Generazione Z: l’urgenza di un’educazione alla cybersecurity

Il cybercrime non è più una questione riservata agli esperti di sicurezza o agli hacker professionisti. Oggi la minaccia arriva sempre più spesso da adolescenti e giovani adulti che utilizzano strumenti sofisticati con una leggerezza disarmante. Come ha spiegato Alessandro Curioni, Presidente di DI.GI. Academy, durante un incontro con la stampa al Fortinet Security Day 2025, «la grande minaccia siamo sempre noi stessi».

Secondo Curioni, l’età media dei nuovi criminali informatici si è drammaticamente abbassata: molti dei protagonisti di attacchi recenti hanno tra i 17 e i 20 anni. Un segnale che va oltre la cronaca: è la prova di un divario generazionale ed etico che sta lasciando spazio a comportamenti sempre più privi di consapevolezza. «La generazione precedente non è stata in grado di trasferire dei valori etici che devono essere messi in campo nel momento in cui utilizziamo strumenti potentissimi», ha osservato Curioni, sottolineando come l’accesso illimitato alle tecnologie digitali abbia reso possibile a chiunque, indipendentemente dall’età, di agire in modo potenzialmente dannoso.

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Dal social engineering alla criminalità come servizio

Il fenomeno non riguarda soltanto l’età dei soggetti coinvolti, ma anche il modo in cui si organizzano. Oggi le piattaforme di cybercrime funzionano come vere e proprie aziende, con modelli di business che ricordano il software-as-a-service. Gruppi come Scattered Spider, citato da Curioni, operano sfruttando reti criminali già strutturate e piattaforme di supporto come Dragon Force, gestita interamente da intelligenza artificiale.

«Un ragazzino che non ha in tasca un euro può commettere crimini e pensare di farci soldi facili», ha spiegato Curioni. È il ribaltamento del paradigma tradizionale del crimine: non serve più competenza tecnica o accesso a risorse particolari, basta saper utilizzare strumenti online che automatizzano il furto di dati, la diffusione di malware o le campagne di phishing.

A questo si aggiunge la componente del social engineering, che Curioni definisce «la grande specialità di questi giovani criminali». Sono capaci di instaurare fiducia, manipolare le emozioni e convincere le persone a compiere azioni contro il proprio interesse. «Sono simpatici, convincono la gente a fare delle cose», ha aggiunto, descrivendo una generazione di hacker che usa più la psicologia che la programmazione per raggiungere i propri obiettivi.

Il vero digital divide è culturale

La riflessione di Curioni va oltre la dimensione tecnica. La diffusione del cybercrime tra i più giovani è per lui un segnale di un deficit educativo profondo, un “digital divide” che non riguarda la disponibilità di tecnologia, ma la capacità di comprenderne i rischi.

Secondo Curioni, «la tecnologia è una commodity anche per i criminali». Ciò che manca, piuttosto, è un modello culturale e familiare in grado di insegnare l’uso consapevole degli strumenti digitali. «Bisogna agire sulle famiglie, aumentare la cultura digitale», ha ricordato, spiegando come la prevenzione debba partire dai genitori e non solo dalle scuole.

L’esperienza diretta di Curioni nelle scuole italiane conferma questa necessità. «Quando vado a parlare di sicurezza informatica, non voglio parlare con gli studenti, ma con gli insegnanti e i genitori. Perché io domani non ci sono, ma l’ecosistema rimane quello lì». La mancanza di un intervento educativo stabile fa sì che, dopo poche settimane, «tutto torni come prima».

L’educazione alla cybersecurity parte dalla tavola di casa

L’educazione alla cybersecurity non inizia nei laboratori informatici, ma nella vita quotidiana. Curioni ne dà un esempio concreto: «Se ti lamenti che tuo figlio mangia col telefono in mano a tavola, probabilmente lo hai fatto anche tu quando lui era piccolo». È un’immagine semplice, ma potente: la trasmissione inconsapevole di comportamenti digitali sbagliati, che diventano abitudini normalizzate e difficili da correggere.

Questo approccio sposta il tema della sicurezza informatica dal piano tecnico a quello educativo. Ogni famiglia diventa il primo luogo in cui si costruisce la consapevolezza digitale, e ogni gesto — anche apparentemente banale — può trasformarsi in un insegnamento o in una vulnerabilità.

L’intervento di Curioni richiama così alla responsabilità intergenerazionale: la sicurezza, nella sua visione, è una forma di cultura condivisa, non un protocollo tecnico ma un’abitudine sociale.

Giovani hacker e rischio di crimine diffuso

Se le piattaforme di AI abbassano le barriere d’ingresso, il rischio è quello di un crimine informatico diffuso e incontrollabile. Curioni teme che anche in Italia si possa assistere a un aumento dei casi di minorenni coinvolti in reati digitali. «Questi diventano gli incidenti principali perché inconsapevoli, impegnati, possono fare molto», ha avvertito.

La mancanza di consapevolezza non riduce la pericolosità: al contrario, la amplifica. Gli attacchi non sono sempre frutto di organizzazioni strutturate, ma di ragazzi che sperimentano strumenti pericolosi senza comprenderne le conseguenze legali o etiche. È un problema complesso perché non si può risolvere solo con la repressione o la tecnologia: serve una strategia culturale di lungo periodo.

La paura di riconoscere la minaccia

Uno degli aspetti più inquietanti, secondo Curioni, è la riluttanza collettiva a riconoscere la natura cyber di molti incidenti. «Ogni volta che c’è un blackout o un guasto, la prima domanda che mi fanno è: “Può escludere che si tratti di un attacco cyber?”», ha raccontato. «E quando dico che non lo so, la risposta è: allora va bene, sarà solo un errore tecnico».

Curioni denuncia un atteggiamento di rimozione culturale: preferiamo pensare che si tratti di un problema meccanico, «una vite», piuttosto che affrontare la possibilità che dietro ci sia un’azione informatica. «Siamo contenti perché era solo una vite. Ma quella vite ha fatto diciotto morti», ha ricordato, sottolineando come questa negazione impedisca di affrontare la realtà e di costruire una vera cultura della sicurezza.

Verso un’alfabetizzazione digitale diffusa

Dalle parole di Curioni emerge un messaggio netto: la cybersecurity non è una questione per esperti, ma un’esigenza collettiva. Ogni cittadino digitale, a partire dai più giovani, dovrebbe ricevere una formazione di base su rischi, comportamenti sicuri e conseguenze legali.

L’alfabetizzazione digitale — spiega — non può essere un intervento occasionale, ma un percorso continuo che coinvolga scuola, famiglia e istituzioni. La consapevolezza non nasce spontaneamente: va coltivata con esempi, regole e responsabilità condivise.

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