La comunità scolastica nel postdigitale

La comunità scolastica nel postdigitale

di Margherita Marzario

Povertà educativa è un’espressione coniata dagli esperti e si riferisce non tanto a una povertà materiale (che è anche in atto) quanto ad una mancanza di opportunità di crescita. La povertà educativa è in aumento tra le nuove generazioni altresì per la diminuzione dell’educazione orizzontale (educazione tra fratelli, cugini o pari) e dell’educazione verticale (educazione da parte di nonni, zii, vicini di casa o altri adulti di riferimento). In passato i bambini e i ragazzi potevano crescere anche in strada con giochi semplici e improvvisati e con un cordone di sicurezza da parte di tutta la comunità.

Oggi, purtroppo, esiste proprio il vuoto educativo, ovvero latita l’educazione, anche perché l’educazione comporta fatica, fiducia, forza d’animo, confronto e conforto, e gli educatori si ritrovano sempre più soli in questo compito quotidiano ed esistenziale. Fino al secolo scorso l’educazione era “impartita” in modo naturale (anche con errori grossolani) e generale (dai genitori ai passanti in strada) senza dover fare appelli alla “comunità educante” perché già lo era. I genitori e gli adulti in generale tendono a delegare o relegare l’educazione.

A tale proposito, tra le varie espressioni usate (o abusate) attualmente compare “service learning”[lett. apprendimento del servizio] che “è un approccio educativo innovativo che combina apprendimento e impegno civico, offrendo agli studenti l’opportunità di acquisire conoscenze attraverso esperienze concrete al servizio della comunità. Un metodo che favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, rafforza il senso di responsabilità sociale e prepara i giovani ad affrontare le sfide del mondo reale con spirito critico e collaborativo” (cit.). Il primo apprendimento esperienziale, solidale (art. 2 Cost.), attivo (di cui si parla da sempre, prima ancora dell’introduzione delle espressioni in lingua inglese) lo si ha (lo si dovrebbe avere) a casa, in famiglia quando i genitori insieme si fanno aiutare dai figli nel rassettare i letti, nell’apparecchiare la tavola, nel lavare i piatti o altro, come si faceva una volta. Oggi, invece, si delega tutto alla scuola.

Il pedagogista Daniele Novara scrive: “La comunità nasce dalla scuola. Il luogo giusto dove costruire la piena cittadinanza ed evitare di alimentare vissuti di estraneità, impotenza e rancore”. Alla scuola non si devono delegare forme di educazione in base alle emergenze o alle mode, dall’educazione civica a quella gender, ma riconoscerle il ruolo educativo e collaborare con essa.

Daniele Novara afferma: “La scuola è una comunità sociale, non virtuale, e chi la frequenta ha bisogno di una continua sincronizzazione neurocerebrale e neurosensoriale per poter mettere in moto quelle componenti che danno vita a un apprendimento condiviso”. La scuola non è un edificio, un’istituzione come le altre, ma una comunità, un luogo, un ambiente di vita, una delle fondamentali formazioni sociali di cui all’art. 2 della Costituzione.

“Rispettare i principi basilari della comunità scolastica significa – secondo Novara – mantenere una delle funzioni primarie della scuola: l’apprendimento al saper vivere, al saper tirar fuori le proprie risorse, al saper stare insieme con gli altri”. La scuola non deve trasmettere il sapere, ma i saperi dell’umanità e i sapori della vita.

Novara aggiunge: “Invece di aumentare le certificazioni, sarebbe il caso di sostenere mamme e papà nelle loro funzioni educative, dando indicazioni adeguate, chiarendo dubbi e favorendo il gioco di squadra, evitando così di trasformare l’ambiente scolastico da comunità di apprendimento a luogo di terapia. Occorre sostenere gli insegnanti e le scuole che sanno lavorare sul versante educativo piuttosto che su quello diagnostico”. Lavorare e collaborare sul versante educativo: la prima forma di prevenzione e soluzione di problemi, anziché ricorrere alla medicalizzazione di ogni manifestazione dei bambini.

“[…] l’amicizia e la fratellanza sono valori fondamentali che arricchiscono la nostra vita sociale e culturale, promuovendo l’armonia e la cooperazione. La prima caratterizzata da legami profondi e duraturi, è spesso vista come una seconda famiglia. Ci offre sostegno emotivo e nella condivisione di esperienze, permette di navigare tra le sfide della vita. La fratellanza, d’altra parte, si estende per includere una comunità più ampia. Perché trascende le barriere geografiche, culturali e linguistiche, promuovendo la comprensione reciproca, il rispetto e la tolleranza” (cit.). Un diritto dei bambini che non sempre è considerato è il diritto all’amicizia, come purtroppo è emerso nel periodo della pandemia. Vari gli indici normativi nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia a supporto del diritto all’amicizia, tra cui “avere una vita individuale nella società” (Preambolo), “vita privata” (art. 16), “attività ricreative” (art. 31). 

La formatrice Flavia Franco sostiene: “Legato al tema imprescindibile delle emozioni, che condiziona tutto l’apprendimento, è indispensabile la creazione di “ponti” tra docenti e genitori. Nella mia esperienza una comunicazione aperta e continua permette di individuare tempestivamente eventuali difficoltà o necessità specifiche degli studenti. In questo modo, la scuola diventa un luogo in cui la comunità educativa lavora insieme per il benessere di tutte le bambine e tutti i bambini. Creare un ambiente inclusivo non solo migliora l’esperienza di apprendimento degli studenti, ma contribuisce anche a costruire una società più aperta, più rispettosa, più giusta”. La scuola non è e non deve essere il riflesso della società (dicendo, per esempio, che “la società ormai vuole così, ci vuole così, va così”) ma la base della società (che non è un ente astratto o altro), contribuire a cambiarla, a condurla verso nuovi e migliori obiettivi. Conta molto il rapporto scuola-famiglia senza pregiudizi o recriminazioni da ambo le parti. La previsione costituzionale “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.) è stata lungimirante: la didattica inclusiva non è così innovativa ma è semplicemente fare scuola in maniera vera e concreta.

La didattica è sicuramente inclusiva quando si educa all’immaginazione, si educa l’immaginazione (così si costruisce il futuro inclusivo). “Educare all’immaginazione sollecitando e sviluppando la facoltà immaginativa propria del bambino aiuta  lo strutturarsi di un’intelligenza creativa, lucida, fiduciosa, produttrice di nuovo, che rischia l’errore ma lo affronta con coraggio e si dispone a imparare da esso. E, soprattutto, che onora quel proprium dell’umano che, secondo lo storico e scrittore israeliano Harari, è la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono, di parlare, intrattenersi lungamente su cose che gli uomini non hanno mai né visto né toccato (miti, leggende, divinità) e di farlo collettivamente, cioè creando comunità” (lo scrittore Luciano Manicardi). È necessario e doveroso, perciò, educare all’immaginazione i bambini, educare l’immaginazione dei bambini perché è dare loro fiducia, futurabilità, felicità (che è fertilità, fecondità). È “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità” (art. 29 lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Immaginare: immergersi, immedesimarsi nell’immenso implicito.

Anche l’economista Luigino Bruni mette in guardia: “L’aspetto più deleterio di questa ideologia-religione del business è il suo presentarsi come innocua, e quindi accettata senza colpo ferire da insegnanti e famiglie. C’è bisogno di una nuova attenzione da parte di tutti su che cosa sta accadendo nel mondo della scuola”. La scuola deve sottrarsi e sottrarre alla logica del mercato e del consumismo, alla mentalità manageriale o aziendale. Deve tornare a essere istituzione, comunità, formazione sociale, deve riappropriarsi delle sue funzioni costituzionali.

Uno strumento valido in tal senso è la lettura, come propone l’esperto Federico Batini: “Le storie sono un “luogo” di condivisione: con un’esposizione intensiva e condivisa all’ascolto e alla socializzazione di tante storie diverse, la classe si rafforza come comunità, con effetti sulla conoscenza reciproca, sulla fiducia, sull’apertura, ma anche sulle moltiplicazioni delle esperienze e dei punti di vista e sulla decostruzione degli stereotipi”. La lettura condivisa diventa pure forma di educazione civica, è educazione civica.

Anche lo psicologo Ezio Aceti richiama: “L’educazione, oggi, è troppo femminilizzata e poi i figli restano immaturi, diventano manipolatori” (nella lectio magistralis del 9 ottobre 2023 a Matera). L’educazione è un dovere e diritto dei genitori (art. 30 comma 1 Cost.) ma anche della famiglia allargata e della comunità (art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

L’educatore Franco Lorenzoni conclude: “I bambini non vanno colonizzati ma coltivati”. I bambini non appartengono a nessuno per cui non si dovrebbero usare gli aggettivi possessivi né ce li si dovrebbe contendere tra genitori o tra famiglia e scuola o tra insegnanti. Educare dovrebbe essere un estrarre e non attrarre, un sottrarre e non aggiungere.

La scuola di oggi tenga conto del diritto alla cultura e alla memoria: “Ogni bambino ha diritto a conoscere gli usi, i costumi e le tradizioni dei luoghi di appartenenza. A scuola si dovrebbe studiare la storia del proprio Paese, perché non c’è futuro senza passato. Tutti i bambini hanno diritto a non dimenticare. Ciò significa che nessuno può cancellare o nascondere a una società libera, nel rispetto dei diritti delle bambine, dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi, la verità storica degli sbagli commessi dall’umanità nei confronti dei loro simili. Tutti gli edifici storici, che hanno subito danni a causa del tempo o per calamità naturali, devono essere tutelati e restaurati, affinché la memoria culturale, sociale e artistica venga tramandata alle nuove generazioni” (dal documento dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel 30° anniversario della Convenzione Internazione sui Diritti dell’Infanzia). La cultura e la memoria fanno una comunità, fanno comunità. 

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