La “lingua” siciliana a scuola? E chi dovrebbe insegnarla? Ma è lingua o dialetto?

Quando fu chiesto a Giovanni Verga, lui padre del “Verismo”, perché non scrivesse in siciliano, rispose che se l’avesse fatto solo pochi, e nell’isola, avrebbero letto le sue opere. 

Come per certi versi è accaduto ai poeti dialettali, compresi i famosi i lombardi (Porta e perfino Giuseppe Parini), i romani (Belli e Trilussa) e pure per i siciliani illustri, Domenico Tempio e Giovanni Meli. 

Ma lo stesso Leonardo Sciascia, nelle corrispondenze con Pasolini, che considerava il friulano frutto della cultura più genuinamente popolare, scriveva che il dialetto è possibile usarlo solo in poesia, giammai nella prosa o nella saggistica. E aggiungeva che ai giovani fa bene parlare l’italiano, considerato che la lingua, come qualsiasi creatura vivente, si modifica e si trasforma, varia persino nella sintassi, adeguandosi ai sempre più aggressivi barbarismi, mentre centinaia di lingue e dialetti nel mondo scompaiono ogni giorno, come le specie animali e vegetali.

In più, il

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Una passeggiata a Capo Sunio, in Grecia

Là dove la terra di Atene si immerge nel mare degli dei, si erge possente il tempio di Poseidone.

Su quel promontorio di roccia il sole lo avvolge, il vento lo consuma e le onde gli sussurrano voci antiche.

Ma dove si trova esattamente questa meraviglia? È in Attica, nel punto più a sud della penisola greca, a una sessantina di chilometri dal centro di Atene, su uno sperone roccioso alto circa 60 metri.

La sua storia inizia intorno al 490 a.C., quando viene iniziato un tempio dorico perìptero esàstilo (cioè con un giro di colonne attorno alla cella e sei colonne in facciata) realizzato in poros, una pietra calcarea molto usata in età arcaica.L’edificio, però, non era affatto arcaico. Le colonne, infatti, rispettavano già il rapporto pari al doppio più una tra il numero di quelle dei fronti e il numero di quelle sui lati, che sarà tipico dell’età classica. Dunque le colonne di questo primo tempio erano già 6×13.
Il tempio non era ancora completo quando, nel 480, i Persiani di Serse distruggono tutti i monumenti dell’Attica. Ma la risposta di Pericle non si farà attendere. Dopo aver avviato i lavori del Partenone e degli altri edifici dell’Acropoli di Atene, vuole ricostruire anche il tempio di Capo Sunio, sia per omaggiare quel dio, Poseidone, che aveva perso nella contesa sull’Attica contro Atena, sia per ripristinare quell’avamposto proteso verso il mare Egeo, simbolo della forza militare e politica degli ateniesi.

E così, tra il 444 e il 440 nasce un nuovo tempio leggermente più grande del precedente ma a quello molto simile, di cui ingloba lo stilobate. Stavolta però è tutto in marmo e presenta alcune importanti novità.

Queste riguardano soprattutto la cella e il suo rapporto con la peristasi: le due ante del lato est sono allineate con la terza colonna mentre quelle del lato ovest (il retro del tempio) sono allineate con la mezzeria della terza colonna. Il risultato è che il portico posteriore è più profondo di quello anteriore, un caso unico nell’intero panorama dei templi greci.

Sembra un dettaglio insignificante ma era attraverso questi particolari che ogni tempio si differenziava dagli altri, alla continua ricerca del modello perfetto.

Un’altra novità assoluta era negli elementi decorativi. Il fregio dorico aveva metope lisce, ma all’interno della trabeazione correva un fregio ionico, cioè una fascia continua con scene in bassorilievo. Nel Partenone questa fascia circondava la parete esterna della cella. Qui invece circondava il deambulatorio. Di quelle sculture rimane solo qualche frammento al Museo Archeologico di Lavrio, a nord di Capo Sunio.

Infine sono inedite anche le colonne. Alte 6,10 metri, presentano un rapporto tra altezza e diametro di base pari a 5,78, una misura che corrisponde a uno slancio verticale che non era stato raggiunto neanche dalle colonne del Partenone (in quel caso il rapporto è pari a 5,48).A mitigare la snellezza di questi fusti, che erano anche privi di èntasis (cioè il rigonfiamento a circa un terzo dell’altezza tipico dei templi arcaici), interviene una singolare riduzione del numero di scanalature. Nelle colonne doriche sono in genere 20, ma qui sono 16. Questa scelta potrebbe derivare dal tentativo di offrire spigoli meno affilati all’azione corrosiva dei venti.

Le vicende successive possiamo immaginarle. Con il declino della civiltà greca il tempio cade in abbandono e le sue pietre vengono in gran parte smontate e riutilizzate come materiale da costruzione. Eppure le rovine di Capo Sunio non smisero di affascinare generazioni di viaggiatori, tanto da far ribattezzare il promontorio “Capo Colonne“.

Tra gli autori antichi che hanno descritto il tempio c’è il geografo Pausania, detto il Periegeta. La sua Guida della Grecia, risalente al II secolo d.C., si apre proprio con la descrizione del promontorio (Ma scambia il tempio per quello di Atena, che era invece edificato poco distante e che a quell’epoca era stato già smontato): “Nel continente della Grecia verso le isole Cicladi, e il mare Egèo, sporge fuori dell’Attica il capo Sunio; e v’ha per chi lo costeggia un porto, e sulla sommità è il tempio di Minerva Suniade.” Ma ne parlarono anche Omero, Erodoto, Euripide, Sofocle, Aristofane e Strabone.

Il tempio tornerà a far parlare di sé nei resoconti dei viaggiatori a partire dal Seicento. Ma la sua epoca d’oro sarà l’Ottocento, il secolo del Romanticismo e dell’amore sfrenato per le rovine di un passato splendore.È questo il periodo a cui risalgono le più antiche raffigurazioni del tempio di Poseidone come quelle dell’italiano Simone Pomardi e dell’inglese Edward Dodwell, due artisti che viaggiarono assieme in Grecia tra il 1804 e il 1806 lasciando una preziosa testimonianza delle condizioni in cui si trovavano gli edifici classici all’inizio del XIX secolo.

Cinque anni dopo il tempio sarà visitato da un viaggiatore d’eccezione: George Gordon Byron. Il poeta inglese era lì per il suo Grand Tour, affascinato da quel misto di antichi miti e suggestioni orientali. Di quelle emozioni resta traccia nel poemetto Le isole della Grecia (dentro il Don Giovanni, 1819-1824):
Place me on Sunium’s marbled steep,Where nothing, save the waves and I,May hear our mutual murmurs sweep;There, swan-like, let me sing and die:A land of slaves shall ne’er be mine,Dash down yon cup of Samian wine!
(Mettimi sulla rupe in marmo di Sunio, / Dove niente, salvo le onde e me, / Possa udire spazzare i nostri reciproci mormorii; / Là, come un cigno, lasciami cantare e morire: / Una terra di schiavi non sarà mai mia, / Butta giù quella tazza di vino di Samo!)

L’esaltazione per quel luogo magico, per quell’incanto di marmo, fu tale che lord Byron non potè resistere alla tentazione di incidere la sua firma sul tempio, alla base del pilastro destro del pronao.

Oggi gli daremmo del vandalo, ma all’epoca non esisteva il concetto di beni culturali e apporre la propria firma su un monumento era quasi obbligatorio per ogni viaggiatore. Non faremo l’errore di giudicare un uomo di duecento anni fa con i criteri e la sensibilità dell’epoca attuale…Per altro l’amore di Byron per la Grecia non era quello del ricco intellettuale in vacanza: sentiva fortemente l’aspirazione del popolo Greco alla libertà contro il dominio turco e per questo andrà a combattere nel 1823 nella Guerra d’indipendenza greca morendo l’anno dopo (forse di meningite) a Missolungi, uno dei teatri più drammatici degli scontri.Il dipinto che lo raffigura sul letto di morte, simile a un eroe antico, mostra sullo sfondo proprio un tempio, simbolo di quella culla di civiltà.

Dopo il 1832, con la fine della Guerra d’indipendenza, nuovi artisti si recano a Capo Sunio per disegnare il magnifico tempio mentre altri, pur non essendosi recati personalmente in Grecia, ne hanno lasciato immagini superbe ed evocative. Sto parlando di William Turner, il pittore degli eventi atmosferici estremi, delle nebbie e delle tempeste. Il suo tempio al chiaro di luna, del 1834, è la rovina romantica per eccellenza. Non è gotica, come quelle amate da Friedrich, ma è ugualmente ricca di mistero.

Dai suoi dipinti vennero tratte anche numerose incisioni come quelle di Edward Finden del 1832.

La versione più drammatica arriverà nel 1856 con il russo Ivan Ajvazovskij. Si tratta di Sunio in tempesta, una scena che mescola la vista sublime di un vascello sbattuto dalle onde con la veduta pittoresca del tempio in cima al promontorio, illuminato dalla luce bianca della luna.

Il tempio non è il protagonista del dipinto ma è una scelta comprensibile per un pittore innamorato del mare come Ajvazovskij. E forse rende meglio degli altri la spettacolare collocazione scelta dagli antichi greci per erigere la struttura.
Oggi Capo Sunio con il suo tempio è una rinomata località turistica. Le sedici colonne superstiti (delle trentotto originarie) attirano ogni giorno centinaia di visitatori.

La maggior parte ci va per il panorama e per assistere a quello spettacolo mozzafiato che è l’ora del tramonto. E io non volevo essere da meno…
Questo è il paesaggio che si può ammirare ai piedi del tempio, dove si ammassa la folla prima del crepuscolo.

Ma io non volevo perdermi la vista del tempio contro il cielo del tramonto. Per questo mi sono spostata sulla punta retrostante, in modo da cogliere in controluce quelle millenarie colonne.

Ecco, il sole scompare sotto l’orizzonte. Il cielo si tinge di rosso e quei marmi, come segno fragile ma eterno dell’incontro tra uomo e natura, si disegnano sottili sulla roccia.

È un attimo sospeso. Fugace come la bellezza e come la felicità.
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La Divina Mimesis di Pasolini

Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Einaudi, 1975. Un tentativo  privilegiato di  ritornare al senso profondo del pensiero dantesco.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)
Questa recensione si colloca volutamente al di fuori del 25 marzo, data del cosiddetto Dantedì.
Ormai è una moda svuotare di significato il messaggio del sommo poeta,  svilendolo in un clima di mercificazione ed esibizionismo. Si pensi, ad esempio, al Dante presentato ai bambini come un personaggio a fumetti o di figurine, al perpetuarsi di narcisistiche conferenze su Dante, ai tanti adattamenti teatrali della Commedia. Sono altrettanti esempi di come Dante non dovrebbe essere celebrato. I veri dì di Dante sono quelli trascorsi da docenti e studenti nel corso di un intero anno scolastico a contatto con la sua poesia e il suo messaggio. Il Dantedì invece è una cerimonia che si esaurisce in se stessa.
La Divina Mimesis  di Pasolini è un tentativo  privilegiato di  ritornare al senso profondo del pensiero dantesco.
Dante si prefisse lo scopo di guidare il genere umano alla beatitudine.  La Commedia è animata da un moto ascensionale verso il paradiso cristiano. Questa possibilità di redenzione da ciò che impedisce di essere felici può essere recepita da credenti e non credenti. Per entrambi si tratta di verificare nel corso delle proprie storiche esistenze se e come diventi possibile redimersi. Pasolini si accinse a una simile verifica con un racconto che poi non ebbe sviluppo. Dell’ambiziosa e disperata impresa restano soltanto due canti completi, non in versi,  in prosa; appunti e frammenti per i canti III, IV e, con un salto, VII; due note dell’autore. In una sua nota l’editore informa sul lavoro fatto per riordinare gli appunti sparsi lasciati da Pasolini.
I frammenti dell’opera in fieri reperiti ed editi mostrano quanto l’idea dell’imitazione dantesca  fosse tormentata.
Idea tormentata a partire dalle varianti del titolo: “Frammenti infernali”; “Memorie barbariche”; “La teoria”; “La divina teoria”; “La divina realtà”. Su uno dei fogli dattiloscritti figura anche il titolo “Paradiso”. Inferno, barbarie, paradiso: queste parole sono indizi della ricerca operata da Pasolini su se stesso e sulla realtà del suo tempo a partire dalla meditazione esistenziale di Dante. Ricerca che lo portava a scoprire quanto profondamente fosse insito nella coscienza del sommo  poeta il legame fra la sorte dell’umanità e l’impegno  politico. Dall’intera opera dantesca egli sentiva provenire una lezione valida in ogni tempo, lezione secondo la quale i più nobili ideali debbono essere messi alla prova sul piano politico, essendo chiamato ciascuno, anche se sentendosi dominato dallo sconforto, a dar prova di responsabilità e di impegno civile e umano.
Per Pasolini si trattava dunque di verificare la possibilità di realizzare un ideale salvifico nell’assetto politico della realtà contemporanea.
Pasolini intraprende il suo viaggio a quarant’anni, nella realtà della “Selva” del 1963, in una oscurità che è anche luce. È una mattinata di aprile, o forse maggio, nel suo ricordo confuso. La realtà è una realtà borghese. In  essa “l’unico dato buono” sono gli operai. Ogni tanto vengono riecheggiati e insieme trasformati dei versi danteschi. Ad esempio, mentre Dante scrive a proposito della selva: “Io non so ben ridir com’io v’entrai” (Inferno, I, 10), Pasolini a proposito della sua esperienza scrive: “Ah, non so dire, bene, quando è incominciata: forse da sempre”. Come Dante, si imbatte nella Lonza, nel Leone, nella Lupa, che gli impediscono di andare verso l’alto; ma mentre rovina giù, gli appare un’ombra, che si identifica con il suo io sdoppiato. Il Virgilio di Dante con enfasi dice “Poeta fui”, invece l’io speculare di Pasolini, come a voler sancire la morte di ogni speranza di cambiare il mondo con la poesia, antepone  il verbo al sostantivo:
“Fui poeta, – aggiunse, rapido, quasi ora volesse dettare la sua lapide – cantai la divisione nella coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita. E, nel dolore della distruzione misto alla speranza della fondazione, esaurisce oscuramente il suo mandato …”
L’incontro con se stesso come guida avviene in un clima di iniziale scoramento.
La guida, che avrebbe potuto essere Gramsci, o Rimbaud, o Charlot, scrive Pasolini, è invece “un piccolo poeta civile degli anni Cinquanta […] incapace di aiutare se stesso, figurarsi un altro”. La bestia che più gli fa paura è la Lupa. Dante con la Lonza identifica la lussuria e con la Lupa l’avarizia. Pasolini fonde avarizia e lussuria nella sola figura della Lupa. Ossessionato dal sesso, immagina che al posto del Veltro come salvatore avvenga l’avvento di un vizioso capitalista:
“Questo qui […] non sarà padrone di fabbriche o di catene di giornali, non possiederà feudi nel Sud, ma sue ricchezze saranno spirito aziendale, capitale cartaceo, e patria plurinazionale. Ah, ah, ah! Sarà lui la salvezza del mondo: che non si rigenererà affatto con le morti assurdamente eroiche a cui è delegata l’umile gioventù di sempre […]”
Nel secondo canto Pasolini rielabora sempre in chiave moderna la tematica dell’esitazione di Dante, che confessa a Virgilio di non sentirsi degno di intraprendere il viaggio nell’aldilà.
Questo potrebbe essere definito il canto dei fiori. Prendendo spunto dai “fioretti” piegati dal gelo notturno e risorti al calore dei raggi del sole, immagine con cui Dante, rincuorato da Virgilio, si sente il cuore invaso dal “buono ardire” di seguirlo nell’oltretomba, Pasolini si decide a seguire se stesso come un “fiorellino”  nel suo inferno sulla Terra:
“Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza  che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo!”
Negli appunti e frammenti per il terzo canto Pasolini si rifà ai versi danteschi in cui tumultuano “diverse lingue” e “orribili favelle”.
Ed eccolo l’inferno sulla Terra. È la “Città” – una città come tante altre nel mondo. “Dialetti, o gerghi, parlate di poveri o di ricchi[…]”: sono i  linguaggi che vi si odono, tali da “rivelare subito socialmente i parlanti” ma “sotto un aspetto asociale, spaventoso”. Costoro corrispondono agli ignavi. Hanno scelto di “essere come tutti”, senza trovarsi però  in “una condizione di reale innocenza”. Ad essi si contrappongono altri che, pur essendo come tutti, non hanno peccato di ignavia, ma hanno combattuto per la libertà: i partigiani.
Negli appunti e frammenti per il quarto canto Pasolini chiede perdono al lettore.
La richiesta di perdono è dovuta alla sproporzione fra ciò che il nuovo Dante vorrebbe e ciò che riesce a dire. Eppure lui non ha potuto fare a meno di esprimersi. Infatti il sapere a un certo punto esige di essere manifestato. Nel silenzio si realizza soltanto “il nostro intimo conformismo”, del quale non ci interessiamo per il motivo che può essere così esplicitato:
“Odiamo il conformismo degli altri perché è questo che ci trattiene dall’interessarci al nostro. Ognuno di noi odia nell’altro come in un lager il proprio destino. Non sopportiamo che gli altri abbiano una vita e delle abitudini sotto un altro cielo. Vorremmo sempre che qualcosa di esterno, come per esempio un terremoto, un bombardamento, una rivoluzione, rompesse le abitudini dei milioni di piccoli borghesi che ci circondano. Per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe […] L’Inferno che mi son messo in testa di descrivere è stato semplicemente già descritto da Hitler. È attraverso la sua politica che l’Irrealtà si è veramente mostrata in tutta la sua luce. È da essa che i borghesi hanno tratto vero scandalo, o, mi vergogno a dirlo, hanno vissuto la vera contraddizione della loro vita.”
Poi Pasolini si rifà al nobile castello degli spiriti magni. Raffigura una schiera di poeti nel giardino di un villa a qualche chilometro da Praga. Sono poeti boemi o slovacchi. In Italia in un luogo analogo i poeti italiani avrebbero le sembianze volgari di piccoli borghesi e apparirebbero come una sorta di impiegati.
Pasolini continua quindi la sua analisi della società. Una società in cui “non c’è alcuna soluzione di continuità tra suddito e padrone, tra lavoratore e capitalista”. Una società in cui l’essere umano è ridotto alla dimensione di “acquirente”, eccezion fatta nel caso del poeta,  per il quale è impossibile “avere una figura economica”.
Negli appunti e frammenti per il VII canto ritorna la tematica del conformismo.
È questa la tematica che a Pasolini preme esprimere: il conformismo. Perciò egli salta il quinto e sesto canto, canti di Paolo e Francesca e delle vicende di Firenze. Nel canto settimo dell’inferno dantesco sono puniti avari e prodighi, iracondi e accidiosi. Nel canto settimo dell’inferno pasoliniano i piccoli borghesi scontano questo “peccato”: “seppero come non essere conformisti, e lo furono”. La narrazione prosegue con le Demonie, una “polizia infernale femminile”, costretta a far passare il viandante sdoppiato oltre una sbarra  che lo separa da una grande folla. In essa vi è un grande numero di donne, nelle quali “il conformismo ha sempre una certa grandezza”, come una vera e propria  “religione”. Invece i maschi si sono macchiati di “peccati così orrendi come quelli commessi dalla borghesia in questo secolo, per difendere il proprio diritto a odiare la grandezza”. E in proposito vengono evocati Buchenwald e Dachau, Auschwitz e Mauthausen. Poi il viaggio prosegue verso la “Zona dei Riduttivi” e il “Settore autonomo Raziocinanti: Irrazionali e Razionali”.
Qui l’ambiziosa e disperata impresa di Pasolini si interrompe.
Quanto l’impresa fosse ambiziosa e disperata lo si può comprendere ancor meglio sulla base delle due note in cui Pasolini illustra il suo progetto. Libro da scrivere a strati, ciascuno dei quali datato come un diario. Opera sempre in fieri, “un misto di cose fatte e di cose da farsi – di pagine rifinite e di pagine in abbozzo, o solo intenzionali”.  La lingua dell’Inferno sarà “l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi e allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia”. Invece per  i Due Paradisi da progettare e costruire occorrerà un italiano “come lingua nazionale parlata, fondata non più sull’italiano letterario né sull’italiano strumentale dialettizzato, come lingua franca degli scambi commerciali e della prima industrializzazione – ma sull’italiano, parlato nel Nord, come lingua franca della seconda industrializzazione”.
Considerando la severa critica della realtà nella Divina Mimesi, ci chiediamo se e come una dimensione paradisiaca  avrebbe potuto essere rappresentata da Pasolini.
Siamo di fronte a un’opera difficile da recensire.
Perché dunque recensire La Divina Mimesis? Nessuna recensione rende giustizia a un’opera letteraria. Se ha un valore, lo ha nella misura in cui la fa conoscere e spinge a leggerla. Però recensire la Divina Mimesis  non può avere soltanto lo scopo di far sentire il bisogno di immergersi nella sua straordinaria prosa lirica. Una prosa lirica che resta fra le più alte espressioni letterarie del Novecento. Al di là di questa auspicabile esperienza di lettura vi è una presa di coscienza dell’oltraggio perpetrato con le odierne celebrazioni della Commedia come un’opera a sé stante, staccata dal Convivio, dalla Monarchia,  dal De vulgari eloquentia, dalla cultura classica e cristiano-medioevale. Pasolini ci aiuta a comprendere il vero valore dell’opera di Dante. Ostacoli a comprenderlo sono il pervicace retaggio di un Benedetto Croce, intento con supponenza a distinguere poesia e non poesia, e il clima festaiolo di riduzione dell’opera dantesca a pretesto per ogni sterile divagazione.
Il vero valore di Dante non si colloca sul versante meramente estetico.
Il valore di Dante, valore ben riconosciuto da Pasolini, è l’impulso all’azione come  essenza e scopo della Commedia. Un nostro poeta ha parlato della “forza incoativa” delle concatenate terzine  dantesche. Questa “forza incoativa”, vale a dire energia che si rinnova di continuo senza mai affievolirsi, è non solo lirica, ma anche e soprattutto etica nella sua religiosità. Dante ci chiama a una trasformazione. Vuole essere letto affinché ci assumiamo il compito di trasformare noi stessi e il mondo in vista dell’universale felicità nel mondo terreno prima ancora di poter godere di una beatitudine ultraterrena. Consideriamo, ad esempio, questi versi:
“Quali  i fioretti, dal notturno gelochinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,si drizzan tutti aperti in loro stelo,tal mi fec’io di mia virtude stanca,e tanto buono ardire al cor mi corsech’i’cominciai come persona franca […] (Inferno, II, 127-132)
Dante, rincuorato da Virgilio, che gli ha spiegato come il suo viaggio nell’aldilà sia voluto dal cielo, comincia a dichiararsi pronto all’impresa. Sul piano estetico apprezziamo elementi come  la similitudine dei fiorellini che la luce del sole fa risorgere; il ritmo dell’endecasillabo e tanto buono ardire al cor mi corse che con gli accenti sulla sesta e sulla decima, invece che su quarta, ottava e decima, meglio si attaglia alla rapidità della presa di coraggio; le risonanze interne delle parole cor – corse; ma questa resa lirica è voluta per mettere in risalto il “buono ardire”, l’essere disposto all’azione, la volontà di affrontare ogni cimento con un’attitudine fortemente razionale.
Chi recepisce oggi questo messaggio?
È la domanda che Pasolini si è posto e alla quale ha cercato di rispondere con La Divina Mimesis, prendendo posizione contro i moderni ignavi, pur dubitando di un possibile riscatto dell’umanità dalla sua irresponsabilità. L’umanità è chiamata comunque a scuotersi dall’inerzia, poiché in questo inferno terreno resta pur sempre il dovere dell’impegno contro il conformismo. Cercare di cambiare in meglio un  mondo degradato è il compito che ci compete. Ognuno è tenuto a trovare in se stesso il suo Virgilio. Ce lo insegna Dante e ce lo ricorda Pasolini.
        

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