Oltre i confini

Oltre i confini
Pedagogie interculturali per una cittadinanza globale
di Bruno Lorenzo Castrovinci
Bambini e studenti silenziosi: occhi che osservano, orecchie che ascoltano, corpi immobili ma presenti. Apparentemente assenti, in realtà profondamente immersi. Apprendono, confrontano, assorbono. Vivono nuove realtà educative, esplorano ambienti di apprendimento inediti, si muovono, spesso con timidezza, tra approcci relazionali sconosciuti.
Cambiare scuola, da un paese all’altro, da una cultura all’altra, non significa soltanto imparare una nuova lingua o abituarsi a un paesaggio diverso. È un cambiamento più profondo, che tocca le radici culturali, le credenze, gli archetipi. Tutto ciò che per noi è scontato – il modo di insegnare, di comunicare, di stare in classe – per uno studente straniero può essere disorientante, persino respingente. In questo contesto, incontrare un insegnante capace di costruire una relazione autentica, accogliente, inclusiva, può rappresentare una novità tanto grande quanto destabilizzante. Se non accompagnata con consapevolezza, questa novità rischia di essere fraintesa o respinta, minando il riconoscimento della figura educativa.
Per questo è fondamentale conoscere le realtà di provenienza degli studenti stranieri. Non per categorizzarli, ma per comprenderli e per progettare percorsi realmente inclusivi, in cui la diversità non sia un fattore da neutralizzare, ma un’occasione per scoprire nuove visioni del mondo. Ogni differenza culturale, ogni sguardo altro, può diventare una risorsa per ampliare lo spettro di ciò che chiamiamo “scuola”.
Per troppo tempo, l’educazione interculturale è stata trattata come un’azione riparativa, una risposta a posteriori alle difficoltà scolastiche degli studenti migranti. Una toppa educativa, appunto, da applicare quando il ritmo della classe sembrava troppo distante. Ma questo approccio, sebbene mosso da buone intenzioni, si è rivelato miope, spesso inefficace. La diversità non è un problema da risolvere. È una lente preziosa con cui rileggere l’intero impianto educativo.
Le pratiche antidiscriminatorie non possono restare confinate nella sfera dell’eccezione ,ma devono diventare parte integrante della struttura scolastica. Occorre ripensare i curricoli, ridefinire le metodologie, trasformare le relazioni educative. L’intercultura non è più “una cosa da stranieri” ma rappresenta la condizione stessa della scuola di oggi. È il terreno comune su cui costruire un’educazione che rifletta la complessità del presente, il pluralismo delle società contemporanee e il senso profondo della convivenza globale.
La scuola araba, identità, autorità e aperture
Nel mondo arabo, l’istruzione è profondamente intrecciata alla religione e all’identità collettiva. Il Corano entra spesso nei programmi scolastici come fonte di valori, ma anche come base epistemologica. L’insegnante ricopre un ruolo centrale non solo dal punto di vista didattico, ma anche morale e talvolta spirituale. In molte realtà rurali o conservatrici, la figura del maestro assume un potere pressoché assoluto, tanto da poter influire in modo determinante sul destino dello studente. Egli decide chi merita di proseguire, chi deve essere punito, chi può essere valorizzato e chi deve restare ai margini, attraverso metodi educativi rigidi, spesso punitivi e talvolta apertamente violenti. In alcune scuole tradizionali, il bastone è ancora lo strumento simbolico del potere pedagogico, e l’umiliazione pubblica viene considerata un deterrente efficace contro la disobbedienza. L’autorità del maestro non viene quasi mai messa in discussione, e il sapere si trasmette in modo unidirezionale, senza spazio per il pensiero critico o la partecipazione attiva. Il rapporto con gli studenti tende ad essere verticale e gerarchico, e la paura sostituisce troppo spesso il rispetto. Tale clima educativo può generare non solo ansia e frustrazione, ma anche una profonda sfiducia nelle istituzioni scolastiche, compromettendo l’idea stessa di scuola come luogo di crescita e di emancipazione. Tuttavia, nei centri urbani più moderni, si affermano scuole internazionali e bilingui che introducono metodologie più partecipative. In queste scuole si inizia a respirare un clima più aperto, in cui la diversità è tollerata e talvolta valorizzata, pur rimanendo vincolata a una forte identità culturale di riferimento. Il clima di classe è spesso formalmente rispettoso, ma la distanza tra insegnanti e studenti può ostacolare una didattica realmente inclusiva.
India, pluralismo, stratificazione e inclusione fragile
Il sistema scolastico indiano riflette la profonda stratificazione della società. La coesistenza di lingue, religioni e caste si riversa nelle aule, generando contesti estremamente eterogenei. Le scuole pubbliche, spesso carenti di risorse e sovraffollate, si affiancano a istituti privati che offrono un’istruzione elitaria, spesso in lingua inglese e con curricula di stampo occidentale. In questo contesto, la scuola è percepita da milioni di famiglie come l’unica via per il riscatto e l’ascesa sociale. Per chi nasce in condizioni di povertà o in caste discriminate, l’istruzione rappresenta la speranza concreta di un futuro diverso. Di conseguenza, gli studenti attribuiscono un valore altissimo allo studio, affrontandolo con rigore, dedizione e spirito di sacrificio. In molte famiglie, soprattutto nelle aree rurali, il successo scolastico del figlio è vissuto come una responsabilità collettiva, e il merito individuale è considerato uno strumento di emancipazione.
Il metodo di insegnamento tradizionale è ancora largamente frontale, con un forte accento sulla memorizzazione e sulla disciplina, ma in alcune realtà si stanno diffondendo approcci più attivi, ispirati alla pedagogia gandhiana o al pensiero di Tagore, con attenzione alla nonviolenza, alla cooperazione e alla comunità. Il clima di classe varia notevolmente, passando da contesti rigidi e competitivi a esperienze di maggiore apertura e partecipazione. La disuguaglianza resta un elemento critico, ma le esperienze più innovative si trovano in alcune ONG e scuole sperimentali che lavorano con bambini delle caste più svantaggiate, promuovendo una didattica interculturale e cooperativa che parte dalla cultura del bambino e la integra nella visione scolastica. In questi contesti, la scuola non è solo un luogo di istruzione, ma diventa lo spazio simbolico e reale di una possibile trasformazione sociale.
Cina, disciplina, omogeneità e nuove aperture
In Cina, l’istruzione è considerata uno strumento fondamentale per la crescita del Paese. Il sistema scolastico si fonda su meritocrazia, disciplina e omologazione, ed è fortemente orientato al raggiungimento di standard elevati nelle competenze chiave. Gli studenti sono sottoposti a forti pressioni fin dall’infanzia, con un ritmo scolastico intenso e programmi strutturati che prevedono una valutazione continua. L’insegnante gode di un’autorità indiscussa, ed è spesso considerato il garante del successo accademico. Le scuole internazionali rappresentano un’eccezione riservata a un’élite, e adottano curricoli occidentali con maggiore apertura al pluralismo culturale. Nel sistema tradizionale, invece, l’intercultura non è ancora un valore esplicito, e la diversità viene spesso gestita con logiche assimilazioniste, dove l’obiettivo è l’uniformità piuttosto che l’integrazione delle differenze.
Tuttavia, l’emergere di problemi legati al benessere psicologico degli studenti e la crescente consapevolezza delle diseguaglianze sociali legate all’istruzione hanno spinto alcune scuole urbane a rivedere i propri modelli, introducendo metodologie più partecipative e attente alla dimensione relazionale. In questo contesto si inseriscono i dati dell’indagine OCSE-PISA 2022, che confermano il primato dell’area asiatica in termini di risultati scolastici. Singapore guida la classifica mondiale con punteggi eccellenti in matematica, scienze e lettura, seguita da regioni cinesi come Macao e Hong Kong, nonché da Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Questi risultati riflettono un modello educativo incentrato sulla performance, dove la pressione spinge verso l’eccellenza ma al contempo solleva interrogativi cruciali sull’equilibrio tra successo accademico e benessere emotivo. L’inclusione, in questo contesto, è una sfida ancora aperta, che richiede un cambiamento profondo non solo nei metodi, ma anche nella cultura pedagogica dominante.
Ucraina ed ex Europa dell’Est, scuola tra memoria e resilienza
Nei paesi dell’ex blocco sovietico, l’educazione porta ancora i segni profondi della storia e delle ideologie dominanti del passato. Il modello scolastico ereditato dal periodo socialista era improntato a un forte controllo gerarchico, con una didattica trasmissiva e poco spazio per la creatività o il pensiero critico. La scuola era spesso lo strumento attraverso cui lo Stato forgiava il cittadino ideale, con programmi rigidi, uniformità nei contenuti e nella forma, e con una concezione disciplinare della pedagogia. Tuttavia, dopo la caduta dei regimi autoritari, la transizione democratica e l’adesione o l’avvicinamento all’Unione Europea hanno innescato processi di rinnovamento, pur tra resistenze culturali e contraddizioni irrisolte.
In Ucraina, il conflitto armato ha accelerato e trasformato radicalmente il senso stesso dell’educazione: le scuole sono diventate rifugi di umanità, luoghi di accoglienza e resilienza per bambini e ragazzi sfollati, spesso traumatizzati. Qui, il ruolo dell’insegnante si è ridefinito in modo profondo passando da trasmettitore di contenuti a mediatore culturale ed emotivo, da custode della conoscenza a figura di cura e guida psicologica. Anche nei paesi vicini, come Polonia e Romania, si moltiplicano le esperienze di inclusione attiva degli studenti migranti e rom, con progetti che integrano educazione interculturale, sostegno linguistico e accompagnamento emotivo. In queste aree, l’intercultura non è più solo un’opzione metodologica, ma assume un valore etico e politico diventando lo strumento con cui si cerca di costruire una società più coesa, di superare le fratture storiche, e di dare voce e dignità a soggetti a lungo esclusi dal discorso pubblico e dall’accesso pieno alla cittadinanza educativa.
L’intercultura come fondamento educativo
L’intercultura non è un’aggiunta al sapere scolastico, ma una sua riformulazione profonda. Essa implica un’educazione al dialogo, alla complessità, alla consapevolezza di sé e dell’altro, dove il concetto di alterità non è fonte di distanza, ma possibilità di incontro e di riconoscimento reciproco. Insegnare in un’ottica interculturale significa riconoscere che ogni studente porta in classe una visione del mondo, una lingua del cuore, una memoria culturale sedimentata nel corpo, nei gesti, nelle parole. Significa accettare che l’apprendimento non avviene in una neutralità culturale, ma si costruisce all’incrocio tra mondi simbolici diversi. Quando la scuola accoglie questi patrimoni non come deviazioni da correggere, ma come materiali autentici su cui costruire il sapere comune, allora si trasforma in uno spazio generativo, capace di ridare senso allo stare insieme. Le attività interculturali non possono essere relegate a momenti episodici, né affidate solo alle occasioni cerimoniali; esse devono attraversare tutte le discipline, tutti i curricoli, tutte le pratiche scolastiche. Le narrazioni, i linguaggi, le storie personali, le esperienze migratorie e i saperi familiari diventano così strumenti di relazione, di apprendimento e di cittadinanza attiva. Una cittadinanza che non si fonda sull’assimilazione, ma sulla valorizzazione delle differenze e sulla co-costruzione di uno spazio comune realmente inclusivo e plurale.
La didattica personalizzata come risposta alla complessità
L’intercultura trova il suo terreno privilegiato nella didattica personalizzata, che riconosce e valorizza le differenze non solo culturali, ma anche cognitive, emotive, linguistiche e relazionali. Ogni studente è unico, portatore di un proprio stile di apprendimento, di un vissuto esperienziale, di un sistema di valori e di bisogni educativi specifici. Le classi di oggi, sempre più plurali e complesse, richiedono strategie didattiche flessibili e universali, capaci di adattarsi alle necessità dei singoli senza perdere la coerenza collettiva.
In questo senso, l’approccio UDL (Universal Design for Learning) fornisce un quadro metodologico e teorico che consente di progettare ambienti di apprendimento inclusivi fin dalla fase iniziale. L’UDL propone tre principi fondamentali: molteplici modalità di rappresentazione dei contenuti, molteplici modalità di espressione e azione, molteplici modalità di coinvolgimento. Applicare l’UDL significa pensare una didattica accessibile a tutti, non solo a chi ha bisogni speciali, e progettare esperienze formative capaci di valorizzare le potenzialità di ciascuno.
Metodologie come il cooperative learning, il tutoring tra pari, la didattica laboratoriale, il project-based learning e l’uso consapevole delle tecnologie digitali permettono di costruire percorsi personalizzati e differenziati, in cui ciascuno possa sentirsi parte attiva e portatore di sapere. Personalizzare non significa isolare o semplificare, ma creare contesti di senso, in cui tutti possano dare il meglio di sé e sentirsi pienamente coinvolti.
In tale contesto, la didattica personalizzata si configura come uno strumento di giustizia educativa, capace di riconoscere e valorizzare la pluralità come risorsa e di trasformare l’aula in uno spazio di apprendimento autentico e condiviso.
PDP e valorizzazione delle differenze
All’interno di questa visione pedagogica, il Piano Didattico Personalizzato rappresenta uno strumento prezioso e dinamico. Nato per rispondere ai bisogni educativi speciali, può essere esteso con efficacia a studenti con difficoltà linguistiche, svantaggi socioculturali o esperienze migratorie, secondo quanto indicato nella Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 e nella successiva Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013. Quest’ultima chiarisce che il PDP può essere redatto anche per studenti che non rientrano nella legge 104/92 o nella legge 170/2010, ma che presentano Bisogni Educativi Speciali temporanei o permanenti, come nel caso di minori stranieri neoarrivati, bambini in situazioni di disagio socioeconomico o con problematiche emotive e relazionali.
Il PDP permette di definire obiettivi realistici, strategie didattiche e inclusive, strumenti compensativi e dispensativi, e criteri di valutazione coerenti con il percorso individuale. Nei contesti multiculturali, può includere ad esempio l’uso della lingua madre come supporto all’apprendimento, l’inserimento graduale nelle discipline, la flessibilità nelle verifiche, l’uso di mediatori culturali o la valorizzazione dei saperi pregressi.
In linea con le più recenti indicazioni nazionali per una scuola dell’autonomia inclusiva, il PDP non è un atto isolato o burocratico, ma un processo condiviso e partecipato. Deve essere costruito insieme allo studente, alla famiglia e all’intera comunità scolastica, affinché diventi realmente uno strumento di corresponsabilità educativa. Solo così si evita il rischio che si trasformi in un’etichetta o in una misura formale, e diventa invece uno strumento di reale inclusione, capace di valorizzare le potenzialità di ciascuno e di rispondere in modo etico e professionale alla complessità educativa contemporanea.
Una scuola che si riscrive con lo sguardo dell’altro
Costruire una scuola interculturale e antidiscriminatoria significa riscrivere profondamente il patto educativo. Non basta aggiungere contenuti nuovi o organizzare eventi tematici. Serve un cambiamento di prospettiva, un nuovo sguardo che sappia cogliere nella differenza non un problema da gestire, ma una possibilità di crescita condivisa. L’insegnante diventa il regista di questa trasformazione, un professionista che sa ascoltare, mediare, facilitare e generare spazi di dialogo autentico. Il clima di classe, in questo orizzonte, si trasforma in un laboratorio di umanità, in cui le fragilità diventano risorse e le identità non sono barriere, ma ponti. È in questa scuola che ogni studente, qualunque sia la sua provenienza, può sentirsi non soltanto accolto, ma pienamente riconosciuto. E da questa scuola può nascere una cittadinanza più giusta, più consapevole, più solidale.
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