Il silenzio

 Il silenzio

Scuola, emozioni e giustizia nella lotta al narcisismo e alla violenza di genere

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Storie di vite che soffrono in silenzio, prigioniere di quelle mura domestiche costruite con amore, si trasformano in narrazioni tragiche di dolore e sopravvivenza. Prigioniere non solo degli spazi fisici, ma di una società che troppo spesso si volta dall’altra parte. Anche chi riesce a scappare da relazioni distruttive si trova a combattere un’altra battaglia: quella contro l’isolamento, il giudizio, la mancanza di ascolto. Se da un lato l’opinione pubblica condanna gli atti estremi, dall’altro mostra una scarsa solidarietà verso chi tenta di liberarsi e ricostruire sé stessa, spesso a rischio della propria vita.

Il narcisista patologico è abile a conquistare le masse, a manipolare la percezione pubblica. Con le sue parole, il carnefice diventa vittima e la vittima viene screditata, isolata, resa invisibile. È in questo sofismo retorico che si annida un pericolo culturale profondo, che la società civile è chiamata a contrastare con determinazione e lucidità, a partire dall’educazione.

Ogni volta che una donna viene uccisa per mano del partner o dell’ex compagno, ci troviamo di fronte a una domanda urgente e scomoda: cosa non ha funzionato nell’educazione di quell’uomo? E cosa avrebbe potuto salvarla? I femminicidi non sono soltanto delitti individuali, ma il riflesso tragico di una cultura ancora intrisa di dominio, possesso e disuguaglianza, sedimentata in secoli di patriarcato che ha modellato persino il linguaggio, l’immaginario collettivo, i modelli educativi.

In questa cornice, la scuola assume un ruolo cruciale e irrinunciabile. È tra i banchi che si formano i pensieri, le relazioni, le prime idee sull’amore, sul rispetto, sul corpo e sull’altro. È nella quotidianità scolastica, fatta di sguardi, parole, attività e silenzi, che si costruisce o si disfa l’educazione sentimentale e sociale di una generazione.

È a scuola che si può insegnare, con parole e comportamenti, che l’amore non uccide, che non esiste libertà senza rispetto e che la fragilità emotiva non può essere gestita con il dominio. Ma per farlo, bisogna riconoscere che educare alla parità non è un’attività collaterale, bensì una priorità pedagogica e civica. In un Paese in cui il numero delle vittime continua a salire, la neutralità è una forma di complicità. Tacere, rinviare, banalizzare è già un modo di schierarsi dalla parte sbagliata.

Un’emergenza sociale che interpella la scuola

Ogni volta che la cronaca restituisce l’ennesimo caso di femminicidio, la società si scuote, si interroga, si indigna. Ma troppo spesso l’indignazione si disperde nel rumore, mentre le radici profonde del fenomeno rimangono intatte. I femminicidi non sono mai eventi isolati, ma l’apice tragico di una lunga escalation di controllo, possesso e disumanizzazione, che affonda le sue radici in un sistema patriarcale interiorizzato e ancora largamente tollerato.

Non si tratta solo di episodi di violenza, ma di un preciso ordine culturale che per secoli ha legittimato la prevaricazione dell’uomo sulla donna, normalizzando atteggiamenti sessisti, sminuendo il concetto di consenso, minimizzando la violenza psicologica ed economica. Questa cultura si riproduce nei media, nei modelli familiari, nel linguaggio quotidiano e, se non contrastata, anche nella scuola.

La scuola, in quanto istituzione educativa per eccellenza, non può restare a guardare. Non può limitarsi a trasmettere saperi astratti o ad adempiere a obblighi burocratici, ma deve farsi presidio attivo di giustizia e consapevolezza. Educare alla parità, alla relazione sana, al rispetto dei confini altrui, non è un compito accessorio. È una missione pedagogica urgente e trasversale, che riguarda ogni ordine di scuola e ogni disciplina, dal nido all’università. È attraverso l’educazione che si spezzano le catene dell’indifferenza e si coltiva una nuova coscienza collettiva.

Il narcisismo patologico e la cultura del possesso

Le dinamiche disfunzionali che conducono alla violenza contro le donne sono spesso legate a forme di narcisismo patologico, disturbo della personalità caratterizzato da una profonda insicurezza, mascherata da onnipotenza e bisogno compulsivo di ammirazione. Dietro la maschera dell’amore si celano desideri di controllo, paure dell’abbandono, mancanza di empatia e un bisogno costante di conferme, che si trasforma in manipolazione e dominio sull’altro.

Il partner abusante non ama, possiede. Non ascolta, impone. Si nutre della dipendenza emotiva della compagna, mina la sua autostima, isola gradualmente la vittima dalle sue reti sociali e familiari. E quando la donna sceglie di andarsene, quando reclama la propria libertà, l’illusione narcisistica crolla. È in quel crollo che il narcisista patologico può diventare letale, perché percepisce la fine della relazione come un affronto intollerabile, una ferita narcisistica che scatena un bisogno di vendetta e annientamento dell’altro.

Questi uomini, spesso insospettabili all’esterno e perfettamente integrati socialmente, presentano una fragilità interna che si trasforma in rabbia distruttiva, in un copione che si ripete con inquietante regolarità. Comprendere questi meccanismi, fin dalla giovane età, significa offrire strumenti fondamentali per riconoscere e allontanarsi da relazioni tossiche prima che degenerino.

Significa educare ragazzi e ragazze alla consapevolezza emotiva, alla gestione del rifiuto, all’autonomia affettiva, alla costruzione di legami basati sul rispetto reciproco. Serve una vera alfabetizzazione sentimentale che insegni a riconoscere i segnali della manipolazione, a rifiutare la logica del possesso, a dare valore ai propri confini e a quelli degli altri. Solo così sarà possibile contrastare alla radice la mentalità predatoria e salvare vite.

Le responsabilità della scuola tra pedagogia e didattica

La scuola ha il compito di decostruire stereotipi, promuovere un pensiero critico e fornire un’educazione affettiva che insegni a distinguere l’amore dal possesso, la cura dal controllo, la gelosia dalla violenza. Questa educazione non può essere affidata al caso o delegata a momenti straordinari, deve diventare parte della didattica quotidiana, strutturata attraverso linguaggi plurali, laboratori, letture guidate, discussioni filosofiche e pratiche riflessive.

Non si tratta solo di trasmettere nozioni, ma di formare una coscienza relazionale. Questo non significa inserire occasionali “lezioni sulla parità” in giornate commemorative, ma costruire percorsi continui, trasversali, interdisciplinari. La pedagogia della parità non è un’aggiunta al curricolo, è il fondamento di ogni vera educazione democratica, perché insegna il rispetto della persona come valore assoluto e inalienabile.

Ogni insegnante, qualunque sia la disciplina, può contribuire a promuovere modelli relazionali sani, valorizzando la diversità, smascherando i micro-sessismi, rielaborando testi, riscrivendo finali alternativi, invitando al confronto tra modelli culturali diversi. Insegnare non è solo trasmettere contenuti, ma generare cittadinanza. E oggi più che mai, educare alla cittadinanza significa educare all’uguaglianza sostanziale, al rifiuto della prevaricazione, alla cura del legame umano.

Percorsi concreti dalla scuola dell’infanzia alle superiori

Già nella scuola dell’infanzia è possibile lavorare sul riconoscimento delle emozioni, sull’empatia, sul rispetto del corpo proprio e altrui. Attraverso il gioco simbolico, la lettura di albi illustrati e il dialogo quotidiano, si possono introdurre storie di amicizia, collaborazione e valorizzazione delle differenze. Le attività devono essere progettate per far emergere la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di riconoscere e nominare le emozioni, di capire che ognuno ha il diritto di dire no e che nessuno ha il diritto di far male o costringere.

Nella scuola primaria diventa fondamentale proporre attività cooperative, circle time, role playing, letture guidate di fiabe classiche reinterpretate in chiave paritaria, laboratori artistici e giochi di gruppo che stimolino il pensiero critico. Insegnare che non esistono giochi da maschi o da femmine, che ogni bambino può scegliere liberamente i propri interessi e le proprie emozioni, è già un atto rivoluzionario. L’educazione alla parità passa anche dal linguaggio, dalle dinamiche di classe, dalle relazioni quotidiane tra compagni e con gli insegnanti.

Alla scuola secondaria di primo grado si possono introdurre dibattiti regolati, visioni di film educativi seguite da analisi collettive, progetti teatrali, scrittura di storie alternative e incontri con esperti, psicologi e rappresentanti di centri antiviolenza. È qui che le relazioni affettive iniziano a delinearsi con maggiore intensità, ed è qui che si devono fornire gli strumenti per riconoscere dinamiche malsane, meccanismi di dipendenza emotiva e segnali precoci di abuso. Fondamentale è il lavoro trasversale tra educazione civica, lettere, scienze, arte e tecnologia per affrontare il tema della rappresentazione della donna e del corpo nei media e nei social.

Alle scuole secondarie di secondo grado dai licei, ai tecnici e ai professionali si può lavorare con il debate, con le simulazioni processuali ispirate a casi di cronaca o giurisprudenza, con l’analisi di testi letterari o filosofici che abbiano al centro il tema del rispetto, della libertà individuale, dell’autodeterminazione. La scrittura creativa può diventare uno strumento potente di elaborazione e denuncia. I progetti di peer education e mentoring possono responsabilizzare i ragazzi più grandi e creare spazi orizzontali di confronto. È anche il momento di affrontare in modo esplicito temi come il consenso, la libertà sessuale, l’identità di genere, la violenza psicologica e quella economica, con un linguaggio adulto, rispettoso e non moralistico.

Un esempio virtuoso in questo senso è rappresentato dall’Istituto Ettore Majorana di Milazzo, che ha realizzato l’evento “Narciso e Narcisi – Le mille facce del narcisismo patologico”, con contributi accademici universitari, interventi dell’Ordine degli Psicologi e della scrittrice Shara Pirrotti, autrice del libro Guariti per Amare, raccolta di testimonianze autentiche di vittime di narcisismo patologico. L’incontro ha offerto agli studenti un’occasione preziosa per confrontarsi con esperti e testimoni diretti, approfondendo in chiave scientifica, narrativa e relazionale il legame tra disturbi della personalità e violenza affettiva.

Il Majorana di Milazzo è andato anche oltre, organizzando un incontro di Debate in cui due squadre si sono confrontate pubblicamente sul tema del “Codice Rosso”: una a favore, guidata da un Commissario e vice Questore di Polizia, e una contraria, capitanata dal Presidente della Camera Penale di Messina. Questo confronto, aperto, documentato e civile, ha permesso agli studenti di esplorare la complessità della giustizia penale e delle misure di tutela delle vittime, sviluppando al tempo stesso pensiero critico, capacità oratoria e consapevolezza civica. È questo il volto migliore della scuola: una palestra di democrazia, di parola condivisa e di responsabilità. L’obiettivo è far emergere una nuova narrazione dell’intimità e delle relazioni, fondata sulla reciprocità, sulla libertà e sulla responsabilità affettiva.

Il ruolo delle emozioni e la prevenzione psicologica

La prevenzione della violenza passa dalla costruzione di un’identità affettiva solida e consapevole, che si radica nella capacità di stare in relazione senza annullare sé stessi o l’altro. I ragazzi e le ragazze devono imparare a gestire frustrazioni, delusioni, conflitti e vissuti di rifiuto senza trasformarli in rabbia distruttiva o auto-svalutazione. In questo percorso, la scuola può diventare uno spazio sicuro in cui sviluppare intelligenza emotiva, autostima, assertività e resilienza.

Molti giovani, che diventano carnefici o vittime, portano con sé storie di fragilità relazionale, modelli familiari segnati dalla violenza, carenze affettive o esperienze di abbandono e trascuratezza. Il disagio psico-affettivo, se non intercettato, può evolvere in forme di dipendenza, controllo o sottomissione nelle relazioni. Per questo occorre uno sguardo educativo che sia anche terapeutico, in grado di cogliere i segnali sommersi del malessere e intervenire in modo integrato.

Serve un’alleanza forte e continuativa tra scuola, famiglie, servizi territoriali, centri antiviolenza e sportelli psicologici scolastici. L’approccio deve essere sistemico poiché prevenire non significa soltanto intervenire sull’individuo, ma cambiare l’ambiente educativo, il clima scolastico, le relazioni tra pari, promuovendo una cultura del benessere e dell’ascolto.

Nessun alunno va lasciato solo nel proprio disagio. Le emozioni, se inascoltate, si trasformano in rabbia o annientamento. Se accolte e legittimate, diventano forza creativa, risorsa per costruire relazioni autentiche, motore di cambiamento e crescita. È solo così che la scuola può davvero diventare una comunità educante e protettiva, capace di accompagnare ogni studente nella costruzione di sé.

Costruire una nuova cultura relazionale

Il femminicidio non nasce da un raptus, ma da una cultura che ha tollerato per troppo tempo la violenza, l’ha giustificata, estetizzata, interiorizzata. Una cultura che ha legittimato la gelosia come segno d’amore, la rabbia come virilità, la sottomissione come dedizione, e che ancora oggi plasma l’immaginario collettivo attraverso fiabe, canzoni, narrazioni tossiche nei social e nei media.

In questo contesto, cambiare la cultura non è un atto isolato ma un processo lento e profondo, che richiede pazienza, coerenza e una visione educativa condivisa. Un processo che può e deve cominciare tra i banchi di scuola, in ogni ordine e grado, in ogni materia e in ogni interazione.

Parlare con i ragazzi, ascoltarli senza giudicarli, aiutarli a riflettere sulle parole che usano, sulle relazioni che vivono, sulle emozioni che provano e sui modelli che li influenzano, è già educazione alla libertà. Significa offrire loro la possibilità di diventare cittadini consapevoli, capaci di relazioni libere, fondate sulla reciprocità, sull’empatia e sul rispetto. La scuola ha il potere di interrompere la catena culturale della violenza, restituendo valore al linguaggio, dignità alle emozioni e senso alle relazioni.

Conclusione. Educare per prevenire, educare per cambiare

Di fronte al femminicidio, la scuola non può restare neutrale, né osservare da una comoda distanza ciò che accade nella società. Deve entrare nel cuore della questione con consapevolezza, coraggio e responsabilità, sapendo che ogni azione educativa ha un peso, ogni omissione una conseguenza. Le parole pronunciate in classe, i silenzi taciuti, i testi selezionati o ignorati, le attività proposte o evitate sono tutti atti educativi. E ciascuno di essi può diventare un seme.

Un seme che, se coltivato con cura e intenzione, germoglia nella forma di consapevolezza, spirito critico, rispetto profondo dell’altro. Ma se abbandonato, lasciato inascoltato o represso, crea un vuoto in cui attecchiscono la sopraffazione, l’indifferenza, la violenza.

Educare alla parità non è un compito accessorio o una voce da inserire nel PTOF. È il fondamento etico di ogni progetto educativo. Significa offrire strumenti cognitivi ed emotivi per costruire relazioni sane, libere, fondate sulla reciprocità e sull’autonomia affettiva. È un lavoro quotidiano, lento e profondo, che attraversa tutte le discipline e si riflette nello stile comunicativo, nei modelli relazionali, nell’organizzazione della vita scolastica.

Se davvero vogliamo che mai più nessuna debba morire o essere isolato e screditato per aver detto “basta”, per aver scelto la propria libertà, allora è a scuola che dobbiamo iniziare ogni giorno. Non con proclami, ma con gesti coerenti. Con ogni parola detta e ogni silenzio finalmente spezzato.

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