Daniela Lucangeli e Teresa Farroni: intelligenza artificiale e mente umana -una sfida educativa, etica e neuroscientifica

Sintesi degli interventi fatti durante gli Stati Generali della scuola digitale dalle due neuroscienziate dello sviluppo Daniela Lucangeli e Teresa Farroni, Bergamo 2025
A cura di Dianora Bardi
Nel pieno della rivoluzione digitale, mentre l’intelligenza artificiale penetra ogni ambito della nostra quotidianità – dall’educazione alla salute, dal lavoro all’intrattenimento – cresce, accanto all’entusiasmo, una riflessione sempre più urgente: quale spazio resta all’intelligenza umana? E soprattutto, che tipo di umanità vogliamo custodire e trasmettere in un mondo dove le macchine iniziano a “pensare”? A porre queste domande non sono filosofi o tecnologi, ma due neuroscienziate dello sviluppo dell’Università di Padova, Daniela Lucangeli e Teresa Farroni, che da prospettive complementari propongono una lettura scientifica, critica e responsabile del rapporto tra IA e mente.
Lucangeli affronta il tema partendo non dalla tecnologia, ma dall’essere umano. Per lei, l’intelligenza artificiale può essere un’opportunità straordinaria, ma solo se interrogata nella sua interazione con le emozioni, i bisogni affettivi e i meccanismi profondi del cervello. In particolare, non insiste soltanto sugli aspetti emotivi in senso ampio, ma si concentra sul processo limbico, ovvero su quella parte antica del cervello responsabile della regolazione affettiva, sulla sua forza di reazione alle modifiche di sprogrammazione dei circuiti emozionali ed affettivi che sono alla base di tutti i principali effetti sull’umore che si sta vedendo accadere. Secondo Lucangeli, la mente umana non è un sistema isolato né meccanico: si sviluppa nella reciprocità e nella sincronizzazione emotiva con l’altro. La tendenza a delegare sempre più funzioni educative e relazionali alla tecnologia è, per lei, un errore concettuale che rischia di minare le basi stesse dell’apprendimento e dello sviluppo psicologico. Parallelamente, la paura di essere sopraffatti dall’intelligenza artificiale rappresenta una forma di intelligenza biologica, un campanello d’allarme che segnala la necessità di responsabilità e discernimento.
Farroni, partendo dagli stessi modelli neurofunzionali, adotta uno sguardo più modulativo, riconoscendo che un uso equilibrato e consapevole del digitale può generare anche effetti positivi. Anche lei sottolinea che il cervello umano non elabora le informazioni come un computer asettico: è plastico, adattivo, e capace di apprendere da pochi stimoli contestualizzati. Tuttavia, nel quadro della sua ricerca, Farroni evidenzia come le tecnologie possano supportare – se ben integrate – alcuni processi cognitivi e persino potenziare la ricerca neuroscientifica, permettendo di modellizzare e stimolare molti meccanismi e funzioni cerebrali complessi.
Entrambe le studiose convergono su un punto fondamentale: la tecnologia, per quanto potente, non potrà mai sostituire la complessità dell’intelligenza umana, ma può affiancarla, potenziarla, a patto che sia l’essere umano – e non l’algoritmo – a guidare il processo. L’educazione si configura così come il terreno cruciale. Lucangeli denuncia l’abuso di dispositivi digitali tra bambini e adolescenti, sottolineando come questo stia già modificando circuiti cerebrali fondamentali legati all’attenzione, alla motivazione e alla capacità relazionale. Fenomeni come il “digital babysitting” o il “parental fubbing” – ovvero l’uso costante dello smartphone da parte dei genitori in presenza dei figli – ostacolano lo sviluppo delle capacità empatiche e regolative. Il contatto umano, la reciprocità degli sguardi, la sintonia affettiva restano insostituibili per lo sviluppo sano del cervello.
Farroni, in parallelo, ricorda che il cervello umano è un sistema a basso consumo energetico, capace di elaborare simultaneamente milioni di stimoli e di reagire con flessibilità all’imprevisto – qualità ancora lontane dalle attuali capacità dell’IA. Tuttavia, proprio in virtù della sua complessità, il cervello può anche beneficiare di un supporto tecnologico mirato, soprattutto nei contesti di apprendimento e ricerca, purché sempre orientato da un’etica della cura e della consapevolezza. Il nodo centrale, allora, non è opporre esseri umani e macchine, ma chiedersi che tipo di relazione vogliamo costruire tra intelligenze artificiali e intelligenze umane. La questione è eminentemente educativa ed etica: si tratta di proteggere la qualità delle relazioni, l’equilibrio emotivo delle nuove generazioni, la capacità critica e la profondità affettiva che definiscono la nostra umanità.
Per Lucangeli, è necessario ripristinare la dimensione affettiva dell’apprendimento, mentre Farroni invita a studiare con più attenzione gli effetti neurologici e cognitivi dell’immersione digitale, per favorire un uso realmente formativo delle tecnologie. La tecnologia non è mai neutra: la sua efficacia, come la sua pericolosità, dipende da come e perché viene utilizzata. Nessuna innovazione, per quanto sofisticata, ha valore se ci allontana dall’essenziale: la relazione umana, il rispetto del tempo biologico, la cura della mente e delle emozioni.
L’intelligenza artificiale non è la nemica dell’uomo, ma può diventarlo se l’uomo dimentica sé stesso. È dunque necessario un nuovo patto tra tecnologia e umanità, in cui l’IA non prenda il posto della mente umana, ma ne amplifichi il potenziale, mantenendo però fermo il principio che solo l’essere umano possiede la capacità di dare senso.
Solo così potremo convivere con le macchine senza esserne dominati.
Solo così l’intelligenza artificiale potrà realmente aiutarci a essere più umani – e non meno.
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