.  Borges ritiene per l’appunto che Dante abbia fatto volutamente ricorso all’ambiguità, per generare nel lettore nient’altro che il sospetto senza certezza di un Ugolino spinto dalla fame a cibarsi delle carni dei figli:
“Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le generazioni.”
Così l’interpretazione risulta sospinta nella sfera dell’ambiguità. Possiamo però discostarci da Borges. Osserviamo che quel padre, per quanto moribondo per l’inedia, non può essersi indotto  a violare le spoglie dei figli innocenti da quel suo  furioso dolore:  la dolorosa follia lo spingerà a voler fare a brani solo la persona di colui che, avendolo tradito, lo tradì e lo destinò insieme con quegli innocenti allo strazio dell’agonia nel “doloroso carcere”.
Resta aperto il problema destinato a lasciare assai perplesso il lettore.
Si è visto che il  De Sanctis intuisce la follia di Ugolino fin quasi a metterla in piena evidenza, mentre Stazio, fonte di Dante per l’episodio in esame, è esplicito e perentorio nel definire amens, ossia fuori di sé, dissennato, forsennato, pazzo, Tideo che rode le tempie di Menalippo (Tebaide, VIII, 751). Ebbene, come si concilia la tesi della follia di Ugolino con la “tecnica lucidamente matematica” ravvisata da Daniele Mattalia nel suo racconto, caratterizzato per giunta secondo Teodolinda Barolini  da “estrema astuzia narrativa”?
La risposta è nella definizione di “lucida follia” come “delirio di rivendicazione”.
I rivendicativi possono essere dissennati e offuscati mentalmente e ad un tempo coscienti e lucidi a livello espressivo. Vi è una connessione altalenante fra le due dimore psichiche. Una volta ricevuto un torto, si mostrano tanto precisi nel definirne modalità e circostanze quanto violenti nel volersene vendicare. Così Ugolino, ricevuta la richiesta di interrompere l’iroso, disperato e macabro sfogo della sua follia,  con una ben calcolata retorica della realtà vuole coinvolgere chi l’ascolta e renderlo partecipe del suo dramma. Comincia a rievocare la drammatica  atmosfera in cui si andò svolgendo la lenta agonia sua e dei suoi figli. Al di fuori della torre carceraria la luna e il sole continuano a scandire il corso del tempo nell’eternità  del cosmo. Un sogno premonitore, anzi un incubo profetico, rende inquieto quel padre, che si desta nel cuor della notte e ode i figli chiedere pane nel sonno.
Nell’accorgersi che Dante resta impassibile, lo accusa di insensibilità.
Perché è così crudele? Perché non partecipa al suo disdegno nei confronti di quel traditore insignito della carica arcivescovile? Perché non piange con lui? La porta della torre carceraria viene inchiodata, segno che  non sarà più fornito cibo ai prigionieri, condannati alla tortura della morte per  inedia. Il padre resta come pietrificato. Ammutolisce. Non riesce più nemmeno a piangere. Piangono i figli. Uno di loro si accorge della stranezza dello sguardo paterno e gliene chiede ragione. Il padre si sforza di trattenere il pianto e continua a tacere.
Giorni e notti trascorrono inesorabili.
Nella prigione tenebrosa filtra un raggio di sole e illumina i volti dei figli simili ormai a quello che deve essere ormai lo stesso aspetto del padre, smunto, emaciato, ansioso, stravolto, atterrito. Dolore per la sua e loro sorte insieme all’anelito di vendetta contro l’arcivescovo lo spingono a mordersi le mani, la destra, la sinistra. I figli credono invece che lo faccia per fame e si offrono come cibo a lui che li aveva generati, riecheggiando Cristo che nella tradizione evangelica si rivolge ai discepoli: “Prendete e mangiate: questo è il mio  corpo”. Il padre si sforza di apparire calmo.
Giorni e notti trascorrono inesorabili.
Padre e figli rimangono in silenzio, finché un  figlio si getta ai piedi del padre supplicandolo di aiutarlo e in quella supplica muore. Nei giorni successivi uno dopo l’altro muoiono gli altri tre figli. Nel buio del carcere il padre ormai  cieco va a  tentoni su  quegli amati cadaveri, chiamandoli per due giorni ancora, come se potessero udirlo, ma i morti, si sa, non risorgono. Poi muore anch’egli per fame. Il tragico racconto finisce. Finisce anche la lucidità. Irrompe l’irrazionale. Ugolino stravolge  gli occhi e rode il teschio coi denti simili alle zanne di un cane feroce,  segno di ripresa dell’intento bestiale di sbranare l’ecclesiastico che aveva tradito lui aristocratico. Alla luce dell’opera di Michel Foucault sulla follia diremmo che simili folli qualche tempo dopo sarebbero stati emarginati dalla società.
Non mancano commentatori che vedono in Ugolino uno strumento della giustizia divina.
Invece quella pazza brama di vendetta è una condanna  aggiuntiva per il traditore politico che rode il capo del traditore politico. Nell’episodio di Ugolino è insito il monito di Dante ai politici affinché vogliano e sappiano agire con giustizia al cospetto di Dio. Monito che resta fortemente suggestivo anche nella prospettiva di un rapporto fra giustizia e religione non più corrispondente alle odierne teorie del diritto.
Riferimenti

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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