La questione dei radianti

La questione dei radianti in un’attività didattica per la classe quinta. Un errore utile: il seno di 46° tra derivate e unità di misura. Nel breve ma significativo contributo che qui ripubblichiamo, Elisabetta Lorenzetti condivide un episodio di didattica vissuta in una classe quinta del liceo scientifico. All’origine dell’esperienza narrata è il calcolo di un’approssimazione del valore di ( sin(46^circ) ) tramite il metodo delle derivate: il risultato numerico, evidentemente errato, diventa l’occasione per stimolare il ragionamento critico degli studenti e riflettere su un concetto chiave spesso trascurato, ovvero la necessità di esprimere gli angoli in radianti nell’analisi matematica.

Un esempio semplice e incisivo di come un “errore” possa trasformarsi in leva didattica per rivedere concetti fondamentali come il limite notevole ( lim_{x to 0} frac{sin x}{x} = 1 ) e la derivata della funzione seno.

L’esperienza qui riprodotta è tratta dal n.3/2015 del Periodico di Matematiche [VEDI] ✔️ Procedura corretta con conversione in radianti

Vogliamo calcolare:

[
sinleft(46^circright) = sinleft( frac{pi}{4} + frac{pi}{180} right)
]

Poiché:
[
frac{pi}{4} = 45^circ, quad frac{pi}{180} = 1^circ
]

usiamo l’approssimazione lineare:

[
sin(x + Delta x) approx sin(x) + cos(x) cdot Delta x
]

con:

[
x = frac{pi}{4}, quad Delta x = frac{pi}{180}
]

Allora:

[
sinleft(frac{pi}{4} + frac{pi}{180} right) approx sinleft( frac{pi}{4} right) + cosleft( frac{pi}{4} right) cdot frac{pi}{180}
]

Poiché:

[
sinleft( frac{pi}{4} right) = cosleft( frac{pi}{4} right) = frac{sqrt{2}}{2} approx 0{,}7071, quad frac{pi}{180} approx 0{,}01745
]

otteniamo:

[
sin(46^circ) approx 0{,}7071 + 0{,}7071 cdot 0{,}01745 = 0{,}7071 + 0{,}0123 = 0{,}7194
]

[
boxed{ sin(46^circ) approx 0{,}7194 }
]

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Paradossi, antinomie, dilemmi e aporie

Mentitori e barbieri, coccodrilli e sofisti, guerrieri e tartarughe protagonisti di paradossi, antinomie, dilemmi e aporie.
 “Questi sono vecchi paradossi, buoni a far ridere i gonzi nelle osterie”.
Desdemona, Otello, Atto 2°, Scena
Paradossi 
Il “paradòsso” [dal greco “parádokson”, composto di “pará”, contro e “dóksa”, opinione] è una proposizione tanto contraria al senso comune e all’intuizione da suscitare un immediato moto di sorpresa.
I paradossi sono di quattro tipi fondamentali:

Un’affermazione che sembra falsa, ma che in realtà è vera.
Un’affermazione che sembra vera, ma che in realtà è falsa.
Un ragionamento che sembra impeccabile, ma che porta a una contraddizione logica. Questo tipo di paradosso è detto più comunemente “fallàcia” [dal latino “fallacĭa”, derivato di “fallěre”, ingannare].
Un’affermazione di cui non si può decidere la verità o la falsità. Questo tipo di paradosso è detto più comunemente “antinomìa” [dal greco “antinomía”, contraddizione di una legge con un’altra].

Porterò due esempi di paradossi del 1° tipo: uno tratto dalla fisica ed uno dalla matematica.
In fisica troviamo il “paradosso idrostatico”: consideriamo tre recipienti di forma diversa ma con la stessa area di base A (uno cilindrico, uno che si allarga verso l’alto ed uno che si restringe verso l’alto) e versiamo in essi un liquido che raggiunga in tutti la medesima altezza h; la forza F che agisce sul fondo dei recipienti ha la stessa intensità, cioè è sempre il peso mg del liquido contenuto nel recipiente cilindrico.
Il “paradosso idrostatico” illustra una legge, scoperta dal matematico e fisico fiammingo Simone Stevino (1548 – 1620), che dice:
“La pressione p = F/A dovuta alla gravità che un liquido esercita sul fondo di un recipiente dipende dall’accelerazione di gravità del luogo g, dalla densità ρ e dall’altezza h del liquido, ma “non” dalla forma del recipiente: p = ρ g h ”.
La forza che agisce sul fondo dei tre succitati recipienti è pertanto:
F = pA = pgh·A = pgV = mg
In matematica abbiamo i “paradossi dell’infinito”.
Si comincia con la ormai celebre definizione di Richard Dedekind (1831 – 1916):
“Un insieme è infinito se e solo se può essere messo in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme proprio”.
Dunque il principio che “il tutto è maggiore della parte” non è più valido per gli insiemi infiniti.
Tenendo presente la definizione di insiemi equipotenti: “Due insiemi si dicono equipotenti se fra essi è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca”, si arriva alle seguenti proposizioni, dimostrate da Georg Cantor (1845 – 1918):

“Il segmento 0−1 sull’asse delle x è equipotente all’intero asse delle x”.
“L’insieme dei punti di un quadrato è equipotente all’insieme dei punti di un suo lato” (“Je le vois, mais je ne le crois pas!”, scriveva Cantor a Dedekind nel 1877, in seguito a questo risultato paradossale).
“L’insieme dei punti di un cubo è equipotente all’insieme dei punti di un suo spigolo”.

Un esempio di paradosso del 2° tipo è il cosiddetto “errore del giocatore”.
C’è chi è convinto che dopo cinque figlie, tutte femmine, il prossimo figlio non può che essere un maschio; molti giocatori pensano di poter vincere alla roulette aspettando una lunga serie di numeri rossi e poi scommettendo sul nero.
Nel poscritto del suo racconto Il Mistero di Marie Rogêt, Edgar Allan Poe (Boston 1809 – Baltimora 1849) sostiene che “… avendo un giocatore di dadi fatto doppio sei per due volte consecutive, vi è una ragione sufficiente per scommettere che gli stessi sei non usciranno ad un terzo tentativo”.
Ma tutti costoro hanno preso un abbaglio, commettendo un errore nella interpretazione della “legge empirica del caso”: “In una serie di prove ripetute un gran numero di volte nelle stesse condizioni, ciascuno degli eventi possibili si manifesta con una frequenza (relativa) che è pressappoco uguale alla sua probabilità. L’approssimazione cresce ordinariamente col crescere del numero delle prove”.
Il risultato di ciascuna prova (se le prove sono indipendenti) non può in alcun modo essere influenzato dai risultati delle prove precedenti: come si dice, “il caso non ha memoria”.
La probabilità di avere una sesta figlia è ancora ½; la probabilità che il successivo numero alla roulette sia rosso è ancora 18/37 (≅48,65%); la probabilità di ottenere un doppio sei al successivo lancio dei dadi è ancora 1/36 (≅2,78%).
Ed ecco ora un bell’esempio di “fallàcia” (paradosso del 3° tipo).
Consideriamo la serie logaritmica(∗):che converge per -1 < x ≤ 1Poniamo x = 1 e otteniamoraddoppiamo: Raccogliamo le coppie di termini con lo stesso denominatore. Otteniamo: Perciò  2log2 = log2, vale a dire 2 = 1. Bello, vero? Si tratta però di una “fallàcia”. La serie (*) non è “assolutamente convergente”, in quanto non converge la serie dei valori assoluti dei suoi termini (che è la serie armonica), e dunque la sua somma non è indipendente dall’ordine dei termini. Gli esempi più famosi di “antinomie” (paradossi del 4° tipo) sono l’antinomia “del mentitore” e quella “del barbiere”. L’antinomia del mentitore (pseudómenos) Si dice che Epimenide (leggendario poeta greco, vissuto a Creta nel VI secolo a.C., al quale era attribuita una “Teogonia” di 5000 esametri) abbia affermato che “Tutti i Cretesi sono mentitori”. Dato che Epimenide era cretese, ha detto la verità? L’enunciato che gli viene attribuito è logicamente contraddittorio, ammesso che i mentitori mentano “sempre” e che i sinceri dicano “sempre” la verità. In base a questo assunto, l’enunciato “Tutti i Cretesi sono mentitori” non può essere vero, perché in tal caso Epimenide sarebbe mentitore e quindi ciò che dice sarebbe falso; e non può neppure essere falso perché ne deriverebbe che i Cretesi sono sinceri e, di conseguenza, ciò che dice Epimenide sarebbe vero. Gli antichi Greci si sforzarono di capire come potesse succedere che un enunciato all’apparenza perfettamente sensato, non potesse essere né vero né falso senza contraddirsi. Crisippo di Soli, in Cilicia, un filosofo stoico vissuto nel III sec. a.C., scrisse sei trattati sull’”antinomia del mentitore”, nessuno dei quali è giunto fino a noi. Si racconta che il poeta elegiaco Filita di Coo (maestro di Teocrito) sia rimasto ucciso dai vari tentativi di risolvere l’antinomia. San Paolo, mandando Tito a predicare il Vangelo ai Cretesi, lo avverte (“Tito”, 1, 12-13): “Uno di loro, anzi un loro profeta [Epimenide], disse che i Cretesi sono sempre mentitori, cattive bestie, ventri pigri”, e non subodorando alcun’antinomia, Paolo aggiunge: “Questa testimonianza è vera”. Delle antiche formulazioni di quest’antinomia giunte fino a noi, ricordiamo Cicerone (106-43 a.C.), “Academica”, II, 29: “Si te mentiri dicis idque verum dicis, mentiris an verum dicis?”. La forma più semplice dell’”antinomia del mentitore” è la proposizione: “Quest’affermazione (l’affermazione che ora sto facendo) è falsa”. Tale versione elimina ogni ambiguità legata al fatto che un mentitore menta sempre e un sincero dica sempre la verità. L’antinomia del barbiere L’”antinomia del barbiere” fu proposta da Bertrand Russell (1872 – 1970) nel 1919. Se il barbiere di un certo villaggio espone in vetrina un cartello con su scritto: “Rado tutti e soli gli uomini del villaggio che non radono se stessi”, chi rade il barbiere? Se egli rade se stesso, allora appartiene all’insieme degli uomini che radono se stessi. Ma il cartello dice che egli non rade “mai” uno che appartenga a questo insieme, quindi “non può” radere se stesso. Se qualcun altro rade il barbiere, allora questi è uno che non rade se stesso. Ma il suo cartello dice che egli rade “tutti” gli uomini che non radono se stessi, quindi nessun altro può radere il barbiere. Si direbbe che nessuno possa radere il barbiere! Bertrand Russell inventò l’antinomia del barbiere per rappresentare una famosa antinomia da lui scoperta a proposito degli insiemi (1902). Esistono insiemi che non contengono se stessi come elementi: per esempio, l’insieme degli uomini non è un uomo, quindi non contiene se stesso come elemento. Questi insiemi vengono detti “insiemi normali”. Esistono poi insiemi che contengono se stessi come elementi: per esempio, l’insieme dei concetti astratti è esso stesso un concetto astratto e quindi contiene se stesso come elemento. Questi insiemi vengono detti “insiemi non normali”. Si studi ora l’espressione: “l’insieme T di “tutti e soli” gli insiemi normali”. Si tratta di vedere se T è normale o non normale. Se T è normale, esso è un elemento di se stesso (in quanto per definizione, T contiene tutti gli insiemi normali); ma, in questo caso, T è non normale, perché, per definizione, un insieme che contiene se stesso come elemento è non normale. D’altra parte, se T è non normale, esso è un elemento di se stesso (per definizione di non normale); ma, in questo caso, T è normale, perché, per definizione gli elementi di T sono gli insiemi normali. In breve, T è normale se, e solo se, T è non normale. Ne segue che l’affermazione “T è normale” è contemporaneamente vera e falsa. Una via per uscire dall’antinomia consiste nel decidere che la descrizione “l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi” non definisce un insieme. Una soluzione decisamente più radicale sarebbe sostenere che nella teoria degli insiemi non è ammesso alcun insieme che sia elemento di se stesso. Resta da dire che esistono delle varianti dell’antinomia del barbiere: L’astrologo che fa l’oroscopo a tutti gli astrologi, ma solo a quelli che non fanno l’oroscopo a se stessi. Chi fa l’oroscopo all’astrologo? Il robot che ripara tutti i robot che non riparano se stessi. Chi ripara il robot? Un catalogo che elenca tutti i cataloghi che non elencano se stessi. Quale catalogo elenca questo catalogo? Dilemmi Il “dilèmma” [dal greco “dílēmma”] è un’argomentazione, con cui l’avversario è preso da due parti (“corna del dilemma”), in modo che o dall’una o dall’altra deve necessariamente dichiararsi vinto. I dilemmi più famosi sono il dilemma “del coccodrillo” e quello di Protagora-Euatlo. Il dilemma del coccodrillo Un coccodrillo ha rapito un bambino e promette al padre di restituirgli il figlio se e soltanto se il padre riesce a indovinare se il coccodrillo gli restituirà il bambino o no. Se il padre dichiara che il coccodrillo non gli restituirà il bambino, nasce per il coccodrillo il dilemma: difatti, se non lo restituisse, renderebbe vera la risposta del padre e sarebbe tenuto, in base al patto, a restituirgli il bambino; ma se lo restituisse, renderebbe falsa la risposta del padre e cesserebbe il diritto di costui alla restituzione. Supponiamo invece che il padre dichiari: “Stai per restituirmi il mio bambino”. Il coccodrillo potrebbe allora restituire il bambino o mangiarlo, in entrambi i casi senza contraddizioni. Se lo restituisse, il padre avrebbe detto la verità e il coccodrillo manterrebbe la parola. D’altra parte, se fosse sufficientemente spregevole, potrebbe mangiare il bambino; ciò renderebbe falsa l’affermazione del padre e quindi non sarebbe obbligato a restituirgli il bambino. Il dilemma di Protagora – Euatlo Un dilemma simile è quello che si racconta di Protagora di Abdera (485 – 411 a.C.), il quale è, con Gorgia da Lentini (V – IV sec. a.C), il maggior esponente del movimento sofistico. Protagora citò in giudizio il suo discepolo Euatlo, dal quale avrebbe dovuto ricevere l’onorario quando questi avesse vinto la prima causa. Egli pensava che Euatlo avrebbe dovuto pagarlo in ogni caso: se avesse vinto la causa, in base al patto, e, se avesse perso, in base alla sentenza. Ma Euatlo gli rispose: “Non ti pagherò in nessun caso: se perderò, in base al patto: se vincerò, in base alla sentenza”. Il dilemma in questo caso era per il giudice. Le aporie di Zenone di Elea Zenone di Elea, filosofo greco, nato ad Elea (l’attuale Velia), colonia focese sulla costa della Campania (precisamente nel Cilento), e vissuto nel V secolo a.C., elaborò contro il movimento quattro argomenti famosi, detti “aporìe” [dal greco “aporía”, difficoltà, punto scientificamente o altrimenti controverso, dubbio, problema], che sono contraddizioni, irrisolvibili, senza via di uscita. La più famosa “aporia” è quella di Achille e della tartaruga: se Achille “piè-veloce” (pódas ōkýs”) dà un vantaggio alla lenta tartaruga, non riuscirà mai a raggiungerla. Ammesso che A (Achille) dia un vantaggio di uno “stadio” [olimpico = 184,85m; attico = 177,60m] a T (tartaruga) e che la velocità di A sia dieci volte quella di T, quando A avrà percorso uno stadio, T avrà percorso 1/10 di stadio; quando A avrà percorso 1/10 di stadio, T ne avrà percorso 1/100, e così via: quindi A non raggiungerà mai T. Zenone sapeva, naturalmente, che Achille “poteva” raggiungere la tartaruga. Stava semplicemente mostrando a quali conseguenze paradossali si arriva considerando il tempo e lo spazio come formati da un infinito numero di punti discreti che si susseguono l’uno all’altro come grani di una collana. In termini moderni, supposto che A e T si muovano di moto rettilineo uniforme con velocità νA = 10νT A raggiungerà T dopo un tempo t dato da: 10νTt = νTt + 1,       t = 1/9νT         cioè quando A avrà percorso uno spazio  sA = 10νTt = 10/9 di stadio. Quest’ultimo risultato si può anche ottenere come somma di una serie geometrica di ragione q = 1/10:   di stadio. Bertrand Russell, nel suo libro La conoscenza del mondo esterno, sostiene che non ci fu risposta alle aporie di Zenone, finchè Georg Cantor non sviluppò la sua teoria degli insiemi infiniti, che consente di trattare insiemi infiniti di punti nello spazio, o di eventi nel tempo, come interi completi invece che come semplici collezioni di singoli punti ed eventi isolati. E chiudo con la famosa storia dell’”Hotel Infinito” di David Hilbert (1862 – 1943). Supponiamo di avere un hotel di tipo normale con un numero finito di camere: diciamo cento. Supponiamo che tutte le camere siano occupate e che in ciascuna camera vi sia un solo occupante. Arriva una nuova persona e vuole una camera per la notte, ma né lui né alcuno dei cento ospiti è disposto a condividere una camera. È allora impossibile offrire una sistemazione al nuovo arrivato: non si possono mettere centouno persone in corrispondenza biunivoca con cento camere. Ma con hotel infiniti la soluzione è diversa. L’Hotel di Hilbert ha un numero infinito di camere: una per ogni numero naturale. Le camere sono numerate consecutivamente camera 1, camera 2, camera 3, …, camera n, …, e così via. Possiamo immaginare che le camere dell’Hotel siano disposte linearmente: cominciano in un luogo determinato e continuano a susseguirsi l’una all’altra infinitamente verso destra. Assumiamo di nuovo che tutte le camere siano occupate: ogni camera ha uno e un solo ospite. Arriva sul posto una nuova persona e vuole una camera. Il direttore dell’albergo sposta tutti i clienti dalla loro camera a quella con il numero immediatamente successivo, liberando così per il nuovo arrivato la camera 1. Il giorno dopo, si presentano cinque coppie in luna di miele. Per poterle ospitare, il direttore non fa altro che spostare tutti dalla loro camera a quella cinque numeri più avanti. Così rimangono libere per le cinque coppie le camere da 1 a 5. A fine settimana arriva all’albergo, per un congresso, un numero infinito di matematici. Il direttore non si scompone: non fa altro che spostare tutti in una camera con un numero doppio di quello precedente. Questo fa si che tutti occupino una camera con un numero pari, lasciando libere per i matematici tutte le infinite camere di numero dispari! L’”Hotel Infinito” è solo uno dei molti paradossi sui “cardinali transfiniti”, estensione agli insiemi infiniti del concetto di “numero cardinale, o potenza”, caratteristico degli insiemi finiti. Il più piccolo numero cardinale transfinito è la “potenza del numerabile” ℵ0 (“aleph-zero”), che è il cardinale dell’insieme N dei numeri naturali e di ogni insieme ad esso equipotente, come l’insieme P dei naturali pari, l’insieme D dei naturali dispari, l’insieme S dei quadrati dei numeri naturali, ecc. “Aleph-zero” gode delle seguenti proprietà: Per ogni n cardinale finito è : ℵ0 + n = ℵ0 ℵ0 + ℵ0 = ℵ0 ,        n·ℵ0 = ℵ0  (n ≠ 0) ℵ0· ℵ0 = ℵ0,            ℵ0n = ℵ0 ℵ0 – n = ℵ0  , se n è finito. Quando sottraiamo  da se stesso, possiamo ottenere qualunque risultato da 0 a . Lo si constata facilmente togliendo da N i seguenti insiemi di  termini: Tutto N: resto, zero. Tutto N da n+1 in poi: resto, i numeri da uno a n, cioè in tutto n termini. Tutti i numeri dispari: resto, tutti i numeri pari, cioè ℵ0 termini Nota L’osservazione di Desdemona (moglie di Otello): “Questi sono vecchi paradossi, buoni a far ridere i gonzi nelle osterie”, tratta dalla Scena prima dell’Atto secondo dell’Otello di William Shakespeare (Stratford – upon – Avon, 1564 – 1616), viene da lei formulata in risposta ad alcune affermazioni di Iago (alfiere di Otello)sulle donne. Mi limiterò a citarne una: “Su, su, fuori di casa siete quadri dipinti, nei vostri salotti campane, in cucina gatti selvatici, sante quando offendete, diavoli se venite offese, perditempo nei lavori di casa e indaffarate a letto”. BIBLIOGRAFIA ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia. UTET, Torino, 1971 BERNARDINI, Fisica sperimentale. Parte I. Veschi, Roma, 1962 GARDNER, Ah! Ci sono! Paradossi stimolanti e divertenti. RBA Italia, Milano 2008 LECCESE, Elementi della teoria ingenua degli insiemi. Sansoni Scuola aperta, Firenze, 1973 LESKY, Storia della letteratura greca. I, II e III. Il Saggiatore, Milano, 2005 LOMBARDO – RADICE, Istituzioni di algebra astratta. Feltrinelli, Milano, 1965 NAGEL e J.R. NEWMAN, La prova di Gödel. Boringhieri, Torino, 1961 RICCI, Analisi matematica. Vol I. Libreria Editrice, Milano, 1960 RUSSELL, Introduzione alla filosofia matematica. Longanesi & C. , Milano, 1962 SHAKESPEARE, Otello, UE Feltrinelli, Milano, 2016 M. SMULLYAN, Satana, Cantor e l’infinito e altri inquietanti rompicapi. RBA Italia, Milano, 2008 STEWART, Giochi Matematici. Enigmi e rompicapi. RBA Italia, Milano, 2008 WEYL, Filosofia della matematica e delle scienze naturali. Boringhieri, Torino, 1967. Domenico Bruno (Catania 1941). Laureato in Fisica. Già Docente di Matematica e Fisica nei Licei. Dal 1983 Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione. Visualizza tutti gli articoli

Perché si chiama curva degli errori?

La curva normale o gaussiana perché si chiama anche curva degli errori? Le considerazioni di Francesco Tricomi in un articolo del 1932.
«Perché il diagramma della legge di Gauss suol chiamarsi la curva degli errori?». L’interrogativo così posto risale a Francesco Giacomo Tricomi. Si trova in un suo articolo dal titolo Le variabili casuali pubblicato sul n.2/1932 del Periodico di Matematiche. Tricomi, ovviamente, pose la domanda per dare la risposta ad un tema che in quegli anni era di particolare attualità. Nel fascicolo precedente del PdM, infatti,  anche Bruno de Finetti era intervenuto con l’articolo Probabilità fuori dagli schemi di urne e poi vi ritornerà nel 1934 con Come giustificare elementarmente la “legge normale” della probabilità? Dove “elementarmente” vuole significare, egli scrisse, “col minimo apparato matematico e col massimo potere persuasivo”. I tre interventi si riveleranno molto utili per l’insegnamento della probabilità anche a livello secondario .
Ecco la risposta di Tricomi alla domanda da lui posta:
La ragione di questa denominazione risiede in una proprietà della legge di Gauss molto importante; proprietà di cui tutti hanno sentito più o meno vagamente parlare, ma di cui non molti hanno penetrato lo spirito. Intendo alludere al fatto che gli errori accidentali d’osservazione si distribuiscono sensibilmente secondo la legge di Gauss, ossia, in altre parole, che l’entità x dell’errore in una determinata osservazione, può considerarsi come una variabile casuale normale, cioè seguente la legge di probabilità

dove h è una costante positiva: la cosiddetta «precisione».
Qual’è però la portata precisa di quell’asserzione? In particolare; siamo di fronte ad un fatto di carattere sperimentale, oppure la circostanza che gli errori seguono la legge di Gauss è matematicamente deducibile da ipotesi più semplici? Storicamente parlando non c’è dubbio che «la legge degli errori» ha avuta un’origine teorica; però, essendo generalmente noto che il ragionamento con cui Gauss la dedusse dal cosiddetto postulato della media ( anche a prescindere dalle non infondate critiche rivolte a questo stesso postulato) dà luogo ad obiezioni che ne infirmano il valore; così molti, quasi per reazione, sono ancor’oggi propensi a credere che la legge di Gauss non abbia che un valore sperimentale, al punto da essere indotti a chiedersi se non sia il caso di cercare empiricamente qualche altra formula che meglio rappresenti i dati sperimentali.
E dico «ancor’oggi» perché, se una simile concezione poteva giustificarsi qualche tempo fà, essa non mi sembra più difendibile al giorno d’oggi in cui, un gruppo di ricerche oltremodo interessanti e profonde, iniziatesi con Tchebycheff e continuate con Liapounoff, Cantelli, Leroy, ecc., ha condotto ad una rigorosa dimostrazione della legge di Gauss, a partire da ipotesi accettabilissime e di alto grado di generalità.
L’interesse concettuale di queste nuove ricerche risiede specialmente nel fatto che esse risalgono ad una concezione dell’origine stessa dell’errore, la cui prima idea può già riscontrarsi in Laplace, secondo cui l’errore osservato x sarebbe la somma di un grandissimo numero di errori elementari, dovuti a cause ignote o mal note, indipendenti e tali che ciascuna di esse, se fosse sola ad agire, produrrebbe un effetto di un ordine di grandezza assai minore di quello di x. In altre parole: l’errore x si considera come la somma di un grandissimo numero di variabili casuali indipendenti x1, x2,……, xn sulle cui singole leggi di probabilità poco o nulla si sa, all’infuori dell’accennata relazione fra gli ordini di grandezza delle xk e quello di x.Francesco Tricomi, La variabili casuali, PdM, 2/1932
L’armamentario matematico essenziale
Il succinto passo ripreso da Tricomi ha un indubbio valore anche per inquadrare storicamente una questione la cui rilevanza didattica è notevole. A conferma di ciò, si riporta il testo assegnato come problema della maturità scientifica nella sessione ordinaria del 2004:

Il problema è stato già ricordato, insieme ad altri problemi e quesiti, da Adriana Lanza in: Curve a campana per un elaborato integrato
Per quanto attiene infine i legami della curva normale o gaussiana degli errori accidentali con l’armamentario matematico appare comodo far cenno agli sviluppi in serie di Taylor seguenti:

cambiando x in -x:

e quindi, integrando termine a termine:

Altri riferimenti in  La funzione gaussiana

Laureato in matematica, docente e preside e, per quasi un quarto di secolo, ispettore ministeriale. Responsabile, per il settore della matematica e della fisica, della Struttura Tecnica del Ministero dell’Istruzione. Segretario, Vice-Presidente e Presidente Nazionale della Mathesis dal 1980 in poi e dal 2009 al 2019, direttore del Periodico di Matematiche.

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