L’arte della ceramica raccontata sui vasi greci

La ceramica, e in particolare la creazione di vasi di terracotta dipinti, era per i Greci talmente importante che la sua produzione è diventata uno dei soggetti pittorici della ceramica stessa! Assieme a miti e rituali, infatti, tanti vasi raccontano proprio come venivano realizzati i vasi stessi, attraverso tutte le varie fasi.

Il processo aveva inizio con l’estrazione dell’argilla che i vasai si procuravano personalmente cavandola dal terreno. Questa fase è illustrata in alcune pinakes (cioè placchette votive) provenienti dall’area di Penteskouphia, a sud-ovest di Corinto, risalenti al VI secolo a.C. e conservate a Berlino e Parigi.

In queste immagini di gusto arcaico, dipinte a figure nere, i personaggi raccolgono la creta usando picconi e ceste per il trasporto.

L’argilla che veniva scelta era di colore bianco ma, in base alla località di estrazione, dopo la cottura assumeva colorazioni un po’ diverse in base alla quantità di ossidi di ferro presenti nella materia.

Dopo l’estrazione l’argilla veniva setacciata per eliminare le impurità e successivamente lavorata al tornio. Questo era azionato generalmente da un giovane apprendista che faceva ruotare vorticosamente il disco di legno. Questa scena è magistralmente rappresentata su un cratere della fine del V secolo a.C. conservato al Museo della ceramica di Caltagirone nel quale la dea Athena, protettrice delle arti, sorveglia l’operazione.

In una kylix conservata a Karlsruhe e datata 540-530 a.C. il vasaio sta creando proprio una coppa come quella su cui è raffigurata l’immagine, davanti a una figura drappeggiata che potrebbe essere il cliente.

Una pinax di Penteskouphia ancora più antica mostra la stessa operazione in forme apparentemente un po’ più grossolane che però testimoniano come quest’attività fosse già di grande importanza fin dalle origini e come dovesse apparire la bottega di un vasaio con i manufatti appesi agli scaffali. Per altro è ben riconoscibile anche il piccolo aryballos sul tornio.

Il vaso non veniva realizzato in un unico blocco ma diviso nelle sue parti principali (collo, corpo, piede e anse) che venivano poi saldate in un secondo momento con argilla semifluida.

All’operazione di formatura del vaso seguiva una fase di essiccazione per far indurire il materiale. Dopo, il vaso poteva anche essere infornato così com’era, senza alcuna decorazione.
La rappresentazione di questo passaggio è visibile sulla spalla di un’hydria attica del 510 a.C. proveniente da Vulci e conservata a Monaco di Baviera nella quale si può osservare un’intera bottega del vasaio con gli addetti al tornio sulla sinistra e il trasporto dei vasi verso il forno sulla destra.

La maggior parte dei vasi, tuttavia, veniva dipinta. Per la pittura si usava una vernice a base di argilla ferruginosa che con la cottura – in assenza di ossigeno – diventava nera.

Per realizzare le figure nere su sfondo rosso (tecnica praticata in età arcaica) si procedeva stendendo la vernice all’interno delle figure umane e, dopo la cottura, si incidevano con un sottile stilo metallico i dettagli in modo da far apparire il sottostante colore della terracotta. Con questa tecnica si producono solo linee di uguale spessore che danno alle figure un effetto molto grafico e bidimensionale, come possiamo osservare in un dettaglio del celebre vaso con Achille e Aiace che giocano ai dadi del 550-525 a.C.

Con il passaggio dall’età arcaica a quella classica, intorno alla metà del V secolo a.C., si assiste all’inversione dei colori e alla comparsa della tecnica a figure rosse: se prima le figure erano dipinte di nero sullo sfondo rosso della terracotta, adesso viene dipinto di nero lo sfondo risparmiando le sagome delle figure. I particolari dei corpi sono dipinti con sottili linee nere dallo spessore variabile ed effetti di trasparenza che creano un effetto pittorico come in questo dettaglio di un cratere del 450 a.C.

Un frammento di vaso incompiuto del 400 a.C. può darci un’idea di come si procedesse nella realizzazione delle figure. Prima se ne delineava con precisione il contorno e poi si verniciava il resto dello sfondo.

La fase della pittura era affidata alla figura del ceramografo, un artigiano che dal VI secolo a.C. assumerà sempre più prestigio, tanto che i pittori iniziarono a firmare i loro vasi.

L’attività di pittura della ceramica in una bottega può essere osservata in una kalpis attica a figure rosse del Pittore di Leningrado, proveniente da Ruvo di Puglia.

Sulla sinistra un pittore, con le sue ciotoline di vernice su un ripiano più basso, sta decorando un cratere a volute mentre viene sorpreso dall’arrivo di una Nike che lo incorona. Nella parte centrale un altro ceramografo (forse l’artigiano più importante, viste le maggiori dimensioni della figura) sta dipingendo un grosso kantharos mentre Athena sta per incoronarlo. Dietro la dea un’altra Nike incorona un pittore intento a decorare un cratere a calice.

È interessante notare che, all’estremità destra della fascia decorata, è stata raffigurata anche una donna intenta a dipingere un grande cratere a volute.

Questa immagine ha aperto molti interrogativi poiché lascia supporre che questa pratica artistica non fosse esclusivamente maschile.

Autore sconosciuto, Pittrice greca che decora un vaso, XIX secolo

Il passaggio più delicato, dal punto di vista tecnico, era però quello della cottura dei vasi. Il forno era composto da una camera di cottura a cupola nella parte superiore, dove si impilavano i vasi fino al riempimento totale, e da una sottostante camera di combustione in cui veniva fatta ardere la legna. Le solite pinakes ci mostrano questo processo.

I vasai, che indossavano generalmente un cappello di feltro per proteggere i capelli dalle alte fiamme che potevano fuoriuscire dalla sommità, usavano lunghe aste per muovere la brace sotto il forno e scale per regolare il tiraggio del camino.

La cottura avveniva a una temperatura compresa tra 800° e 1000° e durava un giorno. Attraverso l’apertura e la chiusura dei fori d’aerazione venivano innescati i processi chimici che portavano all’indurimento dell’argilla, alla colorazione rossa della terracotta e alla tinta nera della vernice. Un frammento di pinax, che mostra il forno in sezione, ci rivela i collegamenti tra le due camere e la posizione dei fori.

I vasi finiti erano pronti per essere imbarcati sulle navi ed esportati verso tutte le coste del Mediterraneo. La richiesta di questi prodotti, infatti, era enorme tanto che un impressionante numero di vasi realizzati in Grecia è stato rinvenuto nei corredi funerari all’interno delle tombe etrusche ma anche in tante altre sepolture lungo le coste del Mediterraneo.

Altri vasi, con decori più semplici, erano invece destinati alla vita quotidiana e usati per le attività più comuni come il trasporto dell’acqua. Non erano decorate affatto, invece, le anfore destinate al trasporto di derrate alimentari dentro le navi. Dotate di una punta inferiore per essere incastrate su un letto di sabbia, hanno una tipica forma allungata, come si può osservare in questo mosaico di età romana.

Dopo l’età classica i vasi greci hanno continuato a essere raffigurati nelle opere d’arte ma sono rare le rappresentazioni della loro realizzazione. Una tela di Lawrence Alma-Tadema mostra una pittrice e un pittore al lavoro, mentre una porzione di tempio dorico emerge dalla finestra.

Lawrence Alma-Tadema, Pittori di vasi, 1871

Altre opere dell’Ottocento raffigurano l’utilizzo dei vasi all’interno di ipotetiche scene di vita quotidiana nell’antica Grecia.

Dominique Louis Papety, Donne greche alla fontana, 1841

Più numerose sono le opere che esaltano l’eleganza del vaso e dei suoi decori, come questa impressionante collezione di ceramiche greche ed etrusche di Alexandre Isidore Leroy De Barde dell’inizio del XIX secolo.

Alexandre-Isidore Leroy De Barde (1777-1829), Vasi greci ed etruschi

Alla stessa epoca appartengono numerose nature morte con mazzi di fiori inseriti dentro un cratere…

Georgius Jacobus Johannes van Os, Natura morta in un vaso greco, allegoria della primavera, 1817

… o dentro un’anfora.

Adolf Senff (1785-1863), Bouquet assortito in un’anfora attica a figure rosse

Oggi i vasi greci sono esposti nei musei di tutto il mondo come preziose testimonianze di una sapienza antica e di una raffinatezza ineguagliabile.
Conoscerne i segreti della realizzazione, però, può farceli apprezzare ancora di più: in un’epoca in cui non c’erano torni con motore elettrico né formule chimiche per ottenere le vernici e neanche termostati per il forno, è stato comunque possibile sviluppare un’arte unica e splendida. Un’arte che, a saperla decodificare, può svelare un mondo intero, quello da cui ha origine la nostra civiltà.

Continua la lettura su: https://www.didatticarte.it/Blog/?p=35338 Autore del post: DidatticArte didattica Fonte: http://www.didatticarte.it/Blog/

Articoli Correlati

Il gesto e la parola: i laboratori di narrazione per immagini.

ARTICOLO SCRITTO DA: ANDREA SOLA, AUTORE DI SCUOLA OLTREMi sono occupato per molti anni della didattica nel settore della ceramica e ho utilizzato questo mezzo per portare nelle scuole la pratica della modellazione dell’argilla, che è un mezzo espressivo da considerare primario, credo anche più del disegno. La prova di ciò è l’assoluto entusiasmo con cui tutti i bambini, anche i più piccoli, accolgono questa esperienza.Nei laboratori che tengo nelle scuole (principalmente dell’infanzia e della primaria, e molto più raramente delle secondarie di primo e secondo grado), che ho chiamato “Il gesto e la parola”, propongo attività che coniugano diverse modalità espressive in un’unica esperienza comunicativa: la rappresentazione per immagini pittoriche e plastiche, con l’uso della creta, e la narrazione con le parole.Le limitazioni tecniche del processo realizzativo non vengono mai anteposte al processo creativo, che deve essere sempre assolutamente spontaneo, ma sono comunicate via via che il lavoro si sviluppa.L’interazione di questi diversi strumenti espressivi viene incrementata e favorita dall’uso degli strumenti audiovisivi (foto e video), per la utilizzazione anche delle voci e delle immagini digitali e stampate. Il racconto, che può essere individuale o collettivo, può partire per esempio da uno spunto autobiografico, da un episodio di fantasia o da un testo letterario (esempi di questi elaborati si possono vedere qui http://www.educareallaliberta.org/category/i-laboratori-per-le-scuole/).Fare queste esperienze apre per loro una possibilità nuova: quella di raccontare per immagini, in cui la parola perde centralità e diventa un complemento dell’immagine. Questo ha dei vantaggi importantissimi, secondo me, perché non è affatto vero che tutte le cose si possano esprimere con la parola. L’ho verificato in molti casi, soprattutto con bambini con difficoltà relazionali, che non erano in grado di verbalizzare le loro esperienze, o negli adolescenti che, essendo spesso sottoposti a una particolare pressione esterna, non sono in grado di esprimere in parole i propri stati interni. Come dice Francoise Dolto, “l’adolescente ammutolisce non appena deve parlare di ciò che prova, perché le parole cambiano completamente senso…Le parole non hanno più senso per descrivere gli anni che gli adolescenti hanno vissuto”.Per questo è importante che essi abbiano la possibilità di esprimere i propri stati interni anche con i mezzi figurativi. Socializzare a partire da attività manuali ha dimostrato di dare dei bei risultati. E l’argilla è uno strumento estremamente vicino alla sensibilità dei bambini, perché non hanno nessun ostacolo nell’utilizzarla. Direi che forse, anche più del disegno, si entusiasmano proprio nel vederla.Riguardo all’uso dei mezzi multimediali, il loro utilizzo con queste modalità offre la possibilità ai bambini di utilizzare il digitale in modo attivo. Il rischio di un uso improprio di questi mezzi si presenta quando il mezzo multimediale sostituisce altre forme espressive e ruba spazio mentale ai bambini.Anche se nelle storie fantastiche che i bambini raccontano in classe è chiaro l’influsso di ciò che vedono in televisione o nei videogiochi, hanno comunque un’enorme capacità di trasformarli, cogliendo aspetti del tutto inusuali, umanizzando personaggi all’apparenza bestiali, cambiando il contesto e stabilendo connessioni impossibili (come l’alieno che sposa la strega). Con i bambini che disegnano bisogna interagire, ma ciò non significa intervenire su ciò che stanno facendo, bensì stimolarli a tradurre in parole le loro immagini e a esprimere quello che stanno pensando. Ciò può essere molto utile ai bambini che, se riescono a verbalizzare le loro fantasie, possono aumentare la propria autoconsapevolezza. Tuttavia, non si deve mai assumere uno sguardo giudicante: se ciò accade, l’effetto catartico delle rappresentazioni viene inibito e il bambino interrompe quel processo spontaneo di traduzione in immagini del pensiero, tornando allo schema usuale dell’integrazione delle aspettative degli adulti che domina il rapporto educativo consueto.L’errore in cui si cade più facilmente durante le attività che utilizzano i mezzi dell’arte è proprio quello di pensare che i bambini stiano facendo “arte”. In realtà, i bambini usano il disegno, il racconto fantastico o altre forme di rappresentazione che non utilizzano i mezzi del linguaggio parlato o scritto per comprendere il mondo. L’uso del mezzo artistico-figurativo, ovvero degli strumenti propri del pensiero immaginario nel bambino, non ha nulla a che fare con l’atteggiamento dell’artista adulto, dove c’è un’intenzionalità consapevole di compiere un’operazione di trasformazione del reale, con finalità anche comunicative. La creatività è per loro un bisogno, non un mezzo per entrare in relazione con gli altri (questo può accadere solo in momenti molto successivi, ma per i più piccoli questo è ancora un obiettivo che non concepiscono).Il bambino che disegna uno scarabocchio su un albero pensa che quelle siano le caratteristiche proprie dell’albero che sta percependo. È attraverso quei segni che lui arriva a comprendere l’albero e sono la rappresentazione più adeguata in quel momento del suo sviluppo per appropriarsi cognitivamente del mondo. Dobbiamo partire dalla considerazione che quello che i bambini vedono del mondo non è quello che vediamo noi. L’atto percettivo è intriso di intenzionalità ed emotività e non è un’operazione puramente meccanica, come invece crediamo. Le modalità in cui un bambino percepisce il mondo sono diverse da quelle degli adulti. Anche se apparentemente si manifestano come una trasgressione alla logica o alla prospettiva usuale (immagini “astratte”, mancato rispetto del criterio di verosimiglianza, salti logici del linguaggio poetico, ecc.), esse rispondono al solo bisogno di mettere ordine in una realtà che hanno ancora difficoltà a padroneggiare.Per l’infanzia (e questo, da un certo punto di vista, vale anche per le produzioni artistiche più antiche dell’epoca preistorica o per quelle dei folli), la traduzione in rappresentazioni concrete di una “visione mentale” di un’entità esterna, oggettuale, è compiuta con l’intento di diminuire la distanza tra l’osservatore e la cosa rappresentata o conosciuta. L’oggetto realizzato sta a metà strada tra l’idea che si ha della cosa e la cosa stessa perché è qualcosa che serve a chi l’ha realizzata per definire meglio, per padroneggiare, l’oggetto esterno. I disegni infantili, per esempio, sono strumenti per orientarsi nell’ambiente in quanto colgono inizialmente le caratteristiche più generali delle forme per evolvere poi verso maggiori specificazioni. Il criterio per il loro formarsi è quello di puntare ai dati più essenziali della realtà per coglierne inizialmente la struttura di base e poterla così meglio padroneggiare. La percezione sensoriale e la creazione di immagini “servono – come dice Arnheim – a permetterci di fronteggiare la sconcertante abbondanza di esperienze che ci sommergono quando veniamo al mondo”.Una prova di ciò è che un disegno infantile non è mai percepito dal bambino come una deformazione del reale, ma è sempre considerato una trasposizione fedele della cosa. Un’interpretazione di un significato che per la logica adulta è solo una descrizione parziale o falsata, per il bambino corrisponde al vero significato assunto dall’oggetto percepito. Infatti, a volte all’oggetto prodotto viene attribuito un potere di suggestione reale su chi lo ha prodotto: funzione rassicurante, di autoidentificazione, influsso di tipo magico su altri o sulla realtà esterna.Il rapporto che i bambini instaurano con le loro creazioni è molto spesso effimero: non dimostrano un attaccamento al prodotto finito, ma sono molto coinvolti nella fase di realizzazione, in cui esprimono il loro massimo sforzo per tradurre le loro immagini interiori in rappresentazioni concrete. Pensiamo all’impegno e alla concentrazione che a volte sono capaci di mettere nell’esecuzione di un manufatto, in maniera del tutto simile a ciò che avviene ai folli.Dare ai bambini la possibilità di esprimere liberamente questo bisogno dovrebbe essere compito degli adulti, ma lasciare loro questa libertà comporta il riconoscimento dell’autonomia del pensiero infantile. Se riconosciamo che l’impegno dell’infanzia e dell’adolescenza consiste nel padroneggiare attivamente il mondo, è a questo compito che va data centralità, senza espropriarne il valore in nome di obiettivi che sono del tutto estranei alla loro sensibilità, ma soltanto coincidenti con le aspettative adulte nei loro confronti.Affermare, come si fa usualmente, che lo scopo di un intervento educativo deve essere quello di sviluppare la creatività o l’immaginazione tradisce un’ incomprensione di fondo del pensiero infantile, che è già di per sé creativo e che utilizza l’immaginazione come strumento fondamentale per comprendere il mondo. “Essere creativi” e “sviluppare l’immaginazione” sono definizioni che appartengono a un sistema di valori adulto e a un apparato concettuale che ha costruito teorie sullo sviluppo dell’infanzia, che ancora una volta considerano questa età come soggetta a pulsioni prive di significato, cioè senza una valenza culturale (un non-pensiero), e che solo l’intervento adulto può sollevare da quel livello e portare a condividere i valori riconosciuti del mondo adulto.Parlare di una didattica della libertà dovrebbe invece significare riconoscere che i bambini sono già di per sé spinti a esercitare il pensiero creativo, a prescindere dall’intervento degli adulti, e che quindi il compito di questi ultimi dovrebbe essere quello di favorire questo impulso, rimuovendo gli ostacoli che lo possono inibire e fornendo gli strumenti utili alla sua piena espressione.

Pesciolini pinch-pot in ceramica

Per realizzare questi pesciolini abbiamo creato una piccola coppetta con la tecnica del pich-pot, in italiano tecnica a “pizzico”. Da una pallina di creta di 4-5 cm di diametro si ottiene una coppetta in serendo il pollice e “pizzicando” le pareti della coppetta in modo uniforme, facendo girare la coppetta nella mano. In questo modo otteniamo la bocca del nostro pesciolino.

A questa bocca aggiungiamo i dettagli come occhi e pinne, sempre utilizzando la barbottina e dopo aver zigrinato la superficie.

Per la base creiamo una piccola lastra a forma di cerchio e la decoriamo con texture, onde, stelle marine, alghe, coralli, e tutto quello che ci può ricordare un fondale marino. Il pesciolino viene applicato sulla base tonda sempre con barbottina sulle superfici zigrinate, e il nostro pezzo è pronto per la prima cottura.

Dopo la prima cottura si procede con la decorazione a smalti applicati a pennello in due/tre strati. Una volta che gli smalti sono asciutti si procede con la seconda cottura.

Ecco i nostri pesciolini smaltati:

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000