Governance AI: l’effetto Pechino rompe gli equilibri globali

L’AI non è solo una tecnologia di frontiera: è un campo di battaglia regolatorio e strategico:

  • gli Stati Uniti vedono l’AI come la nuova corsa all’atomo,
  • l’Unione Europea come il banco di prova per riaffermare i diritti fondamentali nell’era digitale,
  • la Cina come un’infrastruttura utile a sostenere crescita, profitto e controllo sociale.

In mezzo a queste visioni divergenti, il resto del mondo deve scegliere quale modello adottare, con conseguenze profonde per mercati, democrazie e società civili.

Indice degli argomenti

Dalla California a Pechino: l’evoluzione degli standard globali

Nel corso degli ultimi decenni, la competizione internazionale sulla regolazione economica ha prodotto concetti destinati a entrare nel lessico globale. L’effetto California descriveva come standard severi in un mercato competitivo potessero innescare una corsa verso l’alto, mentre l’effetto Bruxelles celebrava la capacità dell’Unione Europea di estendere le proprie regole oltre i confini comunitari, imponendole di fatto come standard mondiali.

Oggi, la domanda che si impone è se stiamo assistendo alla nascita di un effetto Pechino, con la Cina pronta a definire un modello alternativo per la governance dell’intelligenza artificiale. Il momento simbolico di questa trasformazione è stato il rilascio di DeepSeek-R1, un modello linguistico avanzato sviluppato con risorse limitate rispetto ai giganti americani, ma capace di offrire prestazioni competitive. La sua comparsa ha incrinato la convinzione che le sanzioni e i vincoli imposti dagli Stati Uniti sui semiconduttori avanzati potessero rallentare in modo decisivo la corsa cinese. Come avevamo raccontato, DeepSeek-R1 è stato addestrato con una potenza di calcolo circa dieci volte inferiore a quella di GPT-4, ma con un’efficienza tale da avvicinarsi ai benchmark internazionali. La stampa americana ha parlato di un vero e proprio “Sputnik moment”, in grado di incrinare l’idea di un primato tecnologico americano inattaccabile. Ma la strategia di Pechino non è quella di primeggiare a ogni costo.

L’approccio cinese è pragmatico: produrre tecnologie “abbastanza buone”, diffuse capillarmente e a costi contenuti, sfruttando l’accesso a elettricità economica e a una macchina propagandistica che promuove l’adozione rapida.

Un’analisi del Carnegie Endowment The Other AI Race: An Export Promotion Strategy for the Global South | Carnegie Endowment for International Peace ha sottolineato come la Cina stia puntando soprattutto ai mercati emergenti, dove il fattore prezzo è decisivo. eepSeek-R1 è stato reso disponibile come modello completamente open-source sotto licenza MIT, permettendo a università, startup e governi con risorse limitate di utilizzare, modificare, derivare e distribuire il modello liberamente, favorendo così una democratizzazione dell’accesso all’AI avanzata. L’obiettivo non è necessariamente scalzare gli Stati Uniti dal vertice, ma occupare con tempestività lo spazio dei mercati emergenti e dei Paesi che cercano soluzioni a basso costo. In questo senso, la Cina propone una governance fondata non sulla tutela dei diritti, ma sulla convergenza tra profitto, convenienza e ordine sociale.

DeepSeek e la strategia cinese dei mercati emergenti

Come sottolinea Angela Huyue Zhang in uno studio della University of Southern California, le autorità combinano controlli rigidi sull’informazione con un’applicazione blanda delle regole su privacy e copyright. I tribunali stessi rivendicano sentenze volte a favorire l’accelerazione dell’AI nazionale, mentre i dataset governativi vengono messi a disposizione delle imprese per potenziare i sistemi di riconoscimento facciale o altre applicazioni strategiche. È un modello che si presenta come industrialmente efficiente, ma che solleva interrogativi profondi sulla direzione presa dall’innovazione.

Censura algoritmica e controllo sociale nell’AI cinese

Il lato oscuro di questa traiettoria è evidente.

Come documentato in un’inchiesta di aprile 2025, la Cina sta sfruttando modelli linguistici non solo per alimentare l’innovazione, ma anche per rafforzare la propria macchina censoria. I dataset trapelati mostrano oltre 133.000 esempi di contenuti classificati come “sensibili”, dalla corruzione alla povertà rurale, fino a Taiwan e all’ironia politica, che alimentano modelli capaci di intercettare e neutralizzare preventivamente il dissenso. DeepSeek incorpora filtri a livello di addestramento, tanto da evitare deliberatamente riferimenti alla Rivoluzione Culturale o a Piazza Tiananmen, pur discutendo senza problemi eventi come la strage di Kent State negli Stati Uniti. Qui l’AI non è solo infrastruttura economica, ma strumento di governo autoritario, un apparato predittivo che sostituisce al filtro reattivo un controllo proattivo e invisibile.

Il divario degli investimenti tra le tre potenze

Il confronto con gli altri poli globali rende ancora più chiaro il quadro. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha scelto una linea di competizione frontale, trasformando l’AI in un nuovo terreno di supremazia strategica e minacciando dazi contro chiunque tenti di regolamentare le big tech americane.

In Europa, l’AI Act rappresenta l’ambizione di costruire un modello alternativo, centrato sui diritti fondamentali e sulla trasparenza degli algoritmi, ma rischia di apparire lento e marginale rispetto alla velocità con cui si muovono gli altri attori. Diversi studi hanno evidenziato come il divario di investimenti sia già significativo.

Secondo il CSIS, nel 2024 gli investimenti privati statunitensi nell’AI hanno raggiunto i 109 miliardi di dollari, mentre la Cina si è fermata attorno ai 9-10 miliardi e l’Europa a circa 14-15 miliardi. L’Osservatorio CPI dell’Università Cattolica conferma queste cifre, sottolineando un rapporto di oltre dieci a uno tra USA ed Europa. ICT Security Magazine ha evidenziato lo stesso squilibrio, con un divario di circa dodici volte tra gli Stati Uniti e la Cina.

Nel complesso, il quadro mostra una supremazia americana negli investimenti, un’Europa ancora marginale e una Cina che, pur con meno risorse private, compensa con un impegno diretto e crescente dello Stato, stimato in decine di miliardi di dollari a supporto della strategia nazionale sull’AI.

Tre scenari per il futuro della governance dell’AI

L’egemonia americana. Gli Stati Uniti riescono a mantenere un vantaggio tecnologico decisivo grazie agli investimenti massicci, alla leadership delle big tech e a una politica aggressiva di contenimento. L’AI diventa un’estensione del potere geopolitico americano, con standard imposti attraverso il soft power tecnologico e commerciale. In questo scenario, l’Europa resta ai margini, mentre la Cina fatica a superare le barriere politiche e di fiducia dei mercati occidentali.

L’effetto Pechino. La Cina riesce a consolidare la sua strategia di diffusione rapida e a basso costo, conquistando i mercati emergenti e offrendo pacchetti integrati di tecnologie AI. La logica del “good enough” si impone come standard globale, anche perché più accessibile per la maggioranza dei Paesi. In questo scenario, l’AI diventa una utility diffusa, ma al prezzo di una crescente erosione dei diritti individuali e di un consolidamento dei regimi autoritari.

La frammentazione regolatoria. Nessun modello prevale in modo assoluto. Il mondo si divide in tre blocchi: l’America con il suo approccio competitivo, l’Europa con il suo modello normativo e la Cina con la sua governance autoritaria ed efficiente. I Paesi terzi oscillano tra le diverse influenze, adottando soluzioni ibride. In questo scenario, la governance dell’AI diventa lo specchio della geopolitica multipolare del XXI secolo, con tutte le incertezze e i rischi di conflitto che ne derivano.

La domanda finale non è più soltanto chi guiderà l’innovazione tecnologica, ma quale modello di governance dell’AI verrà adottato su scala globale. La posta in gioco non riguarda solo il futuro dei mercati, ma la qualità della democrazia, la libertà dei cittadini e l’architettura stessa del discorso pubblico nel XXI secolo.

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“Tempo fuori luogo” è il titolo di un noto romanzo che, a sua volta, richiama le parole di Amleto, mentre si chiede – dopo il dialogo con lo spettro del padre – se spetti proprio a lui rimetterlo in sesto. E tuttavia, è anche una definizione possibile, forse la più aderente, del tempo presente: complesso, straniante, ma anche fondativo, perché percorso da uno dei più grandi mutamenti antropologici che la storia possa annoverare: quello indotto dall’IA. La “crisi” (etimologicamente “separazione”, ma anche “scelta” e “giudizio”) che, per Koselleck è tratto distintivo del moderno, caratterizza infatti, ancor più, l’oggi, come momento di distinzione e passaggio, appunto, tra un prima e un dopo e di scelta tra più opzioni e più direzioni. Un tornante della Storia in cui si scrive il futuro e si assume la responsabilità di governarlo. I dati sono la materia di questa rivoluzione e proteggerli significa garantire che sia l’innovazione al servizio della persona, non viceversa.Papa Leone XIV ha dichiarato di aver scelto il proprio nome anche rifacendosi alla figura di Leone XIII che, nell’enciclica Rerum Novarum, aveva trattato, con lungimiranza, le questioni connesse al mutamento sociale indotto dalla rivoluzione industriale. Tale scelta è stata motivata richiamando, tra l’altro l’esigenza, per la Chiesa, di offrire oggi il proprio insegnamento sociale a fronte della rivoluzione, non solo industriale! dell’i.a.E quando, tra le ragioni della scelta del nome di un Pontefice concorre anche il bisogno di governare le sfide lanciate all’umanità dalla tecnologia, essa non appare più solo tale, ma costituisce un fattore d’incidenza determinante sulla stessa antropologia sociale. Erano stati, del resto, già denunciati i rischi dell’algocrazia richiamandosi, anche in occasione dello scorso G7, un profondo bisogno di “algoretica”, ossia di un’impostazione etica nel governo della tecnica, con senso del limite e rispetto del primato della persona. Si avverte, sempre più forte, l’esigenza di porre, al centro del processo d’innovazione l’uomo, con i suoi diritti e le sue libertà, perché non divenga – richiamando Paul Valéry- schiavo della stessa potenza che ha creato.Questo bisogno cresce ogni giorno di più, parallelamente alla diffusione, capillare e rapidissima dell’i.a. che, soltanto pochi anni fa, poteva apparire un’idea quasi asimoviana, talmente lontana e futuribile da non suscitare l’interesse se non dei pochissimi addetti ai lavori. L’i.a. si delinea invece, oggi, sempre più quale “general-purpose technology”: tecnologia suscettibile di influenzare un intero sistema economico, su scala ovviamente non solo nazionale.L’utilizzo dell’intelligenza artificiale si estende infatti, in misura crescente, negli ambiti più diversi della vita sociale. L’Onu stima nel 40% dei posti di lavoro la probabile ricaduta occupazionale dell’i.a., con un mercato globale che in questo settore potrebbe raggiungere i 4,8 trilioni di dollari, pari circa all’economia tedesca, sia pur con una significativa curvatura oligopolistica (solo 100 aziende, principalmente tra Stati Uniti e Cina, partecipano del 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo).Nel settore sanitario l’i.a. promette un significativo miglioramento nella qualità e nell’efficacia della cura e della diagnosi. Se “FaceAge” consente di analizzare le foto del viso per stimare le probabilità di sopravvivenza dei pazienti oncologici, un nuovo modello algoritmico potrà leggere la “materia oscura” del Dna. Per la prima volta un robot è riuscito a eseguire un intervento chirurgico su un simulatore di paziente senza ricorrere ad alcun contributo umano. E se la fiducia dei pazienti nell’i.a cresce (fino al 33%), nel 36% dei casi si teme che essa possa pregiudicare il rapporto con il medico o addirittura sostituirlo (29%). Si apprezzano, da questo punto di vista, la riserva di decisione in capo al medico e il divieto di selezione nell’accesso alle cure secondo criteri discriminatori, sanciti dal d.d.l. sull’i.a.Il Consiglio d’Europa, con una recente raccomandazione, sottolinea come un uso attento dell’i.a. in carcere possa contribuire a migliorare le condizioni di vita dei detenuti, anche superando la distanza tra “il dentro e il fuori”, a condizione che l’algoritmo non divenga giudice della persona e non le si sostituisca.Nell’arco di poco più di un anno e mezzo l’i.a., in particolare generativa, è stata così protagonista di una vera e propria rivoluzione non soltanto tecnologica ma, in senso ampio, sociale, culturale, politica, antropologica.. Oggi chiunque di noi ha la possibilità di avvalersi dell’i.a. per qualunque ricerca, pur con il rischio dell’effetto-ancora, ovvero della tendenza ad affidarvisi senza alcun senso critico né volontà di approfondimento, con un approccio quasi oracolare. Ricerche recenti dimostrano come il 66% dei dipendenti che utilizzano l’i.a. generativa per ragioni professionali si affidino al risultato da essa proposto senza valutarne l’accuratezza. Non solo.Tra l’urgenza della cronaca e il “rumore della storia”, l’i.a. si insinua nella tattica bellica, alimentando la guerra algoritmica nel dominio cognitivo, con manipolazione di contenuti, deterrenza digitale e narrazioni polarizzanti. Si stanno sviluppando caschi integrati con realtà aumentata e i.a. per potenziare le capacità sensoriali dei soldati. In Ucraina il sistema Delta fornisce analisi strategiche predittive utili a orientare l’azione difensiva, mentre in Israele Red Alert elabora modelli predittivi per anticipare i tempi di evacuazione, a tutela dei civili. Benché non sostituisca l’uomo, l’i.a. ne orienta, dunque, le decisioni persino su di un terreno così drammaticamente umano come quello bellico, fatto di carne e sangue, che nessun algoritmo può cancellare.Indice degli argomenti
A nostra immagine e somiglianza/ Metis e nous/Eros e thanatos/le domande di Aurora/l’amico empatico/Gli incomparabili benefici che, potenzialmente, l’i.a. può offrire possono risolversi in pericoli intollerabili in assenza della necessaria consapevolezza che ne esige l’uso.Questo vale soprattutto per i minori che, come “nativi digitali”, intessono con le neotecnologie un rapporto quasi osmotico, con indubbi benefici (si pensi soltanto allo sconfinato patrimonio d’informazioni dischiuso da un solo click) ma anche, talora, rischi notevoli. In due soli anni sono, infatti, cresciuti del 380% i casi di uso d’i.a. per creare materiale pedopornografico, talora a partire da immagini reali cedute dietro ricatto dagli stessi minori, con un’esposizione di adolescenti cresciuta del 35% per i ragazzi e del 67% per le ragazze nello stesso arco temporale.L’ età adolescenziale si conferma, del resto, delicatissima non solo per il rischio di dipendenza da dispositivi digitali ma anche per l’esposizione al bullismo e, soprattutto, al cyberbullismo. Secondo stime Istat, quest’ultimo risultava incidere, già nel 2023, sul 34% degli adolescenti (in particolare stranieri) e rispetto a tale fenomeno, proprio in ragione della sua gravità, la tutela accordata dal Garante interviene con la massima rapidità. Per prevenire bullismo e discorsi d’odio è, tuttavia, indispensabile un’educazione dei giovani alle relazioni (anche on-line) e al rispetto: non a caso scelta come parola dell’anno dalla Treccani.Non solo le piattaforme e i social, ma anche l’i.a. generativa innerva profondamente le vite degli adolescenti. Per questa ragione è importante che l’accesso a tali dispositivi e, più in generale, alla rete, non avvenga in solitudine e in assenza della necessaria “pedagogia digitale”, comunque eludendo i limiti di età previsti normativamente per un consapevole consenso digitale.Ora, non si tratta tanto, né solo, di innalzare questi limiti che, in un contesto di digitalizzazione della vita sin dalla pre-adolescenza, rischierebbe di aumentare la distanza tra la realtà e la norma, rendendola ineffettiva. Ciò su cui è necessario il massimo rigore è-come dimostra l’azione del Garante sul punto- il rispetto degli obblighi di age verification e, soprattutto, una comune allenza delle istituzioni e delle comunità educanti per la promozione della consapevolezza digitale dei minori. La scuola, le scuole, stanno facendo molto; il Garante è al loro fianco in quest’ attività di formazione della cittadinanza digitale.Per molti adolescenti i chatbot sono, del resto, divenuti ormai delle vere e proprie figure di riferimento (Replika si autodefinisce “l’amico empatico”). Addirittura alcuni sviluppano una sorta di legame affettivo, empatico con questi chatbot anche in ragione del loro tono spesso eccessivamente lusinghiero, assolutorio, consolatorio e del loro configurarsi come un approdo sicuro in cui rifugiarsi, al riparo dal giudizio altrui. E’ quello che viene definito il loop dell’empatia infinita, che genera appunto dipendenza spingendo a svalutare, per converso, i rapporti umani (che appaiono troppo complessi e poco satisfattivi), inducendo così all’isolamento. Sono agli atti delle indagini per la tragica scomparsa di una giovanissima ragazza le domande da lei rivolte a ChatGpt sulla “tossicità” dell’amore e sulla relazione sentimentale. E’ significativo che in Florida penda un giudizio sull’imputabilità a un chatbot del suicidio di un ragazzo 14enne, che con l’assistente virtuale aveva sviluppato un rapporto talmente intenso da considerarlo equivalente a quello con una persona, con una pericolosa sostituzione della figura dell’altro. Di cui, tuttavia, il robot non possedeva e non può possedere l’intelligenza emotiva, la capacità di cogliere la fragilità psicologica dell’interlocutore necessaria, tra l’altro, per dissuaderlo, appunto, da gesti estremi.Per quanto creato a immagine e somiglianza dell’uomo, infatti, il robot può certamente sviluppare, la metis ma mai la nous. Su questo terreno si arresta la capacità mimetica – non più soltanto protesica – dell’i.a. E se l’identità è nella relazione, i rapporti intessuti con i robot rischiano di alterare profondamente la stessa identità individuale e la percezione dell’altro.Esistono persino “deadbot”, ovvero chatbot che riproducono voce e volto dei defunti, rispetto ai quali si rischia di sviluppare una proiezione affettiva che giunga a confondere persino i confini della vita. L’i.a. s’insinua, così, persino nei due fuochi dell’esistenza individuati da Freud in eros e thanatos: le pulsioni fondamentali dell’uomo.E proprio in quanto capace, prima e oltre che colmarne le carenze, di simulare l’uomo e la sua razionalità, fino appunto a sostituirlo nella relazione affettiva, l’i.a. è protagonista di un vero e proprio mutamento d’epoca, in cui il mondo è intermediato da algoritmi che plasmano la percezione individuale e sociale, l’opinione pubblica, il pensiero.Il genere dell’algoritmo Ritenendolo neutro, all’algoritmo si affidano scelte progressivamente più importanti, attendendosene prevedibilità e infallibilità ma sottovalutandone, spesso, il potere trasformativo e l’attitudine a cristallizzare, talora, i pregiudizi di chi lo progetta. La stessa selezione, generalmente non neutra dei contenuti, da parte dell’i.a., può avere implicazioni importanti sulla formazione dell’opinione pubblica, della coscienza sociale, persino della memoria storica o dell’identità collettiva con il rischio di eludere le garanzie fondative della costruzione democratica.E non sono irrilevanti i bias di genere da cui sono affetti gli algoritmi che, anziché superare rischiano di perpetuare condizioni di discriminazione radicate. L’algoritmo non riflette, infatti, imparzialmente tutto il sapere del mondo ma, anzi, può ben riprodurre gli stereotipi e i pregiudizi sottesi, più o meno implicitamente e consapevolmente, al nostro pensiero, fotografando una realtà diseguale, iniqua come se essa fosse valida sempre, dunque elevando l’eccezione a regola.Come chiarisce il Politecnico di Torino, infatti, se “la parola uomo capita vicino alla parola dottore più spesso di quanto capiti vicino alla parola infermiere e, viceversa, se la parola donna è accostata più spesso alla parola infermiera, il modello imparerà che la donna è l’infermiera e l’uomo il medico”. Il che vorrebbe dire cancellare decenni, se non secoli, di lotta per l’emancipazione femminile. Dobbiamo, allora, insegnare agli algoritmi che la donna ben può essere medico e l’uomo ben può essere infermiere e utilizzare, anzi, la tecnologia perché promuova le nostre libertà, anzitutto superando ogni forma di discriminazione.Gli algoritmi sono poi spesso utilizzati per produrre deepfake, generalmente in danno di donne o minoranze; di coloro i quali sono ritenuti, per natura, rappresentazione o circostanza, più fragili. Anche per questa ragione, il Garante è intervenuto, nel corso dell’anno, rispetto a istanze di tutela inerenti la temuta diffusione di immagini artefatte mediante i.a., espressiva di una forma di prevaricazione ulteriore rispetto al sextortion e al revenge porn, che ha impegnato l’Autorità in 823 procedimenti nel 2024.Ciò che rende ulteriormente più complessa l’intelligenza artificiale è, del resto, oltre all’attitudine emulativa, mimetica della razionalità umana, la sua capacità di sviluppo, almeno in parte, autonomo, tale da “deviare” dal modello progettato (“disallineamenti emergenti”). E’ noto il caso di un algoritmo che, nell’84% delle simulazioni volte appunto a testarne l’allineamento, ha tentato di ricattare l’ingegnere (ipotetico) che ne avrebbe prospettato la disattivazione, minacciando di rivelare indiscrezioni sulla sua vita privata.Come nei paradigmi letterari più ricorrenti il robot si emancipa, dunque, dal suo creatore ribellandoglisi addirittura. Il rischio diviene tanto maggiore, naturalmente, ove la deviazione (ad esempio con la fornitura di indicazioni sulla fabbricazione di armi o sull’uso di violenza) riguardi presupposti essenziali di sicurezza e incolumità. Di qui l’importanza di normative, quali quelle europee di protezione dati e sull’i.a., che impongono verifiche periodiche sul grado di rischio per i diritti umani connesso all’uso delle tecnologie, garantendone sempre la supervisione umana. Per questa ragione, l’approccio umanocentrico della disciplina europea- è, per quanto perfettibile- quello maggiormente coerente con una democrazia personalista e quell’etica della responsabilità cui alludeva Max Weber.La protezione dei dati – tutelando la componente più profondamente “umana” dell’innovazione; la materia viva del digitale- è l’elemento fondativo di quest’impostazione; il principale argine a un esercizio illiberale e irresponsabile del potere; oggi, appunto, sempre più digitale, con la sua “bulimia di mezzi e atrofia di fini” .La verticale del potereSe il potere, con Carl Schmitt, è anzitutto definizione di identità, quello “ingiuntivo”, esercitato da algoritmi e piattaforme con la profilazione, la selezione e talora l’alterazione dei contenuti, si dimostra sempre più incisivo e decisivo nelle dinamiche democratiche. I dati ridefiniscono l’idea di sovranità e il confine tra pubblico e privato, potere e supremazia, mentre l’i.a. diviene il fulcro della competizione geopolitica. “Il suddito ideale del regime totalitario” è, ricordava Hannah Arendt, colui per il quale sfuma la “differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso”. Emerge dunque, in tutta la sua urgenza, il pericolo del ricorso a deep fake o sedicenti post-verità: una vera propria sfida per le democrazie, sempre più esposte al rischio della degenerazione autocratica. Così, nel momento in cui Meta rifiuta il fact-checking e il controllo delle piattaforme si dimostra componente centrale della geopolitica, baricentro dei suoi rapporti di forza, il digitale si delinea sempre più come un potere da includere, come tale, nel principio di separazione. Lo ha inteso l’Europa che, con il Gdpr e le altre norme sul digitale, ha tracciato il “Nomos der Erde” della geopolitica dei dati, comprendendone fino in fondo il valore e fondando sulla regolazione la propria sovranità digitale. Significativo, in tal senso, il valore politico riconosciuto, dalle varie Amministrazioni americane succedutesi dalla sentenza Schrems, agli accordi Europa-Usa sul trasferimento dei dati, nella consapevolezza di come al mercato europeo non possa accedersi senza rispettarne le regole. Speculare anche la tendenza al “cloud repatriation”, ovvero all’ emancipazione, da parte europea, dalla dipendenza americana nel controllo dei dati di aziende e istituzioni, oggi vincolato al 70% alle big tech.Parte essenziale della strategia europea di governo del digitale è anche la regolazione dell’altrimenti illimitato potere privato delle piattaforme, comprensiva oggi anche del Regolamento sul targeting politico.Esso assegna alle Autorità di protezione dei dati un ruolo rilevante nell’impedire che la profilazione e la conseguente selezione “targettizzata” dei contenuti alteri le più essenziali dinamiche democratiche. Alle piattaforme- i “mercanti dell’attenzione” cui allude Tim Wu, si rischia infatti altrimenti di delegare, con la legge del mercato, la definizione delle nostre libertà e l’esercizio della democrazia, ridisegnando una nuova “verticale del potere” al di fuori delle garanzie dello Stato di diritto. Quest’esigenza di redistribuzione del potere muove dalla consapevolezza di come la rinuncia all’introduzione di una forma, sia pur limitata, di responsabilizzazione dei poteri privati rifletta uno slittamento dell’idea di libertà su quella di anomia, quando l’assenza di regolazione non produce eguaglianza ma subalternità agli imperativi del mercato.Ed è proprio questo effetto distorsivo, anzitutto in termini democratici, che la regolazione europea del digitale, pur tra inevitabili ombre e luci, mira a contrastare, ridisegnando il perimetro dei poteri privati e ponendo la tecnica al servizio della persona. E’ questa la strada su cui proseguire, tenendo insieme innovazione, iniziativa economica, tutela della persona.Se è vero, del resto, che l’Europa, sul piano interno, ha fondato la propria identità sul diritto e non sul potere, è altrettanto vero che nelle relazioni internazionali – e nel digitale soprattutto – ha tentato di affermare il proprio potere sul diritto, delineando una terza via tra protezionismo cinese e neo-mercantilismo americano. Così anche per l’i.a., attorno alla quale l’AI Act tenta di far convergereprogresso e libertà, in un progetto di governo dell’innovazione in cui la protezione dei dati assume un ruolo centrale.I dati personali sono infatti, oggi il peso specifico della libertà; parametro e condizione, al tempo stesso, delle garanzie democratiche.E’ significativa, in questo senso, la riserva di competenza sancita, dall’Ai Act, in favore delle autorità di protezione dei dati, rispetto all’uso di sistemi di i.a. ad alto rischio in ambiti sensibili quali, in particolare, quelli delle attività di contrasto, gestione delle frontiere, giustizia e democrazia. Nell’esercizio della delega legislativa di adeguamento dell’ordinamento interno all’Ai Act, tale riserva di competenza dovrebbe essere valorizzata, anche con la previsione di un meccanismo agile ed efficace di coordinamento tra le istituzioni, a vario titolo coinvolte, nella complessa gestione dell’i.a.La frontiera digitaleL’enorme mole di dati connessa al funzionamento dell’i.a. rende, proporzionalmente, sempre più rilevante l’esigenza di tutela della sicurezza dei dati stessi e dei sistemi che li ospitano: quella digitale è ormai, infatti, la frontiera più delicata e vulnerabile (perché mobile, dinamica, immateriale) dei Paesi. Si pensi all’esplosione, in Libano, dei cercapersone dei miliziani di Hezbollah, imputabile probabilmente a un malware mai così fatale. Si tratta di un esempio dei più paradigmatici di quanto permeabile possa essere il confine virtuale da difendere, da attacchi asimmetrici e pulviscolari. Non di rado, poi, le informazioni illecitamente carpite sono rivendute a caro prezzo e per scopi i più vari, alimentando un mercato dei dati che trae forza proprio dalle vulnerabilità informatiche.I dati del Clusit evidenziano le vulnerabilità che caratterizzano, spesso, le infrastrutture del sistema-Paese- inteso nella duplice componente del settore privato e di quello pubblico- sulle quali l’attenzione del Garante è, non da ora, massima.Il processo di digitalizzazione (soprattutto, ma non solo) delle pubbliche amministrazioni è avvenuto infatti, in Italia, in maniera fortemente disomogenea e, soprattutto, al di fuori di un progetto organico e trasversale. Lo sviluppo maggiore della digitalizzazione si è riscontrato, in particolare, durante la pandemia e, quindi, con il PNRR, che lo ha incluso tra i suoi obiettivi principali. Tuttavia, non sempre la spinta all’innovazione è stata sostenuta da una consapevolezza adeguata dei rischi che essa, se non ben governata, comporta. Di qui, anche, le vulnerabilità dei sistemi informativi, che sono tanto di natura tecnologica (la tecnica evolve sempre più velocemente delle procedure amministrative in cui è inscritta) quanto imputabili al “fattore umano”.Appare, così, sempre più necessaria l’introiezione, da parte del personale del settore pubblico e di quello privato, di una complessiva cultura della protezione dei dati. Ciascuno deve essere consapevole della rilevanza della propria azione per la garanzia della sicurezza della “frontiera digitale” del Paese: fa parte di quella cultura del digitale senza la quale nessuna strategia di tutela è possibile. Questa consapevolezza è il presupposto ineludibile per riforme che siano non soltanto e mera innovazione tecnica, ma che sanciscano invece un reale progresso in termini di libertà e di garanzie democratiche. Del resto, se il digitale è un bene comune, per non essere vittima della tragedia di Hardin necessita non di un Leviatano, ma di un governo lungimirante e di un impegno quantomai collettivo a sua tutela.Sebbene le criticità ancora non manchino il Garante ha, sinora, svolto un’azione importante di prevenzione delle vulnerabilità informatiche e contribuito alla messa in sicurezza di moltissime banche dati anche strategiche, pubbliche e private. La disciplina di protezione dei dati – permeata dal principio di responsabilizzazione, che onera i titolari di un ruolo anche pro-attivo di tutela – ha rappresentato, in questo senso, uno stimolo importante al rafforzamento delle garanzie, non solo tecniche, nella gestione dei dati e nel rischio “sociale” ad essa connesso. Le vulnerabilità cui possono essere esposti patrimoni informativi, talora anche di cruciale rilevanza possono avere, infatti, implicazioni importanti in termini di sicurezza nazionale e pubblica oltre che di riservatezza individuale, tanto più alla luce della diffusione dell’i.a. che si avvale di quantità di dati notevolissime per addestrare i propri sistemi.L’impatto potenziale di tali fenomeni è apparso plasticamente evidente con la diffusione, lo scorso autunno, di notizie inerenti presunti dossieraggi svolti mediante accessi abusivi a banche dati sia pubbliche che private. Il Garante ha tempestivamente costituito una specifica task-force interdipartimentale, per contrarre i tempi istruttori e semplificare taluni passaggi procedurali, così da coniugare efficacia e rapidità dell’accertamento. Le notizie sui presunti dossieraggi hanno restituito, con plastica evidenza, il valore della privacy che troppo spesso si sottovaluta e che, tuttavia, non può essere apprezzato solo nel momento della patologia. Serve agire (e proteggersi) prima.E’ necessario che ciascuno si faccia portatore di quella cultura della privacy che renda il rispetto della norma un’attitudine, un vantaggio competitivo e non un mero onere burocratico.Vecchie e nuove vulnerabilitàLa diffusione della cultura della protezione dei dati è, del resto, tanto più necessaria in un ambito, quale quello sanitario, in cui massima è l’esigenza di coniugare condivisione delle informazioni a fini di ricerca, governance sanitaria ed efficienza diagnostica e protezione di dati espressivi di una fragilità del corpo o della psiche. Questa tensione riflette, del resto, la natura complessa del diritto alla salute, nell’art. 32 della Carta non a caso descritto come diritto fondamentale, tanto quanto interesse della collettività.Analoga complessità è propria del diritto alla protezione dei dati personali: diritto sancito come fondamentale dalla Carta di Nizza ma, anche, caratterizzato da una “funzione sociale” espressa con nettezza dal Gdpr. Questo parallelismo tra pubblico e privato, individuale e collettivo caratterizza tutta la questione dell’innovazione in sanità. Mai come oggi essa è, infatti, percorsa dalla tensione tra data sharing e privacy, soprattutto in un contesto di costruzione dello Spazio europeo dei dati sanitari fondato, nel Regolamento da poco approvato, proprio sulla valorizzazione delle informazioni sanitarie e sulla loro condivisione a fini di ricerca e miglioramento delle cure.In questa prospettiva d’integrazione dei sistemi informativi sanitari degli Stati membri, è sempre più necessario investire, a livello interno, su una digitalizzazione sostenibile della sanità, che consenta di valorizzare i dati sanitari, tutelando al contempo la riservatezza del paziente.E’ questo l’obiettivo sotteso alle indicazioni fornite, dal Garante, rispetto al FSE e all’Ecosistema dei dati sanitari, volte in particolare ad assicurare omogeneità nelle garanzie accordate sul territorio nazionale, non potendo ammettersene una tutela a geometria variabile.La digitalizzazione del lavoro impone, del resto, alcune essenziali cautele per impedire che le garanzie faticosamente conquistate sul terreno giuslavoristico per riequilibrare la posizione di vulnerabilità del dipendente, siano eluse da mere scorciatoie tecnologiche. La protezione dei dati svolge un ruolo centrale nel coniugare esigenze datoriali e libertà del lavoratore, anche alla luce delle innovazioni indotte dalla gig economy, che non può degenerare in una forma di caporalato digitale.Particolarmente significativo, in tal senso, il provvedimento adottato nei confronti di una società di food delivery che organizzava il lavoro mediante piattaforma, in assenza delle necessarie garanzie per i lavoratori.Giurisdizione e informazione sono due presidi essenziali della democrazia, il cui rapporto si snoda attorno a un equilibrio delicatissimo tra indipendenza e responsabilità. Raccontare la giustizia è, quindi, un’attività tanto importante quanto complessa, nel costante tentativo di coniugare istanze molteplici quali il diritto di informazione, la “trasparenza” dell’amministrazione della giustizia, il diritto di difesa, la privacy delle parti e dei terzi a vario titolo coinvolti nel processo.Anche quest’anno, il Garante è dovuto intervenire per richiamare gli organi d’informazione al rispetto del criterio di essenzialità dell’informazione, a fronte di eccessi come nel caso della diffusione dei colloqui intercettati, in carcere, tra l’imputato di un noto femminicidio e i genitori. Il principio di essenzialità dell’informazione costituisce infatti, soprattutto in contesti di tale drammaticità, l’unico argine al rischio di sensazionalismo in cui può degenerare la cronaca giudiziaria. Per questo e per evitare una paradossale vittimizzazione secondaria, il Garante ha avvertito i media dell’illiceità connessa all’eventuale diffusione del video dell’autopsia di Chiara Poggi, oggetto di un recente provvedimento di blocco.La valutazione della reale funzionalità del dato ai fini informativi deve essere, del resto, ora condotta anche alla luce della maggiore selettività imposta dalle recenti riforme sul terreno della pubblicità degli atti di indagine. Soprattutto rispetto alle intercettazioni, sono state infatti accentuate le garanzie di riservatezza dei terzi, anche circoscrivendo l’ambito circolatorio (endo- ed extra-processuale) dei contenuti captati, a tutela della privacy di tutti i soggetti (non solo le parti) le cui conversazioni siano captate.Le esigenze di riservatezza sono, peraltro, valorizzate dalla riforma, attualmente in seconda lettura, del sequestro dei dispositivi elettronici, rispetto alla quale è importante garantire un equilibrio ragionevole tra esigenze investigative e privacy, non sacrificando in misura sproporzionata né le une né l’altra.Ragionevole appare- come abbiamo avuto modo di sottolineare alla Camera- l’equilibrio sancito dalla proposta di legge sulle persone scomparse, volta a consentire l’acquisizione dei tabulati telefonici e telematici se ritenuta necessaria per esigenze di tutela della vita e dell’integrità fisica dell’interessato. Si tratta di uno dei (molti) esempi di come la privacy, lungi dall’essere un diritto “tiranno”, prevaricatore rispetto agli altri interessi in gioco, sia invece un diritto “di frontiera”, perché tenuto a coniugare libertà e solidarietà, diritto e tecnica, dignità e sicurezza. Su quest’equilibrio dovrebbe attestarsi anche l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere, costituendo la privacy un tassello importante di quel “percorso di inveramento del volto costituzionale della pena” invocato dalla Consulta.Memoria e responsabilitàIl breve excursus di alcuni dei temi trattati dal Garante restituisce, benché solo in parte, l’idea dell’ampiezza dell’azione dell’Autorità, tenuta a tutelare la persona in ogni contesto in cui i suoi dati siano trattati: dai rapporti commerciali alla sanità, dall’istruzione al giornalismo, dalla giustizia all’immigrazione, dalla pubblica sicurezza ai social network.La garanzia di una tutela così ampia è affidata al costante e instancabile impegno di un contingente di personale ristretto ma qualificato che intendo, unitamente al Collegio e al Segretario generale, sinceramente ringraziare, per l’abnegazione e la professionalità. Ringrazio anche le Autorità che hanno inteso offrirci, in vario modo, sostegno, nonché il corpo della Guardia di Finanza, per l’insostituibile collaborazione.La trasversalità dell’impegno del Garante si riflette anche, del resto, sulla varietà delle tipologie dei provvedimenti suscettibili di adozione e che, anche quest’anno, si sono articolati in atti di natura eterogenea, tesi a modulare al meglio l’azione amministrativa sulla base delle esigenze di volta in volta emergenti.Spesso, anzi, l’efficacia della strategia sta nella sua natura integrata; nel suo coniugare, cioè, diverse dimensioni e direttrici dell’agire amministrativo. Emblematico, in questo senso, il fenomeno del telemarketing, rispetto al quale le misure sanzionatorie, pur rilevanti per entità e presupposti (in un caso di oltre sei milioni di euro), sono state affiancate da attività complementari, di natura preventiva, remediale e consultiva, non meno significative.Il Garante ha partecipato, peraltro, a numerosi tavoli di lavoro (uno anche con la Polizia di Stato, per la disciplina della videosorveglianza per fini di sicurezza integrata) e siglato diversi protocolli d’intenti (uno dei quali con l’Arma dei Carabinieri) per coordinare la propria azione con quella di altre istituzioni, realizzando proficue sinergie.Importante anche, per contenuti ed esiti, l’attività del G7 privacy promossa dal Garante lo scorso ottobre, che ha rivelato un comune sentire, sulla cui base poter fondare azioni condivise e realizzare gli impegni delineati nel piano di azione, riaffermando il valore del metodo proprio del G7: il confronto, la cooperazione, lo scambio di esperienze come migliore strumento di governo di fenomeni complessi.Si tratta di un metodo che, mai come per il digitale, è necessario adottare per poter affrontare fenomeni ontologicamente transazionali, legati a una realtà che ha superato da tempo i confini degli Stati e delle giurisdizioni e rispetto alla quale, quindi, non si può che ragionare in termini globali. Ogni regola in quest’ambito deve avere una vocazione – o, quantomeno, un’aspirazione – il più possibile sovranazionale, sostituendo orizzonti ai confini.Un dialogo ampio è stato promosso mediante una consultazione pubblica sul modello “pay or ok” utilizzato da alcuni soggetti economici, per individuare soluzioni coerenti con le esigenze sottese ma, anche, con la necessità di impedire che la monetizzazione dei dati sancisca una vera e propria patrimonializzazione delle libertà. Promuovere un confronto quanto più possibile ampio su temi importanti e fondarvi una regolazione il più possibile aderente alle istanze sociali è, infatti, il modo migliore per interpretare la protezione dei dati come cultura, comune sentire che avvicini “la vita e le regole”, per riprendere il titolo di un bellissimo libro di Stefano Rodotà. E’ questa la responsabilità che deve necessariamente bilanciare un potere, quale quello digitale, che la protezione dei dati ha il compito di porre al servizio della persona e della sua dignità. In fondo, la vera caratteristica distintiva di questo diritto rispetto al corrispondente americano del right to be left alone risiede nelle radici della storia europea e nel valore che la dignità vi ha assunto, quale reazione alla tragica esperienza dei totalitarismi.Nel governo dei dati e del loro potere si intrecciano questa consapevolezza e questa responsabilità, che il Garante assume come fondamento e obiettivo, al tempo stesso, della propria azione. Ricordando, con le parole di Josè Saramago, che siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che assumiamo.

Una governance inadeguata

Una governance inadeguata e l’implosione della scuola italiana nella quarta rivoluzione industriale

di Pietro Boccia

La scuola italiana sta implodendo principalmente per l’inadeguatezza della governance, come procedura funzionale alla crescita di un’istituzione, e della leadership, come strategia per il perseguimento di obiettivi condivisi, ad ogni livello. In Italia, anche la lingua è messa ai margini con le stupidaggini dei made in Italy, degli open day e così via. La lingua inglese, imposta dalla democrazia totalitaria degli Stati Uniti per un controllo sui Paesi europei, dovrebbe, pure in Italia, essere impiegata soltanto per comunicare con quelli che non conoscono quella italiana. Non è pensabile che la lingua italiana, la quarta maggiormente adottata a livello mondiale, in Italia, venga, invece, trascurata. Perciò, nella scuola italiana serve una rivoluzionaria e coraggiosa riforma, come è avvenuto nel 1959 negli Stati Uniti con la Conferenza di Woods Hole, coordinata da Jerome Bruner. Già negli anni Novanta del Novecento la scuola italiana incomincia ad implodere. Con il comma 16 dell’art.21 della Legge n. 59/1997 e il relativo D.lgs. n. 59/1998, l’istituzione scolastica italiana viene immersa nel processo di aziendalizzazione neoliberista, producendo un forte appiattimento e, in generale, l’ilotizzazione del personale. La quarta rivoluzione industriale e la società complessa esigono, invece, l’effettiva autonomia non solo didattica e organizzativa ma anche di ricerca, sperimentazione e sviluppo delle istituzioni scolastiche. Solo in tal modo i livelli essenziali di prestazione potrebbero essere perseguiti e raggiunti. Il pensiero di ogni cittadino, all’interno delle società complesse, deve essere fluido, flessibile e critico per acquisire una cultura all’altezza dei tempi e poter rispondere adeguatamente alle gigantesche sfide odierne. In verità, la quarta rivoluzione industriale si è ormai affermata e la scuola italiana ancora non riesce a diventarne consapevole. 

Chi è destinato alla governance delle istituzioni scolastiche, nella società di oggi, complessa e liquida, deve possedere moltissime competenze (normativa riferita al sistema educativo di istruzione e di formazione e agli ordinamenti degli studi in Italia con particolare attenzione ai processi di riforma in atto; modalità di conduzione delle organizzazioni complesse, con particolare riferimento alla realtà delle istituzioni scolastiche ed educative statali; processi di programmazione, gestione e valutazione delle istituzioni scolastiche, con particolare riferimento alla predisposizione e gestione del Piano triennale dell’offerta formativa, all’elaborazione del Rapporto di autovalutazione e del Piano di miglioramento, nel quadro dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e in rapporto alle esigenze formative del territorio; organizzazione degli ambienti di apprendimento, con particolare riferimento all’inclusione scolastica, all’innovazione digitale e ai processi di innovazione nella didattica; organizzazione del lavoro e gestione del personale, con particolare riferimento alla realtà del personale scolastico; valutazione ed autovalutazione del personale, degli apprendimenti e dei sistemi e dei processi scolastici; elementi di diritto civile e amministrativo, con particolare riferimento alle obbligazioni giuridiche e alle responsabilità tipiche del dirigente scolastico, nonché di diritto penale con particolare riferimento ai delitti contro la Pubblica amministrazione e in danno di minorenni; contabilità di Stato, con particolare riferimento alla programmazione e gestione finanziaria presso le istituzioni scolastiche ed educative statali e relative aziende speciali; sistemi educativi dei Paesi dell’Unione europea; elementi essenziali in campo socio-psico-pedagogico). Il possesso di tali competenze sono indispensabili per affrontare le numerose sfide che le istituzioni scolastiche quotidianamente sono costrette a risolvere. Oggi, la società vive la quarta rivoluzione industriale

(digitale o meglio di interconnessione e di convergenza tra la robotica, la genomica, l’intelligenza artificiale e le neuroscienze), e, in essa, si realizza pienamente la centralità non solo dell’aziendalizzazione di ogni istituzione ma anche della soggettiva imprenditorialità, attraverso il diventare ognuno imprenditore di se stesso e perfetto consumatore, destinati a sostituire i lavoratori delle precedenti rivoluzioni industriali. 

La società attuale è caratterizzata soprattutto dai processi di imprevedibilità, di velocità e di impatto immediato su tutte le discipline e su tutte le organizzazioni del lavoro. Gli effetti imprevedibili e immediati sui saperi e sul mercato del lavoro non si riesce, ancora, a comprendere e definire. Quello che è chiaro è che alcune professionalità sono destinate a scomparire. Bisogna, perciò, predisporsi, a sostituirle. La sostituzione di una professionalità con un’altra è stata storicamente normale nelle altre rivoluzioni industriali. Nella prima rivoluzione industriale agli artigiani sono subentrati gli operai; nella seconda e nella terza gli impiegati e i consumatori sostituiscono gradualmente il proletariato. Agli inizi della quarta rivoluzione industriale non solo i Paesi dell’Est, ma anche le aree del Sud del mondo sono entrate in conflitto con quelle del Nord. Tali aree calde si sono, così, dislocate, dopo la caduta del muro di Berlino, altrove. Il superamento dei conflitti armati s’intreccia, dunque, con il problema della pace e della tutela dei diritti individuali e collettivi. Le democrazie totalitarie e il capitalismo finanziario si sa che remano contro, perché sono ben consapevoli che non si può mai costruire, quando ai singoli uomini e ai popoli sono negati tali diritti, un ordine mondiale, basato sulla pace. Soltanto le pochissime teste critiche e pensanti, ancora non arruolate ai totalitarismi, sanno che i diritti individuali e collettivi devono essere riconosciuti e garantiti, attraverso una forte e condivisa istituzione sopranazionale, dal diritto internazionale, anche se ciò, oggi, purtroppo, non è nemmeno più sufficiente, giacché è emersa una nuova forma di conflitto armato, ovverosia il terrorismo. Le azioni terroristiche, imprevedibili e, a volte, immotivate, mettono in discussione non solo ogni possibilità di risolvere in maniera razionale le controversie tra le parti in conflitto, ma anche il processo di globalizzazione. I protagonisti di tali azioni sono, tuttavia, ricondotti al fenomeno della globalizzazione, perché sono identificabili e vivono nei non-luoghi, teorizzati dall’antropologo francese Marc Augé. L’attacco dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers, vale a dire contro il simbolo della moderne sofisticazioni tecniche, rappresentate da gigantesche costruzioni, ha, da un lato, segnalato l’esistenza di un nemico senza volto, che è difficile rintracciare e combattere, e, dall’altro, l’impossibilità di reagire, in maniera immediata, per trasformare l’angoscia dell’avvenire in forza positivamente propulsiva, affinché le società acquisiscano la sicurezza indispensabile per progettare e per costruire un futuro di pacifica convivenza.

La globalizzazione sta ridisegnando l’ordine gerarchico del sistema mondiale e, contemporaneamente, sta incidendo profondamente sia sulla vita quotidiana degli uomini sia sulla consapevolezza dei problemi da risolvere, che, essendo universali, devono far acquisire una responsabilità condivisa. Essa è un fenomeno complesso e si presenta, per il momento, solo come processo di integrazione economica; si auspica, però, che si diffonda anche come realtà culturale e sociopolitica. Il primo aspetto è prodotto per l’interdipendenza, a livello mondiale, tra i vari Paesi sia per l’esistenza delle multinazionali sia per l’esigenza di importazione e di esportazione delle materie prime e delle merci. Il secondo potrebbe essere rappresentato dall’integrazione culturale di alcuni popoli nei confronti di altri. Il terzo aspetto (sociopolitico) riguarda la nascita, a livello internazionale, di organizzazioni politiche (l’ONU, OCSE e così via) e sociali (OMS, UNESCO e così via). Il processo di globalizzazione ha, oggi, subito una forte accelerazione. Le spinte di liberalizzazione e di deregolamentazione, prima di tutto nel campo economico, hanno condotto, all’affermazione della concezione del neoliberismo e del capitalismo non solo totalitario, ma anche finanziario; quest’ultimo, dopo quello sperimentale (dal mondo classico al Settecento) e conflittuale (dalla prima rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino – 1989 -), è riuscito, eliminando, al suo interno la classe della borghesia illuminante e degli intellettuali della “coscienza infelice”, ad affermarsi e a diffondersi fino a diventare, annebbiando tutte le coscienze, una modalità naturale per tutti. In tal modo, i capitali e le merci, circolando liberamente, facilitano e favoriscono la formazione, a livello globale, di un unico mercato. In un simile contesto, le banche e le imprese finanziarie hanno acquisito, emarginando gli scambi culturali e le comunicazioni interpersonali, un ruolo preminente. 

I cambiamenti negli apparati degli scambi economici accentuano, invece, di eliminare, a livello mondiale, sperequazioni e contrasti tra gli uomini all’interno delle società. Circa un terzo di cittadini è, infatti, costretto a vivere in totale povertà. Diventa, quindi, necessario, come molti sostengono, un forte impegno per affrontare e risolvere una tale iniquità. Solo in tal modo, il mercato globale diventerebbe, per l’intera umanità, un’opportunità. Gli Stati devono, per conseguire un tal risultato, sostenere, tramite intese e accordi di collaborazione, il processo di globalizzazione con politiche appropriate. Diversamente si producono conseguenze devastanti, come, ad esempio, l’omologazione mondiale dei mercati, e non si riesce a determinare in modo uniforme la distribuzione delle ricchezze. Il processo di globalizzazione ha, anzi, accentuato il divario tra i Paesi ricchi e le aree povere. Oggi, nel mondo, il 18% della popolazione dispone dell’83% del reddito mondiale, mentre l’82% della restante popolazione deve accontentarsi del 17% del reddito). Per Joseph E. Stiglitz, come ha scritto in La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi editore, Torino 2002, p. 5, “se la globalizzazione non è riuscita a ridurre la povertà, non è riuscita neppure ad assicurare la stabilità”. In un recente censimento della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) si sostiene addirittura che un miliardo e trecento milioni di persone non disponga, per la propria sopravvivenza, nemmeno di un dollaro al giorno. In tal modo, solo alcuni popoli vivono e partecipano al processo di globalizzazione; altri sono, invece, costretti, proprio perché le loro società non riescono a tenere il passo delle nuove tecnologie e dell’economia mondiale, a vivere ai margini o a essere esclusi dai canali di comunicazione e dai mercati internazionali.

Nel capitalismo finanziario e totalitario, per l’avvento della tecnologia informatica e digitale, tutte le attività economiche utilizzano, per essere efficacemente presenti sul mercato, esperti nella raccolta e nell’elaborazione di informazioni. Si sono, perciò, nelle società attuali, formate élites delle reti informatiche e gerarchie tra chi le rappresenta e quelli che sono costretti a subirle. Si produce, di conseguenza, un nuovo conflitto, perché le prime, vivendo nelle loro fortezze, non hanno alcun interesse per il territorio, e i secondi, pur non avendo, per il momento, alcuna possibilità di modificare la realtà, fanno, tuttavia, pressione per migliorare la loro condizione di vita e per riuscire a entrare nel sistema. Nelle società del capitalismo finanziario e totalitario si è, attraverso il processo di globalizzazione, tanto liberalizzato il capitale quanto asservita la vita della maggior parte delle popolazioni di quelle nuove periferie che si trovano nelle aree marginali. In verità, solo il denaro e il capitale sono diventati soggetti liberi. Se, ad esempio, una multinazionale decidesse, infatti, di trasferirsi dall’Europa o dagli Stati Uniti all’Asia o in altre aree emergenti, moltissimi si troverebbero all’improvviso senza lavoro. Non si può assolutamente pensare, in tal caso, a politiche sociali dell’occupazione, perché, mentre il denaro e il capitale si trasferiscono alla velocità dei nuovi mezzi di comunicazione, gli uomini si spostano lentamente o sono costretti a vivere segregati nei loro territori. 

La spietata concorrenza sul mercato mondiale e l’apertura di nuovi canali di comunicazione nei mercati internazionali stanno producendo la scomparsa dei confini e delle barriere nazionali, perché il digitale e le reti informatiche interconnesse non hanno alcun bisogno di confini territoriali e rappresentano i valori reali della globalizzazione. Le imprese, con la globalizzazione, sono facilmente acquisite da grandi organizzazioni economiche senza patrie e transnazionali, perché hanno un’assoluta libertà di manovra, senza essere, a livello territoriale, vincolate e senza avere appartenenza culturale. Oggi le imprese globalizzate sono i colossi delle reti informatiche (Google, Facebook, Amazon e Microsoft). Esse hanno, come scrive Shoshana Zuboff nel libro Il capitalismo della sorveglianza, il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, tradotto da Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma 2019, p. 105, costruito sistemi per trasformare i comportamenti umani attraverso attività pervasive, messe in atto dal capitalismo totalitario, non sfruttando più soltanto la natura, come è avvenuto con quello dialettico, ma, con i mezzi tecnologici, anche l’essere umano, asservendolo. “Il capitalismo industriale trasformava le materie prime naturali in prodotti; allo stesso modo il capitalismo della sorveglianza si appropria della natura umana per produrre le proprie merci.

La natura umana viene raschiata e lacerata per il mercato”. Il capitalismo finanziario e totalitario, attraverso un’architettura globale, agisce, attraverso informazioni e dati, di cui entra in possesso quando noi con un clic diamo il consenso, sui comportamenti umani, asservendo l’anima per i credenti e la mente per tutti gli altri. Già, nel 1980, Jeremy Rifkin in Entropia, Mondadori, Milano, 1982, p.

150, lamenta che “gran parte dell’energia consumata nelle moderne economie industriali rappresenta il prezzo che paghiamo per la velocità e che la categoria degli economisti non ha ancora compreso che la legge dell’entropia è la coordinata fisica di base della scarsità”.

Il sociologo Zygmunt Bauman riesce a cogliere, con la sua teoria di “società liquida”, il divario tra le imprese finanziarie e la politica, che, nella quarta rivoluzione industriale, permetterebbe alla globalizzazione di trasformarsi in una forza dirompente, a livello mondiale; egli, poi, ammonisce, riflettendo sul fatto che i politici, nella maggior parte dei casi, sono incompetenti. Le nuove generazioni, pertanto, non devono far prevalere l’emozione, perché questa non è utile per costruire ma per demolire qualcosa. Nell società liquida, l’esperienza individuale e le relazioni sociali sono contrassegnate da caratteristiche e da realtà fluide e volatili che si decompongono e ricompongono velocemente e in maniera continua. I giovani devono, perciò, assumere la consapevolezza che bisogna, a ogni livello, organizzare il terreno per costruire un nuovo gruppo dirigente. La paura propagata dall’incertezza umana non può durare a lungo. L’uomo, condotto in una situazione di fragilità del tutto inedita, sentirebbe, infatti, per Bauman, il bisogno di costruire qualcosa di “solido” e “vecchio”, come bussola quanto mai attuale, vale a dire “il socialismo”. In un’intervista al “Corriere della Sera”, Bauman afferma: “C’è più bisogno di socialisti da che è caduto il Muro di Berlino”. Egli continua: “Prima il comunismo è stato – Zygmunt Bauman, intervista di Serena Zoli al Corriere della Sera del 13 ottobre 2002 – con il fiato sul collo del capitalismo producendo un meccanismo di ‘controllo ed equilibrio’ che ha salvato il capitalismo stesso dall’abisso. Ora è indispensabile il socialismo: non lo ritengo un modello alternativo di società, ma un coltello affilato premuto contro le clamorose ingiustizie della società, una voce della coscienza finalizzata a indebolire la presunzione e l’auto-adorazione dei dominanti”. Non bisogna, in ogni modo, perdere di vista il liberalismo, perché – continua l’intervista – “la sicurezza dei mezzi di sussistenza e la libertà sono complementari”; per il sociologo polacco è il socialismo, come sintesi di società libera e giusta, l’apripista per la salvezza dell’umanità. Anzi, Bauman conclude nell’ultima sua opera Società, etica e politica, dichiarando nella stessa intervista “come la fenice, rinasce dal mucchio di ceneri lasciate dai sogni bruciati e dalle speranze carbonizzate degli uomini. E sempre risorgerà. Se è così, spero di morire socialista”. Sono idee importanti, espresse da un sociologo, ritenuto di spessore mondiale.

Nel società del capitalismo finanziario e totalitario, bisogna acquisire consapevolezza che gli ideali della democrazia e del socialismo, essendo fragili e precari (Bauman direbbe “liquidi”), sono di difficile attuazione. È più semplice e meno rischioso, a livello individuale, piegare la testa e diventare servili. Comporta meno rischi e minore responsabilità. Sono, tuttavia, i giovani, che, di norma, condividendo tutto quello che è necessario contestare e rifiutare, devono trovare una sintesi sulle risposte da dare a quello che desiderano realizzare, perché il comune denominatore è, oggi, rappresentato dalla precarietà economica e dall’insicurezza psicologica. Da più parti si afferma che ci sia ormai un legame stretto tra la crisi economica degli ultimi anni e quella sociale che sta imperversando un po’ ovunque. Molti sostengono che occorre passare quanto prima da un’economia del consumo a un’economia di produzione, sanando da un lato il debito sovrano dei Paesi in crisi

(Italia compresa) e, dall’altro, rilanciando lo sviluppo economico. Il divario tra i ricchi e i poveri è destinato ad aumentare se continuano a non essere messi sotto controllo dalla politica i mercati, le tecniche finanziarie e gli investimenti economico-capitalistici. All’avvento della cultura neoliberista, venuta fuori per occultare la visione del maltusianesimo, del darwinismo sociale e dell’eugenetica, anche l’Italia è diventata preda della strategia del capitalismo finanziario e totalitario. I partiti di centro-destra sono, in tal modo, costretti a governare decisioni assunte dalla concentrazione capitalistica-finanziaria di destra, mentre quelli di centro-sinistra a governare e scimmiottare le decisioni che assume la concentrazione capitalistica-finanziaria, che, grottescamente, si definisce di sinistra. La politica deve, pertanto, ritornare alla sua centralità. Oggi i politici, a livello globale, non hanno potere, ma assumono e governano decisioni imposte dai poteri finanziari ed economici. In Italia, tale condizione è ancora maggiormente accentuata. Dagli inizi degli anni Novanta, la politica italiana governa, in maniera eterodiretta, decisioni delle forze capitalistico-finanziarie internazionali. Nell’ultimo decennio del Novecento, se alla guida della politica italiana ci fossero stati politici di spessore e non ragionieri, spacciatosi per economisti, si sarebbe sicuramente aperto un dibattito sul ruolo dell’Italia di poter diventare testa e guida dei popoli del mediterraneo oppure di decidere, com’è avvenuto acriticamente, ad accodarsi nemmeno all’Europa dei cittadini, prefigurata dai democratici e socialisti del secolo scorso, ma dei mercati e della finanza. 

Agli inizi degli anni Novanta è, in Italia, presente un deficit economico del 7%. Il 65% del prodotto interno lordo (PIL) è, tuttavia, gestito in maniera diretta o indiretta dallo Stato, che ha, come welfare state, uno scopo sociale. Intanto si decide di entrare nell’Unione europea e secondo i parametri di Maastricht, occorre, per operare a tal fine, privatizzare e portare il deficit dello Stato al 3%.  La politica di allora ragionieristica e non di spessore, invece di confrontarsi sui parametri, fa due devastanti interventi per l’Italia, vale a dire lo smantellamento delle imprese con le privatizzazioni e la disgregazione sociale con la riduzione del deficit dal 7% al 3%. Per quanto concerne le privatizzazioni non c’era efficienza allocativa. Questa “ha a che fare – ha scritto Roberto Fazioli, Dalla proprietà alle regole, Franco Angeli, Milano, 1995, p. 100 – con la relazione fra prezzi e costi marginali di produzione: essa sarà massima quando i primi ricalcano i secondi, quando le quantità desiderate saranno pari a quelle offerte”. Con l’algoritmo della riduzione del debito di quattro punti (dal 7% al 3%) s’interviene con il 2% di aumento delle tasse (dal 27% sino al 53%), con la percentuale del 1,3% attraverso la diminuzione del costo della lira, attivando lo smembramento del ceto medio e, di conseguenza, permettendo l’arricchimento dei pochi e l’impoverimento di molti; infine, con la percentuale del 1,7% di taglio su ricerca e istruzione, vengono messe a repentaglio la cultura e la creazione, in Italia, di una futura classe dirigente. 

Non ci potranno, senza mettere al centro la palla della politica italiana, mai essere misure e interventi adeguati a far crescere il Paese e dare respiro alle nuove generazioni. Bisogna rompere la spirale e l’intreccio (solo i giovani possono farlo, perché non sono ancora socializzati al conformismo) tra la politica e il potere economico-finanziario del capitalismo totalitario. Dopo aver fatto acquisire alla politica un’adeguata autonomia, bisognerebbe intervenire non solo sulla riforma del mercato del lavoro, ma anche operare opportuni interventi sulle politiche fiscali e previdenziali, che, in qualche modo, dovrebbero avere lo scopo di ridurre le disuguaglianze sociali. Si migliorerebbero, di conseguenza, ridistribuendo adeguatamente la ricchezza, le condizioni di ognuno e di tutti. Bisogna, per riscoprire l’orizzonte e ritrovare il cammino, liberare le energie di ogni singolo soggetto e arginare la cultura politica del neoliberismo. La libertà è un processo, che si attua e si afferma in maniera graduale. Attraverso tale processo, la successione dei fenomeni e degli avvenimenti ha una propria forza storica, perché la libertà è interiorizzata e rivissuta, come risultato proiettivo, prima dall’individuo e, poi, dalla società. Questa perenne attività dell’uomo, nel suo cammino, incontra, per forza di cose, il mondo dell’ambiente sociale, che lo circonda e che diviene una sua parte integrante. É chiaro che gli esseri umani sono diversi gli uni dagli altri; essi vivono la diversità nella misura in cui la coscienza è in grado di allargare o di restringere il campo di svolgimento della libertà. Zygmund Bauman in Modernità liquida, Editori Laterza, Bari, 2002, p. 248, scrive, infatti che “gli individui fragili, condannati a vivere in una realtà porosa, si sentono come chi pattina su uno strato di ghiaccio”. Perciò, nei rapporti con la realtà oggettiva, l’uomo quanto più fortemente vive la sua libertà di azione tanto maggiormente comprende il mondo circostante come ostacolo o come risorsa per la sua stessa realizzazione. Il vincolo, posto all’individuo, è tutto ciò che non attiene alla sua libertà interiore.  L’umanità, per superare la condizione di una tale disumanizzante realtà, deve riappropriarsi del presente e, avvalendosi di un pessimismo solare e di un ottimismo crepuscolare, sottrarre il futuro al potere della tecnica e della finanziarizzazione della società. Si deve andare, dunque, verso una globalizzazione non solo economica, ma anche culturale, sociale e politica, attraverso una mobilitazione globale, vista quest’ultima come un processo di cambiamenti sociali, vale a dire disgregazione o rottura, spostamento o sganciamento individuale, mobilitazione psicologica (ritirata o disponibilità), mobilitazione oggettiva, reintegrazione. In un tale contesto, per l’incompetenza e l’insipienza politica che a cascata si espande all’intera società, la scuola italiana sta implodendo e i Dirigenti scolastici non possono più, per la complessità delle sfide quotidiane, governarne i processi. L’implosione della scuola italiana è ormai una realtà. La società attuale, complessa e in continua trasformazione, ha bisogno di più istruzione e formazione, per comprenderne i processi e governarli. La governance della scuola, soggiogata inconsapevolmente dalla democrazia totalitaria che governa l’Occidente, immagina, invece, di ridurre i tempi dell’istruzione e di fornire meno conoscenze e competenze alle future generazioni. Il senso della vergogna è il minimo che si possa provare. 

Sulla scuola bisogna intervenire con una riforma epocale attraverso una rivoluzione dal basso.

Servirebbe riorganizzare la scuola in 2 cicli d’istruzione dai 2 ai 18 anni. Un primo ciclo di 8 anni che dovrebbe comprendere la scuola dell’infanzia dai 2 ai 5 anni (3 anni) e primaria (5 anni); il secondo ciclo di 8 anni che dovrebbe includere la scuola secondaria di primo grado obbligatoria di 5 anni, di cui 3 dell’attuale scuola secondaria di primo grado e 2 del primo biennio della scuola secondaria di secondo grado con elementi di filosofia, letteratura greca e latina, radici della civiltà occidentale (i giovani a 12 anni hanno ormai acquisito un pensiero ipotetico/deduttivo -) e la scuola secondaria di secondo grado (3 anni, di cui 2 anni del secondo biennio e 1 anno del quinto anno della scuola secondaria di secondo grado). In tal modo non solo l’obbligatorietà e la certificazione delle competenze coinciderebbero e avrebbero un’intrinseca e logica conseguenza, ma anche i giovani italiani, come quelli di altri paesi dell’Unione europea, potrebbero affrontare un anno prima l’esame di Stato/maturità. 

Bisognerebbe, poi, abolire i carrozzoni ministeriali (i Dirigenti scolastici, i responsabili e gli Uffici degli ambiti scolastici territoriali), creando un diretto collegamento delle reti di scuole con gli USR e i Dipartimenti generali del Ministero della pubblica istruzione. L’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’asfissia dirigenziale sono una contraddizione in termini. Sarebbe necessario introdurre, a tal proposito, l’elezione diretta e democratica di un coordinatore scolastico da parte del collegio dei docenti, perché la scuola dell’autonomia esige democrazia e partecipazione. Nello stesso tempo rafforzare e fortificare, per qualità professionali e competenze, il profilo del Direttore dei servizi generali e amministrativi (laurea in economia aziendale, giurisprudenza o equipollenti) per la governance giuridica-amministrativa delle scuole. Solo in tal modo si potrebbero invertire le proposte dell’accorpamento delle istituzioni scolastiche, finalizzate, nel compromettere ogni forma di didattica e nel sottrarre sedi di scuole alle piccole comunità, al risparmio economico. Si riconoscerebbe anche lo status delle scuole a rischio e di quelle di eccellenza. 

Si dovrebbe, poi, valorizzare massimamente il ruolo dei docenti sia riconoscendo l’insegnamento come una professione logorante e usurante sia equiparando i diritti e i doveri degli insegnanti italiani a quelli europei (compresi orario di lavoro e stipendio – in Germania, ad esempio, a fine carriera, i docenti percepiscono 80.378 euro annuali; invece, in Italia, a fine carriera, ne percepiscono annualmente appena 34.052 -). A proposito dei docenti si dovrebbe anche provvedere a dar vita a corsi specifici di specializzazione per gli insegnamenti STEM per ovviare agli errori, commessi negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, nell’immettere in ruolo soggetti non in possesso di profili adeguati all’insegnamento di tali discipline. La scuola italiana, ancora oggi, specialmente nei Licei, ne sta pagando le conseguenze. Tra le altre cose, per far acquisire alla scuola italiana una certa centralità e prospettarne un futuro, è necessario:  

considerare gli allievi come soggetti di diritto e di doveri verso il mondo sociale e immaginare la scuola come un bene pubblico e condiviso. La scuola, in tutte le società democratiche, svolge, infatti, una funzione sociale;

far acquisire alle scuole la funzione di palestra della democrazia per costruire, attraverso una cittadinanza attiva, una società aperta e interculturale;

abolire il finanziamento delle scuole paritarie e private, rispettando l’art. 33 della Costituzione che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Negli ultimi dieci anni i fondi destinati dallo Stato alle scuole private si sono, invece, moltiplicati (nel 2012 – 286 milioni, nel 2022 – 626 milioni, quest’anno, nella Finanziaria, sono previsti ulteriori 50 milioni di euro per le scuole paritarie dell’infanzia). Gli allievi che intendono liberamente usufruirne dovrebbero con rette mensili pagarsi tale insegnamento;

valorizzare e non abolire i titoli di studio. Il mercato e i poteri forti aspirano ad abolire i titoli di studio per emarginare le classi sociali più deboli;

introdurre nella scuola primaria insegnanti per aree disciplinari. Non è umanamente immaginabile che un solo insegnante possa svolgere il ruolo di tuttologo;

prevedere che ogni docente di una classe di concorso (ad esempio A-12 – Materie letterarie e Storia) sia, dopo che la scuola si sia dato un rigoroso ed equilibrato regolamento, assegnato a un’aula. Gli studenti dovrebbero, in tal modo, scegliere responsabilmente e liberamente l’aula da frequentare. Il docente sarebbe, così, costretto a formarsi e qualificarsi continuamente; 

aspirare a un Ministero dell’istruzione che si converta in un Dicastero delle future generazioni per una crescita intelligente, democratica, inclusiva e pubblica.

Con riferimento alla scuola, il diritto amministrativo prefigura che l’interesse pubblico deve manifestarsi tramite il diritto vissuto non come fine ma come strumento. Questo è un principio che nella seconda Repubblica è stato smontato meticolosamente. Trasformare, poi, la scuola in azienda ha l’indiscutibile significato di forgiare le strutture che hanno come fine predominante l’attuazione, in contrapposizione alla “produzione” di un sapere critico, del profitto economico. Ciò avverrebbe, inoltre, in un sistema di spietata concorrenza ed emarginando, in tal modo, socialmente, economicamente e culturalmente i soggetti più deboli e svantaggiati.

La scuola, nella storia, è stata, al contrario, caratterizzata da una traiettoria e da un percorso lineare di democratizzazione dell’educazione, dell’istruzione e della formazione, mettendo, al proprio interno, in moto i processi di: 

educazione universale (nel Seicento, pedagogia di Amos Comenio); 

scolarizzazione (illuminismo, Rivoluzione francese e istruzione pubblica con Condorcet); 

tendenza all’innalzamento dell’obbligo scolastico (legge Gabrio Casati, in Italia, nel 1859, e così via); 

orientamento all’unificazione dei sistemi educativi e formativi (riforma dei programmi “Brocca”, in Italia, 1992/1993); 

disponibilità all’individualizzazione e personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento (riforma Moratti, in Italia, nel 2003); 

educazione permanente e inclusione (strategia di Lisbona, nel 2000, Europa/2020, nel 2010, Agenda 2030, nel 2015).

Con l’istruzione permanente e l’inclusione, il processo di democratizzazione dell’educazione, dell’istruzione e della formazione entra nella fase della massima espansione e realizzazione. La scuola deve, dunque, essere un concreto luogo di formazione ricorrente e continua di tutti i cittadini, affinché acquisiscano conoscenze adeguate ad interpretare la complessità della società e a conseguire le competenze, atte a governarne, in maniera autonoma e responsabile, i processi.

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