La matematica oltraggiata

La matematica che misura la sofferenza invece della verità é la scienza profanata dalle guerre, la custode tradita dell’umanità e della ragione.

Ubi faciunt solitudinem,  pacem appellant

Publio Cornelio Tacito

La matematica è contraria alla distruzione. Si rivela in lei operante un principio di continuità, contrapposto alla tendenza a demolire piuttosto che ad edificare. C’è in lei qualcosa di divino, che le consente di sublimare il detto di Cecilio Stazio, secondo cui l’uomo è un dio per l’altro uomo, se sa qual è il suo dovere. A lei dobbiamo un suo specifico ausilio a coltivare l’etica in senso kantiano, contrapposta all’abiezione e alla lordura di governanti che uniscono in sé bramosia di potenza, narcisismo, stolidità, ferocia.

“Dove e quando hanno fatto un deserto, proclamano che questa è la pace”: può essere uno dei modi di interpretare liberamente questo detto pregnante, quasi intraducibile, diventato proverbiale, attribuito dallo storico latino Tacito a Calgaco, capo dei Caledoni scontratisi nel primo secolo dopo Cristo in Scozia con l’esercito romano di Gneo Giulio Agricola, governatore della Britannia. Galgaco vuol dire che l’imperialismo romano non sazia la sua brama di espansione finché non abbia distrutto completamente il nemico. Così Tacito attraverso le parole attribuite allo sconfitto ribadisce la superiorità in guerra della sua Roma.

Ai nostri giorni l’oltraggio rivive e giunge a investire anche la matematica. Il numero, che dovrebbe essere considerato sacro, viene profanato da una contabilità atroce, impegnata nel quantificare l’entità della sofferenza e della morte di esseri

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Svuotare il nulla

La dimensione politica del nichilismo contemporaneo

di Nuccio Randone

Svuotare il nulla – La dimensione politica del nichilismo contemporaneo – di Nuccio Randone

PREMESSA

Cosa hanno in comune gli autori citati in grassetto in questo articolo? Il fatto che alcune loro opere sono state da me lette e questa lettura ha ispirato le idee presenti in questo articolo. Non ho citato alcuna loro opera, ma ho preferito, tramite la citazione in grassetto, rimandare in generale alla tematica affrontata dall’autore. Chi vorrà potrà approfondire le varie tematiche tramite la lettura delle opere dell’autore stesso.

INTRODUZIONE

Il presente articolo vuole rispondere ad una domanda. Qual è il fondamento teorico e la sua traduzione sul piano politico dell’attuale ingiustizia sociale ed ecologica che ha assunto ormai una dimensione planetaria? La politica oggi ha una dimensione orizzontale attenta al destino dell’altro o verticale in cui prevale esclusivamente la legge del più forte? La mia risposta, che cercherò di spiegare in questo articolo, è che il nichilismo contemporaneo costituisce il fondamento teorico dell’attuale capitalismo tecnocratico: il capitalismo tecnocratico è il volto politico del nichilismo contemporaneo.

Ma qual è il destino dell’uomo? il nulla o il senso. Il futuro dell’uomo e del pianeta dipende dalla risposta che si dà a tale domanda.

1. ASPETTO FILOSOFICO. IL NULLA E IL SENSO

Cosa significa svuotare il nulla? Come si fa a svuotare ciò che non è? Il nulla non esiste, da ciò “l’impossibilità logica di affermare che le cose vengono dal nulla e nel nulla ritornano” (Emanuele Severino-Filosofo). Già Lucrezio ci avvisava del fatto che “dal nulla viene nulla” e secondo la legge di Lavoisier “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

L’affermazione del nulla, processo iniziato storicamente con i maestri del sospetto, Nietzsche e la morte di Dio – Freud e la morte del padre – Marx e la morte dell’individuo, ha avuto come esito il nichilismo, tentativo di vivere il nulla nel nulla.

 Si dirà che il nichilista crede solo in se stesso, così però non è più un nichilista in quanto non crede nel nulla, ma in se stesso, in qualcosa da cui le cose provengono. Il nichilismo invece è una superstizione: fede nel nulla.

 Il nichilismo porta al fallimento il destino proprio dell’uomo: dare senso alla sua vita.

Prova del fatto che il destino dell’uomo è dare senso alla sua vita è la ricerca della felicità: l’uomo infatti è desiderio naturale di felicità (Tommaso D’Aquino-Filosofo), è un animale soggetto alla segnatura del dolore ma desideroso di felicità. Soffriamo ma non ci rassegniamo, troviamo la felicità, ma non ci basta, e quando essa sfuma ne cerchiamo un’altra e un’altra ancora. Fino a quando questa ricerca? La felicità assoluta è il destino dell’uomo.

Siamo destinati alla felicità assoluta, altrimenti perché desiderala? L’uomo sarebbe un assurdo, la più meschina delle creature, preso in giro dalla sua stessa natura in quanto desidera qualcosa che non esiste (Francesco Ventorino-Filosofo).

 L’uomo desidera la verità, il senso di se stesso, della sua vita, del mondo, ma questa verità, questo senso, secondo il nichilismo, non può essere dato e non deve essere dato ma si deve vivere nel nulla e di nulla fino a negare l’umano dell’uomo ovvero il dare senso al “mondo alla mano” (Martin Heidegger-Filosofo).

In una società dominata dalla tecnica e dal suo delirio di onnipotenza, segnata dal capitalismo consumistico che omologa, massifica, conduce a quell’individualismo nichilistico per cui nulla ha senso se non esclusivamente il proprio edonistico e narcisistico benessere individuale e materiale senza spazio alcuno per gli altri e per i beni spirituali (Fausto Bertinotti-Politico), svuotare il nulla è la sfida che l’umanità deve assumersi nei confronti di chi questa umanità vuole annichilire, il nichilismo di matrice tecnocratico-capitalistica.

Per superare il nichilismo e la sua dimensione subumana, bisogna ritornare ad esercitare quella capacità, esclusivamente umana, di trasformare le coincidenze in senso, opportunità.

Nessuno di noi è indispensabile e infatti il mondo procede anche senza di noi, ma questo significa che se è vero che eventi e avvenimenti accadono a prescindere da noi, è altrettanto vero che ognuno di noi può trasformare tali coincidenze in senso, opportunità.

Svuotare il nulla significa trasformare il nichilistico “nulla” nello stato di gettatezza esistenziale in cui nulla ha senso (il nulla) affinché tutto abbia senso (il nulla svuotato), quel senso che io do al mio mondo alla mano: gli eventi e gli altri non rimangono mere coincidenze ma vengono da me dotati di senso e danno, quindi, senso alla mia vita per cui io mi realizzo nel mondo non contro o sfruttando gli altri ma con gli altri, anzi gli altri sono la mia unica possibilità di senso e di esserci.

 Raggiungere lo stato di gettatezza originale dove nulla ha senso affinché tutto abbia senso significa dunque trasformare le coincidenze in senso perché il destino dell’uomo è la felicità e questa si vive qui e ora dando senso alle cose.

Il nichilismo rifiuta il destino dell’uomo provando un sentimento di nausea (Jean-Paul Sartre-Filosofo) di fronte a tale destino: il mal di vivere nichilistico.

Di
fronte alla proclamazione della morte di Dio (se non vi è più l’Essere vi è il
nulla), bisogna riaffermare l’umano dell’uomo spostando l’attenzione dal piano
teologico a quello antropologico: la questione non è affermare o negare Dio, ma
 nell’avere fede nella vita o nel nulla.

La fiducia nella vita, fondata sulla capacità
dell’uomo di dare senso alle cose,  fa
intraprendere un viaggio che porta dalla morte di Dio alla riscoperta dell’uomo
come desiderio naturale di dare senso alle cose.

La morte di Dio, in chiave nichilistica,
in quanto affermazione del nulla, porta alla morte dell’uomo: il nichilismo infatti
non vede l’uomo come l’unico ente capace di donare senso alle cose e quindi
trascenderle, ma come un ente fra gli enti ripiegato nel nulla della vita.

Per il nichilismo “nulla-esiste”, ma il “nulla-non-esiste”, dal nulla non può venire nulla, dal nulla non può apparire e nemmeno sparire nulla: il nichilismo è il nulla, il vuoto, l’abisso, la morte dell’uomo.

2. ASPETTO POLITICO. IL CAPITALISMO TECNOCRATICO

Il senso che diamo alla vita fa esserci e rimanere eternamente nei ricordi di quanti abbiamo incontrato nel cammino
della nostra vita. Saremo ricordati se riusciremo a dare alle “nostre” tracce
di senso una dimensione “politica”: la relazione politica quando è una “relazione
di sensi” assume una dimensione orizzontale che ci permette di costruire una
casa comune in cui co-abitare (Donatella Di Cesare-Filosofa).

La politica nichilistica, invece, ha una
dimensione verticale dove la forza diviene l’unico valore nelle relazioni
umane: in una società nichilistica dove nulla ha senso pre-vale il più forte e
la forza.

Si comprende, allora, come in una
cultura nichilistica la tecnica che dovrebbe essere a servizio dell’uomo e del
miglioramento delle condizioni di vita dei più deboli, è diventata invece il
nuovo mezzo di arricchimento e sfruttamento delle risorse del pianeta nelle
mani della nuova forza capitalistico-tecnocratica.

Il capitalismo tecnocratico di matrice
nichilistico, con un intreccio perverso di capitale – tecnica – politica, segue
la logica etica del voglio
(ricchezza) – posso (la tecnica) – faccio (la politica), sfruttando le
risorse del pianeta per un arricchimento personale a discapito dei più deboli, il
tutto sotto l’egida del nichilismo e delle politiche neoliberiste.

Svuotare il nulla significa dunque dare
senso alla vita: dare senso alla vita (da me stesso o alla luce del Vangelo o attraverso
un’ideologia, ecc.), trasformare le coincidenze in eventi significativi per la
mia vita è un atto di responsabilità politica totalmente alternativo ad una visione
nichilistica della vita che, con una fede cieca nel nulla e attraverso un uso
della tecnica sempre più come strumento di potere nelle mani del capitalismo
ultra liberista, deresponsabilizza l’uomo in quanto di fronte al nulla non si è
chiamati a rispondere ma ad obbedire al più forte.

Ai maestri del sospetto va dato merito
di aver scardinato strutture di pensiero e istituzionali ormai anacronistiche e
di aver contribuito indirettamente ad un ripensamento, riformulazione,
“aggiornamento” (Papa Giovanni XXIII) della trascendenza di
fronte alla morte di Dio, dell’istituzione di fronte alla morte del padre e del
sacrificio di fronte alla morte dell’individuo (Armando Matteo-Teologo).

La deriva nichilistica con la
conseguente morte dell’uomo, privato ormai del suo destino e della sua libertà,
mercificato dalle forze lobbiste di matrice capitalistica, ci deve spingere ad
ascoltare quei maestri che ci insegnano che il destino dell’uomo è quello di trovare l’alba dentro l’imbrunire.

Questa è la fatica del vivere: svuotare
il nulla, dare senso alle cose, trovare l’alba
dentro l’imbrunire. L’alternativa è la noia
(Giacomo Leopardi-Poeta), quell’equa
distanza tra la gioia e il dolore che è il nulla che, in quanto inesistente,
coincide con l’annullamento di ciò che esiste, le nostre vite.

Nell’epoca contemporanea segnata dal
nichilismo e dalla morte del donatore, sia esso Dio o il padre, la vita non è
più vista come un dono, il vivere è divenuto un problema e non più una
responsabilità, la libertà si è ridotta ad una fuga dalla vita e non più ad un
impegno faticoso, doloroso, gioioso, ma mai noioso, di dare senso alla vita.

Morto Dio, il problema contemporaneo non
è più Dio ma l’uomo: essere o non essere
questo è il dilemma (William Shakespeare-Drammaturgo).

La fiducia nella vita e la speranza
nella capacità dell’uomo di dare senso e significato alle relazioni umane per
costruire una casa comune da co-abitare
è la sfida da lanciare al nichilismo contemporaneo che, con la sua fede nel
nulla e senza speranza per il futuro, rende l’uomo libero da Dio ma schiavo
delle forze cieche del nuovo capitalismo tecnocratico: la discriminante infatti
non è tra il vivere con Dio o senza Dio, ma tra l’avere fiducia nella vita o
nel nulla.

Il primo atteggiamento è proprio di coloro che cercano di dare un logos, un senso alla vita e al loro vivere (o alla luce della sola ratio o alla luce dell’evangelium) il secondo, invece, è l’atteggiamento di chi, nel nulla esistenziale, affidandosi unicamente all’egemonia e alla forza della tecnica, finisce per divenire quel dominus di cui ne ha proclamato la morte, dominando chi la tecnica la può solo subire.

3. ASPETTO TEOLOGICO. I SEGNI DEI TEMPI

Dio è morto ma  l’uomo risorge  in ogni faticoso tentativo di svuotare il
nulla.

Dal punto di vista teologico, questa
morte di Dio e resurrezione dell’uomo in ogni faticoso quotidiano dare senso
alle cose è una responsabilità etica ovvero capacità e “scelta” di rispondere
agli appelli della storia, è un saper-dover leggere i segni dei tempi (Papa Giovanni XXIII) alla luce del Vangelo e
alla cui luce incarnare le istanze evangeliche di giustizia, pace, solidarietà,
uguaglianza, libertà e liberazione (Concilio
Vaticano II).

All’antropologia nichilistica si oppone dunque
un’antropologia escatologica (Giuseppe Dossetti-Teologo),
l’antropologia cioè dell’Homo Viator (Gabriel Marcel-Filosofo) che nell’andare incontro alla pienezza del
tempo discerne nella storia i segni dei tempi, il senso escatologico degli
eventi e degli avvenimenti (Giuseppe
Ruggieri-Teologo).

Morto Dio qual è il senso della vita?

La vita stessa in quanto ogni vita, se vissuta,
è sempre piena di senso.

Ma che significa vivere la vita?

Esserci

Ma che significa esserci?

Significa svuotare il nulla, l’in-esserci.

Ma che significa svuotare il nulla,
l’in-esserci?

Significa trasformare le coincidenze in senso, dare senso
al
mio mondo alla mano: nella vita
vissuta gli eventi e gli altri non sono mai coincidenze ma vengono dotati di
senso. Il destino dell’uomo è la felicità e questa si vive qui e ora ogni qual
volta si da senso alle cose svuotando il nulla.

Da quanto detto fin ora, si comprende come
si può “vivere senza Dio” senza essere nichilisti, così come si può “vivere con
Dio” senza essere superstiziosi in quanto superstizioso è il nichilismo con la
sua fede nel nulla.

Per il cristiano Dio è inutile, nel mondo “davanti e con Dio viviamo senza Dio, viviamo come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)! è Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio” (Dietrich Bonhoeffer-Teologo): l’inutilità di Dio, l’assenza di Dio per il cristiano significa responsabilità, capacità di rispondere agli appelli della storia, risignificando eventi e avvenimenti alla luce del Vangelo per coglierne i segni dei tempi.

CONCLUSIONE

Svuotando l’inesistenza, in quanto il nulla non è, rimane spazio e tempo (Zygmunt Bauman-Sociologo) solo per l’esistenza che, se non si vuol far precipitare nel nulla, deve essere da noi, sia che viviamo con Dio, sia che viviamo senza Dio, dotata di senso: questo è il destino dell’uomo e negarlo significa negare l’uomo stesso, significa proclamare la “morte nichilistica dell’uomo” che assume la dimensione politica del capitalismo tecnocratico.

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Guerra e Matematica

La riflessione sulle guerre. Il carteggio Einstein-Freud e la matematica per gli scopi bellici.

Parte prima: il dibattito sulla guerra
Cancellare le guerre dai libri di storia è un appello del Movimento Nonviolento.
Senonché accogliere l’appello non cancellerebbe le guerre dalla storia. In assenza di riferimenti alla guerra non ci sarebbe occasione di leggere riflessioni fondamentali come queste:
“Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? […] Ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.”
Sono parole di Lucio Anneo Seneca in un memorabile passo di un’epistola all’amico Lucilio. L’assassinio viene punito se commesso in privato, mentre è motivo di lode e di gloria se commesso in guerra: questa la vergogna denunciata definitivamente dal filosofo latino con parole destinate a riecheggiare in ogni tempo, monito più che mai attuale quando  assistiamo come oggi a orrendi crimini di guerra perpetrati contro civili inermi.
La prevaricazione di chi si ritiene più forte militarmente a danno di un popolo trova riscontro nell’antica Grecia.
Esemplare in proposito il dialogo fra gli Ateniesi e i  Meli nella Guerra del Peloponneso di Tucidide. Gli Ateniesi, in guerra contro Sparta, inviano in via preventiva  ambasciatori presso i Meli, coloni spartani dell’isola di Melo, per indurli alla resa, ammonendo i loro consiglieri che “i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano”. I Meli chiedono come possa esserci un interesse comune fra chi accetti di diventare schiavo e chi si erga a padrone. Osservano ancora i Meli che non cercare ogni via per evitare la sottomissione sarebbe manifestazione di viltà e motivo di vergogna. Replicano gli Ateniesi che sarebbe saggio invece arrendersi a un avversario più potente. Purtroppo il  dialogo tucidideo resta attuale in una sua versione tragicamente aggiornata: oggi qualunque criminale compiaciuto di sentirsi più potente dispone della minaccia al ricorso alle armi nucleari.
Dall’antichità classica proviene anche la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva.
Troviamo in Tito Livio la seguente espressione:  “Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma, quibus nulla nisi in armis relinquitur spes.”
Vale a dire che la guerra è giusta se necessaria per chi non nutra speranza alcuna di salvezza qualora non ricorra alle armi a scopo di difesa. La riflessione sulla guerra giusta era già presente in Aristotele, che da una parte condannava l’aggressione riconoscendo a chi venisse aggredito il diritto di difendersi, ma dall’altra giustificava il muovere guerra ai barbari. Analogamente nel pensiero cristiano medioevale si affermò il concetto di guerra santa contro gli infedeli, “sterpi eretici” secondo la definizione di Dante. Il bellicismo colonialistico cinquecentesco si basava sull’asserita necessità di redimere dalla loro inciviltà i popoli da colonizzare.  Insomma lo ius ad bellum, ovvero diritto di muovere guerra, giustificava in certi casi gli aggressori.
Nel secentesco trattato De iure belli ac pacis di Ugo Grozio viene esplicitato fra l’altro lo ius in bello, ovvero complesso di norme giuridiche da rispettare in  guerra.
Su questo tema si pronuncia anche Louis de Jaucourt, il quale nella voce Guerre della Encyclopédie illuminista scrive che  non v’è diritto che autorizzi “a togliere la vita per deliberato proposito ai prigionieri di guerra, né a coloro che domandano quartiere, né a coloro che si arrendono, né tanto meno ai vecchi, alle donne, ai bambini, e in generale  a tutte le persone che non hanno un’età né svolgono una professione tali da renderli atti alle armi, e che nella guerra non hanno nessuna parte e vi sono coinvolti solo perché si trovano nel paese o nel partito nemico”. Nella voce citata si condanna anche  la brutalità della guerra nei confronti della donna. Eccola tradotta dal francese:
“Essa [la guerra] ha regnato in tutti i secoli sulle più fragili basi; la si è vista sempre desolare il mondo, privare le famiglie dei loro eredi, riempire gli stati di vedove e di orfani: mali deplorevoli, ma tanto comuni! In ogni tempo gli uomini, per ambizione, per avarizia, per gelosia, per malvagità, si sono derubati, bruciati, sgozzati a vicenda […] A più forte ragione, i diritti di guerra non giustificano gli oltraggi all’onore delle donne, dato che una tale condotta non contribuisce affatto alla nostra difesa, alla nostra sicurezza né alla difesa dei nostri diritti; essa serve soltanto a soddisfare la brutalità del soldato privo d’ogni freno.”
Delitti contro l’umanità che continuano ad essere perpetrati dal “soldato privo d’ogni freno”, a ciò per giunta  incitato dalla viltà di chi in sede di comando pianifica la presa a bersaglio di  civili inermi.
La riflessione sulle cause della guerra trova una delle sue più alte espressioni nel carteggio Einstein-Freud, di cui sono qui riportati alcuni stralci in traduzione.
Il padre della teoria della relatività si rivolge per una risposta al padre della psicoanalisi:
“Caro signor Freud, c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.”
Si riportano qui alcuni passi della lunga risposta:
“Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con lei. […] Ora la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, cosi che dobbiamo ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. […] Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori – l’atteggiamento sempre più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alla guerra in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo giudicarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.”
Evidentemente l’evoluzione civile è in inquietante ritardo nel mondo, se non giunge addirittura a configurarsi come involuzione.
Nel filone delle riflessioni sulla pace risalta la cinquecentesca Querela pacis di Erasmo.
Eccone un passo tradotto dal latino:
“E invero, se io sono la Pace, esaltata all’unisono da dèi e uomini come sorgente, genitrice, nutrice, promotrice, tutrice di ogni bene esistente in cielo o in terra, e se in mia assenza nulla mai fiorisce, è saldo, puro, santo, piacevole per gli uomini e gradito ai superi, mentre la guerra viceversa si presenta come l’oceano di tutte le sventure esistenti al mondo, […] ebbene, io allora mi chiedo in nome dell’immortale divinità: chi può ritenere che costoro siano esseri umani ed abbiano un briciolo di senno, quando a dispetto delle mie virtù si adoperano con tanti mezzi, tanta ostinazione, tante macchinazioni, tante astuzie, tanti affanni, tanti rischi a scacciarmi, per acquistare a così caro prezzo un tale profluvio di mali?”
Il testo classico in cui la ragione coltiva l’utopia è  Per la pace perpetua  di Immanuel Kant.
Fra le condizioni necessarie per assicurare la pace perpetua il filosofo annovera la totale scomparsa degli eserciti permanenti, il divieto per ogni Stato di intromettersi con la forza in un altro Stato, la necessità  della forma repubblicana della costituzione di ogni Stato e del federalismo fra Stati. Per lui, che ritiene non inconciliabili politica e morale, i politici dovrebbero avvalersi della consulenza dei filosofi. Se ci chiediamo quali filosofi, dobbiamo escludere quelli come Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  triste figura che la guerra non la condanna, ma la esalta. È l’aberrazione della “guerra sola igiene del mondo”, come la celebra e glorifica Filippo Tommaso  Marinetti.
Encicliche dei sommi pontefici come  Pacem in terris  o Fratelli tutti vagheggiano la pace universale.
Ferma, decisa e risoluta è la  condanna ecclesiastica di ogni guerra di aggressione, definita dal Vaticano “moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega”. Anche il Papa riconosce a chi sia aggredito il diritto di difendersi. Ad ogni  posizione irenica ovvero pacifista, sia religiosa che laica, si contrappone la concezione della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” espressa da Klaus von Clausewitz nel suo trattato Vom Kriege.
Oggi i progetti di educazione alla pace sono insidiati dalla  minaccia incombente della cosiddetta guerra nucleare preventiva.
Finora si riteneva che l’equilibrio del terrore potesse scongiurare la terza guerra mondiale. Però era già presente nel pensiero di un presidente statunitense l’idea di una guerra preventiva. La novità  consiste nel fatto che  ora l’uso di armi atomiche in funzione preventiva  è contemplato in una legge voluta da un famigerato dittatore gongolante ad ogni suo lancio di missili. Perciò, quando alla fine del suo volume sull’identità umana Edgar Morin, avvalendosi delle scienze dell’incertezza, scrive che per l’avvenire “niente è sicuro, neanche il peggio”, con tutto il rispetto per il più che centenario studioso dobbiamo purtroppo constatare che la probabilità del peggio è in aumento. Probabilità che un qualunque detentore di un potere assolutistico dia il via in un accesso di demenza, se assecondato da generali altrettanto folli,  allo sterminio della vita sul pianeta per la percezione soggettiva di una minaccia soltanto presunta.
Vittorino Andreoli in Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà, Rizzoli, 2018, osserva che la corsa agli armamenti si svolge più che mai “all’insegna della stupidità e della follia”.
Questa l’amara constatazione dello psichiatra a proposito dello scadimento cerebrale di questo o quel singolo individuo al posto di comando: “Trasformare questo pianeta in una pietra che, nuda e fredda, gira nell’universo non è più nelle mani degli dèi, ma della stupidità del potere.”
Viene in mente la conclusione di un romanzo.
Da La coscienza di Zeno di Italo Svevo: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Pablo Picasso, Guernica (1937)
Parte seconda: matematici  pro e contro  la guerra
Il trattato L’arte della guerra attribuito a Sun Tzu, risalente al VI secolo avanti Cristo, dedica spazio a una serie di fattori matematici che possono determinare l’esito di una guerra.
Il testo è organizzato in tredici capitoli dedicati all’analisi razionale delle diverse dimensioni della guerra, identificando le modalità per perseguire e riportare la vittoria. Tredici i capitoli: pianificazione e valutazione; preparazione alla guerra; attacco strategico; schieramento e disposizione dell’esercito; forze; punti di debolezza e punti di forza; scontro e manovre militari; variabili, variazioni e adattabilità; spostamenti e movimenti delle truppe; terreno; territorio e i nove campi di battaglia; attacco con il fuoco; utilizzo delle spie. Chi è esperto dell’arte della guerra deve saper controllare il fattore morale, il cuore, la forza e le diverse circostanze. Il numero non  dà vittoria certa: la vittoria deve essere creata sul campo. Tuttavia nel quarto capitolo i fattori numerico e geometrico sono  presi in  considerazione:
“Ricorda, gli elementi della strategia militare sono cinque: primo, misurazione dello spazio; secondo, valutazione della quantità; terzo, calcolo; quarto, confronto; e quinto, probabilità di vittoria. Le misurazioni dello spazio si deducono dal territorio. Le valutazioni della quantità si deducono dalle misurazioni, i calcoli dalla quantità, i confronti dai calcoli, e la probabilità di vittoria dai confronti.”
Galilei, che Einstein definisce padre della scienza moderna, si è occupato di guerra in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali.
L’opera è stata tradotta in italiano da Alessandro De Angelis e pubblicata da Codice edizioni nel 2021. Nell’opera, realizzata in forma dialogica,  la quarta giornata è dedicata al moto dei proiettili. A un certo punto Simplicio si dimostra curioso di sapere perché i proiettili delle armi da fuoco debbano essere considerati diversamente da quelli di archi e balestre e Salvati risponde che “la velocità di una palla sparata da un moschetto o da un cannone è soprannaturale”, cioè più veloce di quella di un corpo in caduta libera:
“Infatti, se una tale palla dovesse cadere da una grande altezza, la sua velocità, a causa della resistenza dell’aria, non aumenterebbe indefinitamente. […] Sono dell’opinione che una palla di moschetto o di cannone, che cade da un’altezza grande a piacere, non produrrà un colpo così forte come se fosse sparata contro un muro da una distanza di poche braccia, cioè a distanza così breve da non essere sufficiente a far rubare l’impeto dalla resistenza dell’aria.”
In questa quarta giornata la matematica mediante una serie di proposizioni o teoremi concorre a spiegare fenomeni fisici che sono l’oggetto della balistica.
Da: il grande Blek
Ormai il progresso scientifico rende possibile l’espansione della guerra in ambito virtuale e nel dominio robotico.
Sono già in atto forme di guerra informatica o cibernetica. Attacchi a internet, diffusione in rete di notizie false, divulgazione di dati militari sensibili ne sono alcuni aspetti. Oltre a ciò ricordiamo i soldati automi dei nostri giorni. L’idea di realizzare un androide di tal genere  sarebbe però non nuova: l’avrebbe concepita  la mente di Leonardo da Vinci, ipotesi che si fonda su studi anatomici e meccanici contenuti nel Codice Atlantico.
Non si combatte soltanto sul campo di battaglia.
Intervengono nei conflitti i calcoli degli economisti. Giuseppe Della Torre, cattedratico di  Economia, distingue fra economia di guerra e guerra economica:
“Anticipo che per economia di guerra intendo l’ambito tradizionale degli studi, legato direttamente al conflitto armato, nei momenti della sua pianificazione e della sua gestione operativa, incluso il tema delle «riparazioni». Per guerra economica intendo le attività non strettamente militari, spesso preliminari o di accompagnamento o successive alle iniziative propriamente belliche. Di conseguenza, i temi delle sanzioni e degli embarghi, che sono sovente parte dell’economia della guerra, ho deciso di inserirli nella guerra economica, perché non strettamente legati al fenomeno bellico.”
La guerra economica contempla oggi, oltre che sanzioni e embarghi, la distruzione di sovrastrutture.
Fino a che punto la razionalità matematica può cogliere la realtà empirica della guerra?
In questo passo di Albert Einstein tratto da On the Method of Theoretical Physics si delinea il controverso rapporto fra matematica e fisica:
“We reverence ancient Greece as the cradle of western science. Here for the first time the world witnessed the miracle of a logical system which proceeded from step to step with such precision that every single one of its propositions was absolutely indubitable – I refer to Euclid’s geometry. […] But before mankind could be ripe for a science which takes in the whole of reality, a second fundamental truth was needed, which only became common property among philosophers with the advent of Kepler and Galileo. Pure logical thinking cannot yield us any knowledge of the empirical world; all knowledge of reality starts from experience and ends in it. Propositions arrived at by purely logical means are completely empty as regards reality. Because Galileo saw this, and particularly because he drummed it into the scientific world, he is the father of modern physics-indeed, of modern science altogether.”
Dunque Einstein riconosce all’antica Grecia il merito di avere dato all’umanità con la geometria euclidea un sistema logico preciso e indubitabile nella consequenzialità del suo svolgersi. Era però necessaria un’altra fondamentale verità, dovuta a Keplero e Galilei: il puro pensiero logico non è in grado di cogliere la complessità esperienziale. Tuttavia, argomenta ancora Einstein, logica ed esperienza risultano complementari, in quanto la ragione elabora una struttura teorica con la quale devono accordarsi i contenuti empirici:
“The structure of the system is the work of reason; the empirical contents and their mutual relations must find their representation in the conclusions of the theory.”
Nella Repubblica Platone esalta l’aritmetica e la geometria come discipline indispensabili sul piano pratico per gli scopi bellici, ma ancor più importanti sul piano teorico come mezzi di elevazione dell’animo verso la verità.
Ci troviamo così di fronte a una visione filosofica in cui la ricerca del vero  non contempla il ripudio della guerra. Quindi  alla matematica viene attribuita un’ambivalenza, anzi un ruolo dicotomico, che risulta comprensibile se si considera il periodo storico in cui Platone  visse, mentre non è accettabile oggi in quanto sappiamo ormai che la matematica può essere utile alla guerra, ma per sua natura non può non comportarne il ripudio. Il vero a cui mediante la matematica giunge col  pensiero assume una dimensione etica. Infatti una verità che non contempli l’etica è una verità falsificata. Si tratterebbe di spingere il genere umano a inverare in sé il connubio di verità ed etica. E in ciò la matematica può dare un contributo di prim’ordine.
Un noto tentativo di integrare i calcoli matematici relativi alla guerra con fattori di ordine sociale è quello di Lewis Fry Richardson in Mathematical Psycology of War.
Matematico pacifista e obiettore di coscienza, Richardson si impegnò nella ricerca di possibili rimedi preventivi all’insorgere di conflitti fra nazioni. Nei suoi sistemi di equazioni si tiene conto anche di elementi non matematici, come, ad esempio, il grado di conflittualità latente fra potenze. La sua teoria dell’equilibrio trova riscontro nell’opera di John Nash, del quale è noto il “dilemma del prigioniero”, sviluppato anche dal matematico americano di origine russa Anatol Rapoport, pacifista al pari di Richardson, cofondatore fra l’altro del Center for Research on Conflict Resolution
Ai conflitti fra nazioni è stata applicata anche la teoria dei giochi.
Nella Prussia dell’Ottocento già George Leopold von Reisswitz e il figlio Georg Heinrich Rudolf Johann avevano inventato il Kriegsspiel, gioco di guerra,  non per giocare alla guerra, ma per farla, simulandola sulla falsariga del gioco degli scacchi.  Nel suo evolversi il gioco di guerra andò svolgendosi con la supervisione di un arbitro.  I moderni wargames possono essere considerati sviluppi del Kriegsspiel. La teoria dei giochi presenta anche un aspetto costruttivo, giacché in base ad essa si può dimostrare che per due competitori è più vantaggioso cooperare piuttosto che combattersi a vicenda. Pertanto alla tradizionale strategia militare dovrebbe subentrare una strategia di altro tipo, orientata all’incontro piuttosto che allo scontro. C’è da augurarsi che anche la Ricerca Operativa si prefigga uno scopo analogo. In definitiva, i modelli matematici non necessariamente risultano adeguati per progettare o prevedere l’andamento di una guerra, mentre si palesano più funzionali alla preparazione alla pace.
I matematici italiani in guerra.
È l’argomento studiato in Laurent Mazliak, Rosanna Tazzioli. Ciascuno secondo il proprio mestiere. Lettera Matematica PRISTEM, 2015, La vittoria calcolata. Hal-01477415. Nel corso della prima guerra mondiale matematici come Vito Volterra, Eugenio Elia Levi, Mauro Picone sono apertamente a favore di un intervento italiano, ma non tutti i matematici li seguono. Vito Volterra, arruolato nell’esercito, non si limita ad assumere la posizione interventista, ma si adopera anche per mettere la matematica al servizio degli strumenti di guerra. Così anche Mauro Picone, che si dedica particolarmente alla balistica in collaborazione con matematici francesi. Dagli scambi epistolari fra matematici si desume entusiasmo patriottico per l’apporto dato alle operazioni belliche. Scrivono Mazliach e Tazzioli a proposito dell’abbandono della ricerca pura:
“L’intento è piuttosto quello di aiutare  concretamente il proprio paese cui si offre il sacrificio dei lavori teorici per consacrarsi alle applicazioni, probabilmente meno profonde, ma di immediato impiego nel conflitto.”
Tuttavia altri matematici erano su posizioni neutrali e ritenevano di dover dedicarsi agli studi teorici. Dalla  ricerca di Mazliach e Tazzioli si desume dunque il riproporsi in forma moderna della dicotomia platonica fra matematica applicata alla guerra e matematica come elevazione dello spirito. Dicotomia che va superata con il ripudio dell’uso della matematica a scopi bellici in seguito all’avvento delle armi nucleari e alla dimostrazione della loro tremenda distruttibilità nel corso della seconda guerra mondiale. Superamento necessario non solo alla matematica, ma alla scienza nel suo complesso.
Ogni pettoruto presidente di nome ma dittatore di fatto, tanto tronfio e eccitato quanto ottuso e stolto, può minacciare il ricorso alle armi nucleari tattiche o peggio con intenzioni ricattatorie.
Contro una tale esaltazione fissata, per usare un’espressione dello psichiatra Ludwig Binswanger, bisognerebbe tener presente di fronte a ogni guerra di aggressione questa presa di posizione di  scienziati russi tradotta dal russo:
“[…] La responsabilità dell’avere scatenato una nuova guerra in Europa è tutta della Russia. Per questa guerra non ci sono giustificazioni […] è del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso […] Scatenando questa guerra la Russia si è autocondannata a un isolamento internazionale, allo status di paese maledetto. Questo significa che noi, studiosi e scienziati, non potremo più svolgere il nostro lavoro come abbiamo fatto finora, in quanto la ricerca scientifica è impensabile senza la collaborazione con colleghi stranieri […]”
Ciò nell’anno 2022 dall’avvento dell’era cristiana.
Albert Einstein (1879 – 1955)
Albert Einstein avvertì l’urgente necessità di adoperarsi per la pace nell’era degli armamenti nucleari.
Ne discusse non solo con lo psicoanalista  Sigmund Freud, ma anche col matematico Bertrand Russell. Dalla collaborazione con quest’ultimo scaturì The Russell-Einstein Manifesto. Eccone l’incipit:
“In the tragic situation wich confronts humanity, we feel that scientists should assemble in conference to appraise the perils that have arisen as a result of the development of weapons of mass destruction, and to discuss a resolution in the spirit of the appended draft.”
È necessaria, dunque, una conferenza degli scienziati per valutare i pericoli sorti per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa e giungere a una comune risoluzione. Sul genere umano, proseguono gli autori del manifesto, incombe una minaccia di estinzione totale. Non solo una H-bomb può distruggere intere città ben più grandi di Hiroshima, ma gli effetti della ricaduta di particelle radioattive possono anche interessare a lungo termine aree ancor più vaste.  Di qui l’inquietante interrogativo:
“Shall we put an end to the human race, or shall mankind renounce war?”
L’alternativa si pone fra rinunciare alla guerra o porre fine al genere umano. Il manifesto si conclude con la proposta agli scienziati di firmare la seguente risoluzione:
“In view of the fact that in any future world war nuclear weapons will certainly be employed, and that such weapons threaten the continued existence of mankind, we urge the governements of the world to realize, and to acknowledge publicly, that their purpose cannot be furthered by a world war, and we urge them, consequently, to find peaceful means for the settlement of all matters of dispute between them.”
Considerando dunque che l’impiego di armi nucleari minaccia di distruggere l’umanità, i governi dovrebbero rinunciare pubblicamente a mettere in atto i loro propositi con la guerra, impegnandosi a risolvere con mezzi pacifici ogni contrasto.
Giorgio Gallo nel suo saggio Costruzione della Pace: quale ruolo per la matematica? osserva opportunamente che la matematica, come ogni altra disciplina, è da considerare nel suo inverarsi in una “persona che vive in una data società e che con il suo comportamento può su essa influire”.
Di qui la responsabilità dei matematici, chiamati a prendere posizione contro la guerra e ad adoperarsi per la pace. Ce lo ricorda fra gli altri in Mathematics and Peace: Our Responsibilities il matematico brasiliano Ubiratan D’Ambrosio, citato da Michele Emmer del Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’articolo La matematica della guerra.
Il destino della civiltà sul pianeta può essere affidato ai matematici?
Mentre l’uomo del nostro tempo è “ancora quello della pietra e della fionda”, come canta Salvatore Quasimodo, ci chiediamo in particolare se i docenti di matematica possano essere tramiti privilegiati di civiltà. Forse più di altre discipline la matematica è in grado di concorrere a plasmare una forma mentis orientata alla pace. L’auspicio è che le giovani generazioni siano formate non solo umanisticamente, ma anche scientificamente e soprattutto matematicamente.
Proposte di approfondimenti
Per approfondire la parte prima: academia.edu/Per_un_lessico_della_politica_pace_e_guerra
Per approfondire la parte seconda: Matematica%26Pace_Articolo.pdf

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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