Il sapere che costruisce se stesso

Il sapere che costruisce se stesso

di Bruno Lorenzo Castrovinci

L’impegno e lo studio, per quanto sinceri e continui, non sempre si concretizzano nel successo formativo. Accade spesso che studenti diligenti, rispettosi delle consegne, giungano a fine anno con un carico di fatica non riconosciuto, con risultati che non riflettono l’energia spesa. Ed è proprio al termine del percorso scolastico che questa discrepanza diventa più evidente, più dolorosa: quando si tirano le somme, quando si raccolgono i frutti e chi ha seminato con cura si accorge di trovarsi tra le mani un raccolto deludente. Per questi studenti, il voto non è solo un numero, ma  uno specchio crudele, una misura che traduce lo sforzo in insuccesso, che fa apparire la dedizione come una maschera di mediocrità.

Cosa è andato storto? Forse non l’impegno, ma il metodo. Forse non la volontà, ma la mancanza di una guida nel costruire una strategia personale ed efficace per apprendere davvero. Senza un metodo di studio adeguato, lo sforzo rischia di disperdersi, di affaticare senza incidere. Dopotutto, nella società contemporanea, affollata da parole che si accavallano come onde e da sapere che si dissolve prima ancora di essere interiorizzato, ciò che davvero distingue non è l’accumulo di informazioni, ma l’arte di apprendere consapevolmente. “Imparare a imparare” non è un traguardo, ma un sentiero in salita, una tensione continua verso la conoscenza di sé e del mondo. È un esercizio quotidiano di lucidità, che chiede silenzio interiore, ascolto profondo, capacità di abitare le proprie incertezze. In un tempo che cambia con rapidità vertiginosa, dove le competenze si reinventano e le certezze si sgretolano, saper apprendere con autonomia e spirito critico diventa l’unico vero atto di resilienza. Non basta accumulare sapere, ma bisogna saper discernere, riconoscere il proprio smarrimento, ripensare i propri passi, apprendere dagli errori, riscrivere il cammino. È questo il sapere che costruisce sé stesso, un sapere vivo, fragile e potente, che respira con chi lo coltiva, che non si accontenta di risposte facili ma continua a farsi domanda.

La metacognizione come bussola interiore

Alla base di questa competenza vi è la metacognizione, cioè la consapevolezza dei propri processi cognitivi. Riconoscere come si apprende, sapere quando si è realmente concentrati e quando si è solo passivamente immersi in un testo, distinguere la comprensione profonda dalla semplice memorizzazione sono tutte capacità che definiscono lo studente metacognitivo. Questo tipo di consapevolezza non è innata, ma si affina nel tempo, come un muscolo che cresce attraverso l’esercizio, il confronto con l’altro, l’ascolto degli errori. La metacognizione è, in fondo, l’arte di conoscersi nel momento in cui si conosce il mondo, di osservarsi mentre si agisce con la mente.

In ambito educativo, essa rappresenta oggi una delle chiavi più preziose per l’apprendimento permanente, poiché permette di acquisire saperi e insieme di regolarli, adattarli, trasformarli in strumenti flessibili per affrontare la complessità. Le ricerche condotte da studiosi come John Flavell, Wim Veenman e Cesare Cornoldi hanno mostrato come l’insegnamento esplicito delle strategie metacognitive, anche attraverso il modeling, il dialogo riflessivo e l’uso di diari cognitivi, possa incidere positivamente sulla qualità dell’apprendimento e sulla motivazione dello studente.

Chi impara a dirigere i propri pensieri, a monitorare l’efficacia delle strategie adottate e a ricalibrarle con intelligenza emotiva e lucidità cognitiva, non solo studia meglio, ma diventa soggetto attivo della propria formazione. Coltiva una forma di intelligenza che non risponde solo a compiti esterni, ma dialoga con sé stessa, rilegge la propria esperienza e costruisce significato. È questa la bussola interiore che orienta anche quando tutto fuori sembra confondere: un sapere che nasce dalla coscienza del proprio imparare, e che fa della riflessione un atto di libertà.

Metodo di studio e consapevolezza

Un buon metodo di studio non si esaurisce nell’uso di schemi o mappe concettuali. È prima di tutto un metodo riflessivo, costruito sull’osservazione del proprio funzionamento mentale. Significa imparare ad ascoltarsi, a leggere i segnali della propria mente come si leggono i segni di una lingua segreta. Cosa mi aiuta a ricordare? In quali momenti rendo di più? Perché questo argomento mi risulta ostico? Sono domande semplici, eppure rivoluzionarie, perché inaugurano un dialogo con sé stessi che trasforma lo studio da obbligo a percorso interiore.

Studiare bene, infatti, non significa solo superare una verifica, ma dare senso allo sforzo, riconoscere un cambiamento, toccare con mano la propria evoluzione. Tecniche come la ripetizione distanziata, l’auto-spiegazione, il testing effetto e l’elaborazione attiva dei contenuti non sono solo strumenti, ma vere e proprie pratiche mentali che risvegliano l’attenzione, consolidano la memoria, attivano in profondità le reti neurali. Esse creano ponti tra l’informazione e l’esperienza, tra ciò che si legge e ciò che si diventa.

L’adozione di queste strategie richiede allenamento e intenzionalità. Non basta, infatti, conoscerle ma bisogna interiorizzarle, piegarle alla propria unicità. In questo processo la scrittura riflessiva, i diari metacognitivi, il confronto con gli altri diventano alleati preziosi. Lo studio diventa, così, esercizio di autocoscienza, atto creativo, scelta quotidiana di costruire sé stessi. Il metodo non è più un insieme di regole, ma un organismo vivo, che cresce, si adatta, cambia con noi e ci restituisce, ogni volta, una versione più lucida e libera di ciò che siamo.

Le neuroscienze e la plasticità dell’apprendimento

Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello è un organo straordinariamente plastico, capace di modellarsi e ristrutturarsi in risposta a esperienze, stimoli e intenzioni. Questa meravigliosa capacità, conosciuta come neuroplasticità, ha rivoluzionato il modo in cui comprendiamo l’apprendimento, non più come un processo statico, ma come un divenire continuo, un’intima trasformazione che coinvolge corpo, mente ed emozione. “Imparare a imparare” si fonda su questa consapevolezza che ogni atto di riflessione, ogni errore affrontato con coraggio, ogni contenuto rielaborato attivamente è un seme che, nel cervello, genera nuove connessioni neurali.

Studi condotti da ricercatori come Stanislas Dehaene mostrano che l’apprendimento efficace non avviene nella ripetizione sterile, ma nella dinamica viva della predizione e dell’errore, poichè il cervello impara quando prova, sbaglia, corregge, anticipa. Questa danza tra l’atteso e l’inaspettato stimola la curiosità, accende l’attenzione e alimenta la memoria. Inoltre, l’apprendimento autentico coinvolge in simultanea molteplici circuiti cerebrali tra cui quelli della memoria, dell’attenzione, del linguaggio, ma anche dell’emozione, della motivazione e del piacere. La dopamina, neurotrasmettitore del desiderio e della ricompensa, gioca un ruolo essenziale nel rinforzare le sinapsi e nel rendere più stabile l’acquisizione.

Comprendere tutto ciò significa ripensare il contesto educativo, non più un luogo neutro, ma uno spazio fertile, emotivamente significativo, dove lo studente non sia solo un recipiente ma un protagonista. Costruire ambienti inclusivi e stimolanti significa permettere a ciascuno di trovare il proprio ritmo, di sentirsi accolto nella fatica, incoraggiato nell’errore, sostenuto nel successo. È così che la scienza si fa umana, e l’apprendimento diventa davvero un atto di trasformazione.

Una competenza per tutta la vita

Nel corso della vita, gli strumenti cambiano, le professioni si evolvono, le relazioni si trasformano. Eppure, ciò che resta indispensabile è la capacità di adattarsi con grazia al nuovo, di apprendere da ciò che ci sorprende, di mettere in discussione le certezze che credevamo intoccabili. “Imparare a imparare” è la competenza delle competenze, la radice da cui si diramano tutte le altre che ci consente di restare vivi nel pensiero, aperti al cambiamento, capaci di camminare anche quando la strada non è segnata.

È un’intelligenza discreta e profonda, che non ha bisogno di esibizioni, ma che brilla nel silenzio dell’ascolto e nella pazienza dell’elaborazione. Questa competenza non si improvvisa, si costruisce nel tempo, a partire dall’infanzia, nutrita dalla curiosità, dalla meraviglia, dall’arte di porre domande più che di dare risposte.

Imparare a imparare significa non restare mai uguali, significa avere il coraggio di abbandonare un’identità ormai troppo stretta per cercarne una nuova, più autentica, più fedele alla nostra evoluzione. È la capacità di abitare la complessità senza esserne travolti, di danzare nell’incertezza, di trasformare la vulnerabilità in apertura. In questo senso, non è solo una competenza, ma  una forma di saggezza, un atteggiamento interiore, una scelta radicale di vivere da apprendisti del mondo, ogni giorno, per tutta la vita.

Letture per imparare a imparare

Per chi desidera approfondire questi temi, esistono diversi manuali validi, accessibili e disponibili in commercio. Tra questi, “Imparare a studiare” di Cesare Cornoldi e Rossana De Beni (Erickson) si rivela un ottimo punto di partenza per comprendere come funziona la metacognizione applicata allo studio, offrendo strategie pratiche corredate da attività ed esercitazioni. “Il metodo geniale” di Giulio Deangeli (Mondadori), scritto con chiarezza divulgativa, combina esperienze personali e fondamenti neuroscientifici, affrontando il tema dell’apprendimento da un punto di vista dinamico e interdisciplinare. Un altro riferimento utile è “Imparare a studiare. Il metodo di studio” di Mario Polito accompagna il lettore in un percorso di autoanalisi e ristrutturazione delle proprie abitudini cognitive, favorendo lo sviluppo di un metodo consapevole e motivato. Chi è interessato al legame tra neuroscienze e apprendimento può leggere “Il cervello che impara” di Alberto Oliverio, che offre un viaggio attraverso le connessioni tra mente, cervello ed educazione, mentre “Didattica metacognitiva”, pubblicato da Erickson, propone strumenti concreti per insegnanti, suggerendo attività didattiche orientate all’autoregolazione e alla consapevolezza dello studio. Tutti questi testi sono reperibili online o in libreria e costituiscono una preziosa guida per gli insegnanti e per chi desidera fare del proprio studio un’esperienza trasformativa, radicata nella conoscenza di sé e supportata dalle migliori evidenze scientifiche.

Conclusione: il sapere come atto di libertà

Imparare a imparare significa spezzare le catene dell’abitudine mentale, sottrarsi all’automatismo delle risposte già pronte e scegliere, invece, la via più impervia della riflessione. È la capacità di interrogare il mondo e sé stessi, di coltivare un pensiero che non si limiti ad accogliere, ma che sappia trasformare, interpretare, rigenerare. In un’epoca che premia la rapidità più della profondità, questa competenza si fa atto di resistenza culturale, scelta quotidiana di autenticità e profondità.

È un gesto di libertà intellettuale, ma anche un movimento spirituale: imparare a imparare significa abitare il dubbio, danzare tra le domande, accettare la propria imperfezione come spinta alla crescita. È forse questo il compito più alto dell’educazione, non quello di riempire menti, ma di accendere coscienze, di insegnare non cosa pensare, ma come pensare, come ascoltare, come imparare a stare nel mondo da cercatori di senso, da apprendisti del significato, senza mai smettere di farsi domande.

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Il paesaggio pittoresco e lo specchio Claude

Ho incontrato per la prima volta questo curioso strumento da pittura descrivendo un dipinto di Matisse in uno dei capitoli de Il mondo alla finestra. In particolare si trattava di una delle sue opere più astratte e cioè La finestra blu del 1913.

La scena raffigura la camera da letto di Henri e della moglie Amélie al secondo piano della loro abitazione a Issy-les-Moulineux, alla periferia di Parigi. Il tetto sullo sfondo, tra alberi tondeggianti, è quello del suo studio, una costruzione voluta dallo stesso pittore. Tutto il resto è un insieme di elementi stilizzati che emergono dal fondo attraverso il vibrante contrasto tra colori quasi complementari: i toni d’azzurro e turchese e il giallo ocra.
La distinzione tra interno ed esterno è totalmente annullata, così come la verosimiglianza di ogni oggetto. Eppure ce n’è uno molto caratteristico, che Matisse inserisce forse per spiegare il modo con cui crea immagini così essenziali: è il cosiddetto “specchio Claude” o specchio nero, quel quadrato scuro con cornice rossa sul lato destro della tela.

Si tratta di un piccolo specchio brunito e leggermente convesso, generalmente grande come una scatola di cipria, che i pittori usavano per ritrarre la natura volgendosi di spalle e osservandola sulla superficie riflettente. L’effetto ottenuto era simile ai dipinti di Claude Lorrain, il paesaggista del Seicento da cui prende il nome.

Lo specchio nero, oltre a includere in un piccolo spazio un vasto paesaggio per via della sua convessità e a fornire un’immagine già bidimensionale e facile da copiare, aveva la capacità di confondere i dettagli e limitare la gamma cromatica, due aspetti utili a Matisse nella creazione di immagini sempre più semplificate come La finestra blu. 
Ma quando è nato quest’oggetto? L’ha inventato proprio Lorrain? In realtà le origini di questo dispositivo non sono chiare né si può affermare che il buon Claude lo utilizzasse. Ma quel che è certo è che nel Settecento era straordinariamente diffuso non solo tra i pittori ma anche tra i nobili e i turisti che lo usavano per guardare i paesaggi in una versione più suggestiva, come testimonia questo ventaglio del Settecento.

In pratica era come guardare il mondo con gli occhiali da sole, capaci di rendere ogni tinta più intensa e di far vedere tramonti spettacolari senza abbagliamento. Grazie allo specchio Claude ogni paesaggio si trasformava magicamente in un dipinto di Lorrain.
Seguace di Claude Lorrain, Il pastore, XVII-XVIII secolo
Tra i più entusiasti utilizzatori di questo strumento ci fu l’inglese William Gilpin (1724-1804). Secondo lui lo specchio nero conferiva «all’oggetto della natura una sfumatura morbida come la colorazione di quel Maestro».
Thomas Gaisborough, Studio di uomo che tiene uno specchio Claude, 1750-1755
Gilpin era talmente innamorato di questo “filtro” che ne fece montare uno sul fianco della sua carrozza, da cui poter ammirare «una successione di immagini dai colori intensi che scivolavano continuamente davanti all’occhio».
Le incisioni derivate dai suoi schizzi sembrano proprio paesaggi visti con lo specchio Claude. Alcuni ne conservano persino la forma ovale!

Non è un caso che Gilpin sia anche l’ideatore del concetto di pittoresco, da lui definito nel suo Essay on Prints del 1768 come «quel tipo di bellezza che è gradevole in un dipinto». Un po’ quello che ci scappa da dire quando, davanti a un luogo incantevole, esclamiamo «sembra un quadro!».
Si tratta di un’idea nuova, sintomo di un cambiamento culturale in positivo nei confronti del paesaggio. Non dobbiamo pensare, infatti, che la natura sia sempre stata considerata bella e buona. Al contrario! Per secoli boschi e montagne erano percepiti come luoghi spaventosi e simbolo del male (la selva oscura…). La diffusione della pittura di paesaggio coincide dunque con questa rivalutazione dei luoghi naturali.
Jules Coignet, Veduta di Bolzano con un pittore, 1837
Un’altra testimonianza dell’uso dello specchio Claude si trova nel diario del viaggio nel Distretto dei laghi, nel nord ovest dell’Inghilterra, scritto dal poeta Thomas Gray e pubblicato nel 1775. Così scrive Gray: «Da qui sono arrivato alla canonica poco prima del tramonto e ho visto nel mio specchio un quadro che, se potessi trasmettervi e fissarlo in tutta la dolcezza dei suoi colori vivaci, si venderebbe tranquillamente per mille sterline. Questa è la scena più dolce che io possa ancora scoprire in fatto di bellezza pastorale, il resto in uno stile sublime».
George Barret, Vista del Lago Windermere, mattina presto, 1781
La diffusione del suo diario rese lo specchio talmente popolare che per un breve periodo fu chiamato addirittura “specchio Gray“… Pare che il poeta fosse così preso dalla visione attraverso il suo specchietto che durante una gita cadde all’indietro in «una stradina sporca» e si ruppe le nocche.
Thomas Rowlandson, Il dottor Syntax cade in acqua, da Il viaggio del dottr Syntax in cerca del pittoresco, 1813
Ma non avrebbe mai rinunciato a tenerlo aperto in mano e a vedere «il tramonto del sole in tutto il suo splendore».
Anton Zwengauer, Paesaggio con cervi al tramonto, 1847
Una descrizione meno poetica è fornita invece in un catalogo statunitense del 1857, nel quale il costruttore di strumenti ottici Benjamin Pike Junior spiega che «gli specchi di vetro nero di Claude per il disegno prospettico sono molto utili per il giovane artista, poiché condensano o diminuiscono la vista nella dimensione desiderata per il quadro previsto, e tutti gli oggetti mantengono le loro proporzioni relative».
Certo, è piuttosto curioso pensare che viaggiatori e artisti, invece di guardare uno spazio naturale gli volgessero le spalle preferendogli una miniatura alterata nella forma e nei colori. Ma la concezione estetizzante del paesaggio pittoresco rendeva molto più attraente quella piccola scena simile a un dipinto.
Edward Alcock (attr.), Sophia Anne Delaval tiene uno specchio Claude verso il paesaggio, 1775-1778
D’altra parte non è molto diverso da quello che fanno oggi in tanti quando danno le spalle a una veduta per farsi un selfie. Non c’è più neanche l’idea di rendere il paesaggio pittoresco, ma solo quella di farne una quinta per un’autorappresentazione.
Nonostante si tratti di un dispositivo legato a una concezione sorpassata della visione del paesaggio, il dipinto di Matisse all’inizio dell’articolo dimostra che lo specchio Claude non fu spazzato via neanche dalla Avanguardie. Incredibilmente sopravvive ancora oggi come installazione di grandi dimensioni per riproporre l’esperienza del paesaggio riflesso. Ne è un esempio quello dell’architetto Sarosh Mulla collocato nel 2017 a Waikereru, in Nuova Zelanda.

Un altro specchio, di forma ovale, è stato installato presso Tintern Abbey, un’antica abbazia cistercense in rovina nel Galles sud orientale.

In alcuni corsi di pittura viene usato per impratichirsi nel disegno dal vero e controllare meglio la gamma dei toni di grigio.

Ma, senza rendercene conto, continuiamo a usarlo pure noi, quando prima di pubblicare la foto di un paesaggio su Instagram, applichiamo filtri, modifichiamo la saturazione dei colori, giochiamo coi contrasti, inseriamo la vignettatura. È una tentazione troppo forte, quella di rendere un paesaggio un po’ più “wow” o forse dovremmo dire “pittoresco”…

Questo significa una sola cosa: che Lorrain con il “suo” specchio è vivo e vegeto e fa le foto insieme a noi!

Il significato profondo del voto

Il significato profondo del voto

di Bruno Lorenzo Castrovinci

La valutazione rappresenta da sempre un pilastro centrale del sistema scolastico italiano. Non è solo un mezzo per certificare i risultati, ma uno strumento che riflette l’efficacia delle strategie educative e il funzionamento complessivo della scuola. Dietro ogni voto non si cela un numero isolato, bensì un insieme di esperienze, percorsi e relazioni che compongono la vita dello studente. La pagella, simbolo tangibile di questo percorso, non racconta solo la performance accademica ma anche il modo in cui insegnanti, famiglie e contesti influenzano il successo formativo.

Secondo la ricerca di Angelo Paletta (Dirigenti scolastici leader per l’apprendimento, 2015), solo il 20% del successo scolastico è legato alle metodologie didattiche, mentre il restante 75% è influenzato dal contesto familiare e sociale. Questo dato mette in luce quanto il livello di istruzione dei genitori, l’accesso alle risorse educative e il supporto emotivo incidano in modo significativo sui percorsi degli studenti. I dati sono eloquenti: solo il 10% dei figli di famiglie culturalmente svantaggiate prosegue fino agli studi universitari, contro il 70% delle famiglie con almeno un genitore laureato. Questi numeri non possono essere ignorati e richiedono un impegno concreto per rendere la valutazione uno strumento di crescita, anziché un semplice giudizio finale.

Oltre il voto: la valutazione tra crescita e limiti

Uno dei punti critici del sistema scolastico è l’uso improprio della valutazione, soprattutto dei voti intermedi come il cinque. Questo voto, anziché motivare, sospende lo studente in un limbo, bloccandone la crescita senza penalizzarlo completamente. Il cinque diventa spesso una soglia fragile, un simbolo di mediocrità che soddisfa bisogni immediati come il controllo e l’autorità, ma non risponde al vero scopo dell’educazione: la crescita personale e intellettuale.

Come ricorda Maria Montessori, l’apprendimento dovrebbe basarsi sull’autonomia e sulla responsabilità, in un contesto stimolante e non oppressivo. Anche Paulo Freire, con la sua critica all’“educazione bancaria”, ci insegna che lo studente non può essere considerato un recipiente passivo da riempire. Al contrario, deve essere coinvolto in un processo dialogico, in cui il sapere si costruisce attraverso l’interazione e la riflessione critica.

Bruner, con il concetto di scaffolding, ci offre una prospettiva dinamica: il docente deve fornire un supporto temporaneo per accompagnare lo studente verso l’autonomia. Allo stesso modo, Vygotsky, con la teoria della zona di sviluppo prossimale, sottolinea l’importanza di guidare lo studente oltre le proprie capacità attuali, sfruttando l’aiuto di figure esperte o dei pari. In questo contesto, il voto dovrebbe motivare, valorizzare i progressi e indicare la strada per il miglioramento.

 

Motivare per crescere: il potere del rinforzo positivo

Un altro contributo significativo arriva da B.F. Skinner e dalla sua teoria del rinforzo positivo. Secondo Skinner, riconoscere e premiare i progressi, anche piccoli, è uno strumento fondamentale per stimolare la motivazione e la fiducia. Al contrario, un voto basso, come il cinque, se non accompagnato da un feedback chiaro e costruttivo, può generare frustrazione e insicurezza. La valutazione non può limitarsi a un numero: deve essere un percorso di dialogo e supporto che aiuti lo studente a superare le proprie difficoltà.

Stimolare la motivazione significa anche capire che ogni studente è diverso. Come afferma Howard Gardner con la teoria delle intelligenze multiple, ogni individuo possiede un bagaglio unico di potenzialità. Il compito del docente è riconoscerle e valorizzarle, personalizzando la didattica per rispondere ai bisogni specifici di ciascuno studente. Solo così si può evitare di lasciare lo studente fermo in una situazione di mediocrità apparente.

Il voto, le neuroscienze e l’impatto sul cervello

Un aspetto fondamentale della valutazione, spesso trascurato, è il suo impatto neurologico sugli studenti. Le neuroscienze hanno dimostrato che il voto, quando utilizzato come rinforzo positivo, può influenzare in maniera significativa i processi cerebrali. La gratificazione derivante da un giudizio positivo attiva il sistema di ricompensa, in particolare la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore associato alla motivazione, al piacere e all’apprendimento. Questo meccanismo biologico spiega perché un feedback positivo, espresso anche attraverso un voto alto o un commento costruttivo, stimoli lo studente a impegnarsi ulteriormente, migliorando la capacità di concentrazione e di memoria.

Al contrario, il voto cinque, percepito come un limbo di incertezza e mediocrità, può inibire queste dinamiche positive. Il senso di frustrazione che deriva da un risultato deludente genera stress, attivando il cortisolo, l’ormone dello stress, che interferisce con le funzioni cognitive superiori, come la memoria a lungo termine e la risoluzione dei problemi. In contesti ripetuti, il cervello può associare l’esperienza scolastica a un evento negativo, alimentando la demotivazione e il rifiuto dell’apprendimento.

Un altro elemento interessante è legato all’attivazione dei neuroni specchio, che giocano un ruolo fondamentale nelle dinamiche di apprendimento sociale ed emotivo. Quando uno studente osserva il successo o il fallimento di un compagno, i neuroni specchio si attivano, permettendo una sorta di apprendimento “empatico”. Un feedback negativo mal gestito o percepito come ingiusto può quindi avere effetti non solo sull’individuo, ma sull’intero gruppo classe, creando un clima di insicurezza e frustrazione collettiva. Al contrario, un sistema valutativo equilibrato e orientato al rinforzo positivo può generare un circolo virtuoso in cui il successo di un singolo studente motiva e ispira gli altri.

l significato psicologico del voto

Il voto scolastico non si limita a essere una misura oggettiva del rendimento, ma porta con sé un carico emotivo e psicologico che può influenzare profondamente la percezione di sé dello studente, il suo rapporto con il mondo scolastico e il desiderio di apprendere. Come sottolinea Carol Dweck, psicologa nota per la teoria del mindset, un feedback orientato esclusivamente al risultato (es. “sei intelligente”) può generare uno stato mentale fisso (fixed mindset), in cui lo studente tende a evitare sfide per paura del fallimento. Al contrario, un feedback che valorizza lo sforzo e il processo (growth mindset) favorisce la resilienza e una maggiore motivazione ad affrontare difficoltà.

Un esempio concreto è rappresentato dalla gestione del voto cinque: se accompagnato da un giudizio negativo e non contestualizzato, il voto rischia di essere interpretato dallo studente come un giudizio sulla sua persona piuttosto che sul suo apprendimento. Questo può portare a un circolo vizioso in cui lo studente si percepisce incapace, alimentando ansia, frustrazione e senso di inadeguatezza. Studi nel campo delle neuroscienze educative, come quelli condotti da Mary Helen Immordino-Yang, evidenziano come le emozioni siano strettamente collegate ai processi di apprendimento: emozioni negative legate a una valutazione percepita come ingiusta o svalutante riducono l’attivazione della corteccia prefrontale, compromettendo la memoria di lavoro e la capacità di risoluzione dei problemi.

Un cattivo sistema di valutazione può inoltre generare danni a livello sociale e relazionale. La competizione esasperata alimentata da un sistema che premia esclusivamente i migliori, come sottolinea Alfie Kohn in Punished by Rewards, non solo demotiva chi si trova in difficoltà, ma può creare un ambiente di sfiducia tra i compagni, spezzando la coesione del gruppo classe. Un esempio pratico è rappresentato dalla differenza tra valutazioni individualistiche e approcci cooperativi: in un sistema che incoraggia il lavoro di gruppo e premia i progressi collettivi, gli studenti tendono a sviluppare maggiore empatia e collaborazione, mentre in sistemi focalizzati esclusivamente sul risultato personale aumentano stress e isolamento.

La mancanza di un feedback costruttivo amplifica questi problemi. Uno studente che riceve un voto basso, senza una spiegazione dettagliata o una chiara indicazione su come migliorare, si sente abbandonato. Questo senso di smarrimento è particolarmente acuto in contesti socio-economici svantaggiati, dove il supporto familiare può essere limitato e lo studente non trova negli adulti di riferimento le risorse necessarie per affrontare le difficoltà scolastiche. Ad esempio, un’errata gestione della valutazione può portare all’abbandono scolastico: in Italia, secondo i dati ISTAT, il tasso di dispersione scolastica è ancora al 12,7% (“STAT, Rapporto sulla dispersione scolastica, 2023), e molti giovani dichiarano di essersi sentiti demotivati o incompresi durante il loro percorso scolastico.

Al contrario, un approccio valutativo orientato al rinforzo positivo, come suggerito da B.F. Skinner, può trasformare il voto in uno strumento motivante. La gratificazione derivante da un giudizio positivo stimola il rilascio di dopamina, favorendo l’apprendimento e l’impegno. Ad esempio, un feedback come “Hai fatto progressi significativi in questa area; continua così e potrai migliorare anche in questo aspetto” fornisce una direzione chiara e incoraggia lo studente a perseverare. Questo tipo di comunicazione non solo alimenta la fiducia nelle proprie capacità, ma rafforza anche il legame con il docente, che viene percepito come una guida e non come un giudice.

Gli effetti negativi di una cattiva valutazione non si limitano all’individuo: coinvolgono anche il gruppo classe e l’intero sistema educativo. Per questo è fondamentale che il voto sia accompagnato da un feedback chiaro, dettagliato e orientato al miglioramento, capace di separare il giudizio sulla prestazione dal giudizio sulla persona. Solo così il voto può diventare non un punto di arrivo, ma un trampolino per il progresso personale e accademico

La logica del cinque: dinamiche psicologiche e sociali nella comunità scolastica

L’utilizzo del cinque nel primo trimestre o quadrimestre, con l’intento di trasformarlo in un sei a fine anno, è una pratica diffusa tra i docenti e affonda le sue radici in motivazioni sia psicologiche che sociali. Da un lato, il docente può percepire il cinque come una strategia per “stimolare” lo studente a impegnarsi maggiormente, nella speranza che il voto venga interpretato come un invito al miglioramento. Questa decisione risponde a una dinamica emotiva complessa: da un lato, il docente può sentirsi giustificato nell’adottare un atteggiamento severo, mantenendo un’immagine di autorevolezza; dall’altro, vi è spesso una dissonanza cognitiva, in cui il docente razionalizza la scelta del cinque come necessaria, anche se può provocare disagio nel vedere gli studenti demotivati o delusi.

A livello neurologico, questa scelta è sostenuta dall’attivazione di specifici circuiti cerebrali legati alla ricompensa differita. Il docente può provare una sensazione di controllo, favorita dall’attivazione della corteccia prefrontale, che gestisce la pianificazione e la previsione degli esiti. L’idea di trasformare il cinque in sei a fine anno alimenta una narrativa personale di equilibrio e giustizia, in cui si percepisce come colui che “dà e toglie”, rafforzando il suo ruolo di mediatore tra rigore e comprensione. Tuttavia, questa dinamica può avere un costo emotivo: molti docenti provano inconsciamente un senso di disagio o colpa nel mantenere il cinque, bilanciato solo dalla soddisfazione di poterlo “correggere” più avanti.

A livello sociale, il cinque tende a diventare un modello contagioso all’interno della comunità scolastica. In un ambiente dove il confronto tra colleghi è inevitabile, la scelta di adottare questa strategia si diffonde per due motivi principali: da un lato, per la necessità di uniformarsi a pratiche considerate accettabili o consolidate; dall’altro, per il timore di apparire troppo indulgenti o troppo severi rispetto agli altri insegnanti. La dinamica dei neuroni specchio, che si attivano osservando il comportamento altrui, contribuisce a questo effetto di “contagio professionale”: vedere colleghi che applicano il cinque per poi trasformarlo in sei può spingere altri a replicare il modello, percependo questa pratica come una norma implicita o una strategia “sicura”.

Tuttavia, questo modello rischia di creare una cultura valutativa basata su segnali contraddittori per gli studenti. Iniziare l’anno con un cinque può generare ansia e senso di fallimento, mentre trasformarlo in un sei potrebbe essere percepito come un compromesso più che come un riconoscimento autentico dei progressi. Per questo motivo, è fondamentale riflettere su questa pratica, valutando non solo i suoi effetti sugli studenti, ma anche le motivazioni profonde che spingono i docenti ad adottarla, spesso senza una consapevolezza critica del suo impatto complessivo.

Gli alibi dei docenti e il bisogno di innovazione

In molti contesti scolastici, di fronte a risultati insoddisfacenti degli studenti, si tende a giustificare la situazione attribuendo le responsabilità esclusivamente a fattori esterni, come lacune pregresse, disinteresse da parte degli studenti o carenze nel contesto familiare. Sebbene questi elementi abbiano certamente un peso, limitarsi a considerare solo le difficoltà di partenza degli studenti rischia di creare una narrazione deresponsabilizzante, in cui il sistema scolastico e il corpo docente non si mettono in discussione.

Un approccio realmente innovativo deve invece partire dal riconoscere che ogni ostacolo educativo è anche un’opportunità di crescita. È fondamentale superare la logica degli alibi per abbracciare una didattica flessibile e centrata sullo studente, in cui l’insegnante diventi un mediatore attivo tra il punto di partenza degli studenti e il loro potenziale. Come sottolineano le teorie di Bruner e Vygotsky, il docente ha il compito di creare un “ponte” tra le conoscenze attuali e quelle che lo studente può sviluppare con il giusto supporto. Questo richiede una continua messa in discussione delle metodologie adottate e una propensione ad adattarsi ai bisogni di una classe sempre più eterogenea.

L’innovazione non deve essere intesa come un cambiamento fine a sé stesso, ma come una risposta concreta alle sfide della modernità. Tecnologie digitali, didattica inclusiva e valutazione formativa possono rappresentare strumenti potenti per migliorare l’efficacia dell’insegnamento, ma solo se inseriti in una visione più ampia di responsabilità professionale. I docenti, quindi, devono sentirsi protagonisti di un processo di trasformazione che li coinvolga attivamente, con il supporto di percorsi di formazione e di monitoraggio che rendano visibili i risultati raggiunti. In questo senso, il miglioramento degli esiti degli studenti non può essere visto solo come un obiettivo individuale, ma come un impegno collettivo dell’intera comunità scolastica.

La capacità di innovare, di cambiare prospettiva e di collaborare è ciò che trasforma una scuola da un luogo statico a un ambiente dinamico e aperto al futuro. Solo superando gli alibi e abbracciando il cambiamento, il sistema educativo potrà realmente rispondere alle esigenze delle nuove generazioni, offrendo loro non solo conoscenze, ma anche strumenti per affrontare il mondo con consapevolezza e determinazione.

Formazione mirata e monitoraggio digitale degli esiti

Per supportare i docenti che affrontano maggiori difficoltà nel favorire il successo formativo dei propri studenti, è necessario implementare un sistema di formazione obbligatoria e mirata, attivato automaticamente attraverso il monitoraggio digitale degli esiti scolastici. I dati forniti dai registri elettronici, già ampiamente utilizzati nelle scuole, possono essere uno strumento essenziale per identificare situazioni in cui il raggiungimento degli obiettivi educativi non risulti pienamente soddisfacente. Superata una soglia prestabilita, che tenga conto delle insufficienze ricorrenti o di risultati significativamente inferiori agli standard di apprendimento fissati a livello nazionale, scatta automaticamente l’obbligo formativo per il docente.

Questa formazione non deve essere percepita come un controllo punitivo, ma come un’opportunità di miglioramento professionale, volta a offrire strumenti aggiornati e metodologie didattiche innovative per rispondere alle esigenze specifiche della propria classe. Percorsi personalizzati di aggiornamento potrebbero includere strategie per la gestione della classe, tecniche di insegnamento inclusivo e l’utilizzo di strumenti digitali per promuovere il coinvolgimento degli studenti. Inoltre, la partecipazione a programmi di peer review, dove i docenti possono confrontarsi con colleghi esperti, favorirebbe lo scambio di buone pratiche e l’adozione di approcci efficaci.

Il dirigente scolastico, attraverso il monitoraggio costante dei dati e il dialogo con gli organi collegiali, può proporre l’attivazione di questi percorsi, garantendo che la formazione sia mirata e tempestiva. L’obiettivo non è solo quello di migliorare i risultati degli studenti, ma anche di rafforzare la fiducia del docente nelle proprie capacità, promuovendo una cultura della responsabilità professionale. La combinazione di tecnologie digitali e formazione personalizzata offre, così, una risposta concreta e immediata alle esigenze di una scuola moderna, capace di adattarsi rapidamente alle sfide educative.

Il docente: guida, mediatore e ispiratore

Il ruolo dell’insegnante non può essere ridotto a quello di semplice valutatore. Il docente è prima di tutto un mediatore, un facilitatore del sapere e, soprattutto, una guida che accompagna gli studenti nel loro percorso di crescita. Ogni voto, ogni feedback, dovrebbe essere un tassello che costruisce fiducia, autonomia e consapevolezza. Non è un numero ad avere valore, ma il significato che esso porta con sé: un incoraggiamento, una direzione, un’opportunità per migliorare.

La scuola deve quindi abbandonare un approccio puramente sommativo e promuovere una valutazione formativa, capace di monitorare il progresso continuo e valorizzare il potenziale di ogni studente. In questo senso, la recente Legge 150/2024 ha introdotto cambiamenti significativi, come i giudizi sintetici nella scuola primaria e un’attenzione rinnovata al comportamento. Questi strumenti, integrati con tecnologie innovative come il registro elettronico, offrono l’opportunità di valutare in modo equo, trasparente e inclusivo, rispondendo alle esigenze di una società in continua evoluzione.

 

La valutazione come ponte verso il futuro

Oltre i bisogni immediati dell’insegnante, spesso in contrasto con quelli degli studenti, è necessario ripensare l’intera logica della valutazione. Chi lavora nella scuola dovrebbe ricordare che il proprio compito più grande è ispirare e guidare le nuove generazioni, coltivando fiducia, passione e competenza. Uno studente che si sente compreso, valorizzato e sostenuto non solo raggiunge il successo formativo, ma diventa anche un individuo capace di costruire il proprio futuro con consapevolezza.

Come insegnava John Dewey, l’apprendimento più autentico nasce dall’interesse e dal coinvolgimento attivo degli studenti. Stimolare la curiosità non è solo un atto didattico, ma un atto d’amore verso l’educazione stessa. La valutazione, quindi, deve evolversi per diventare un ponte tra il presente e il futuro, un mezzo per nutrire sogni, promuovere la crescita e rendere ogni studente protagonista della propria vita.

Perché solo attraverso un processo obbligatorio e condiviso, che aiuti i docenti a riconoscere con coraggio i propri limiti e fallimenti senza paura di essere giudicati, si potrà costruire una scuola migliore. La crescita professionale deve essere un impegno collettivo, sostenuto da strumenti oggettivi e pattizi, inclusi nel CCNL, che garantiscano al docente il supporto necessario per evolversi. Solo così potremo accendere menti, nutrire passioni e costruire, insieme, un futuro più giusto e luminoso per ogni studente.

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