Pause cerebrali in classe

Perché le pause cerebrali sono fondamentali (e perché la LIM le rende ancora più magiche)

A scuola chiediamo ai bambini attenzione, concentrazione, ascolto, presenza. Ma il loro cervello funziona per cicli: alterna momenti di focus a momenti in cui ha bisogno di staccare, muoversi, respirare e… celebrare i propri piccoli successi. Le pause cerebrali servono proprio a questo: ricaricano l’energia, migliorano la memoria, aumentano la motivazione e permettono di tornare all’apprendimento con una mente più fresca e pronta.

Lavorare con la LIM in questo processo è preziosissimo: ci permette di coinvolgere i bambini in modo multisensoriale, di farli muovere, ballare, seguire un ritmo, imitare, interagire. L’esperienza diventa viva, corporea, divertente. E quando il corpo si muove, anche il cervello impara meglio.

Negli anni ho raccolto i link che funzionano davvero, quelli che ho testato, selezionato e custodito come piccole risorse preziose.
Ecco la mia Linkoteca delle Pause Cerebrali: una raccolta di attività che potete usare ogni giorno per dare energia nuova alla vostra classe. Mi raccomando: tenete d’occhio il link perchè ogni tanto caricherò altri video!

Che ne pensate? Vi aspetto nei commenti

PAUSE CEREBRALI PER ALLEGGERIRE IL CARICO DURANTE LE LEZIONI:

Addams family 

Hands warm up https://youtu.be/lYtBIfCNL_8?feature=shared

EXERCISE from sit 

Twinkle Twinkle Little star https://youtu.be/5he1sCixSLM?feature=shared

Musical INSTRUMENTS

Movement Break

Video game workout https://www.youtube.com/watch?v=DO-R5EfG_N4

Yoga freeze dance 

Musica de colors

Immersive Interactive Warm-Up 

https://youtu.be/G1VmLofwcHE?si=9m29BeGGyupakaLn

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Muoversi a ritmo

ARTICOLO SCRITTO DA: FRANCESCA DA RE FORMATRICE SCUOLA OLTREMUOVERSI A RITMO“Forza bimbi, a ritmo con la musica!” “E un, due, tre…e un, due, tre” “Guarda, ha il ritmo nel sangue!” “Mettiamo la musica e cerchiamo di andare a ritmo”… Ritmo… Ritmo… Ritmo… una parola semplice a dirsi quanto difficile da realizzare e trasmettere al prossimo. Solitamente le persone si dividono in due gruppi: chi il ritmo lo sente a pelle, chi il ritmo non lo sente per niente; ma è davvero così marcata e invalicabile la linea tra questi due gruppi di persone? Assolutamente, no!Secondo la definizione della Treccani[1], la parola “ritmo” significa «il succedersi ordinato nel tempo di forme di movimento, e la frequenza con cui le varie fasi del movimento si succedono». Il termine ha una bellissima origine che ci riporta al greco ῥυϑμός, affine al verbo ῥέω che significa “scorrere”: il ritmo è qualcosa che scorre, che fluisce con costanza, come lo scorrere naturale dell’acqua di un ruscello. Con riferimento ai movimenti, viene definito con «passi, mosse studiati in modo che ne risulti un movimento armonico, come di danza». Ed ecco un’altra parola del mondo della musica, armonia, che insieme al ritmo sono due dei tre elementi costitutivi della musica, insieme alla melodia.Tradurre il ritmo in azioni e movimenti non è scontato e semplice, ma è un processo che va insegnato e accompagnato nella sua evoluzione. Il ritmo in fondo ce lo abbiamo dentro di noi fin dalla nascita, anzi ancor prima, dalla vita intrauterina in cui un ritmo incessante e forte si fa sentire dentro il nostro corpo: il battito cardiaco! Tu Tum…Tu Tum…Tu Tum… Fa parte di noi, anche se non sempre lo ascoltiamo, spesso nemmeno lo sentiamo, eppure questo ritmo innato ci accompagna da sempre ed è il punto di partenza per tutti noi per sviluppare il senso del ritmo.Il primo passo è quindi quello di iniziare ad ascoltarsi e poi ad ascoltare ciò che c’è attorno a noi, i suoni della natura, le melodie, le musiche e farle nostre, trovando quella regolarità di suoni che lo rende meraviglioso, così ipnotico, e che lo fa distinguere dal resto di rumori e suoni senza definizione. Solo allora potremo fare il passaggio successivo, ovvero replicare il ritmo con movimenti del nostro corpo. Sentire, ascoltare, interiorizzare ed esprimere.Sono passaggi obbligatori per lo sviluppo di questa capacità, sia per noi adulti, ancor di più nei bambini, ma che con costanza, lungimiranza nel tempo e attività specifiche possono far germogliare quel piccolo semino che è il ritmo che è già dentro di noi e di loro.Il ritmo e la sua espressione con il movimento rientrano nelle sette Capacità Coordinative identificate dal Blume nel 1981[2]: tali capacità sono «i presupposti della prestazione motoria di un soggetto, in parte sviluppabili e in parte predeterminate geneticamente, determinate prevalentemente dai processi di controllo del movimento, che rendono un soggetto più o meno capace di esercitare con successo determinate attività motorie». Da questa definizione si capisce la loro importanza per i bambini di oggi (e adulti di domani) in quanto sono alla base del controllo del movimento: per essere acquisite sviluppano analizzatori sensoriali, cinestetici e percettivi, dislocati in tutto il corpo, e sono collegate allo sviluppo del Sistema Nervoso Centrale.Nello specifico, il Blume definisce la capacità di ritmizzazione come «la capacità di intuire un ritmo imposto dall’esterno e di riprodurlo nei propri movimenti o la capacità di riprodurre un ritmo frutto della propria immaginazione o memoria». Anche in questo caso, l’acquisizione e lo sviluppo di questa capacità andrà per gradi, iniziando prima dal tradurre in movimento un ritmo esterno e solo successivamente riproducendo in maniera autonoma un proprio ritmo inventato o ricordato.Seppur tale capacità ha come fase sensibile i 7 e 11 anni circa (per fase sensibile intendiamo l’età in cui il bambino è maggiormente predisposto a sviluppare e apprendere tali capacità), il seme del ritmo va stimolato già in tenera età, in modo da preparare il terreno fertile per la futura evoluzione.Piccoli accorgimenti durante le lezioni di motricità e attività specifiche proposte con costanza nel tempo durante l’anno scolastico e, in maniera continuativa, da un anno all’altro, bastano per stimolare l’ascolto e l’interiorizzazione del ritmo esterno: muoversi o camminare seguendo il battito di mani, muoversi a turno battendo mani e piedi seguendo le indicazioni date dall’esterno, percuotere il proprio corpo come uno strumento a percussione insieme ai compagni e/o seguendo strutture ritmiche semplici, muoversi in maniera differente a seconda della melodia della musica di sottofondo.Queste sono solo alcune delle proposte a corpo libero che possono essere portate alla Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo di Scuola Primaria: altrettante possono essere fatte con l’utilizzo di piccoli strumenti e materiali che ci possono essere di supporto per il ritmo, ma anche per il gioco. Se al ritmo e alla musica abbiniamo anche testi di storie e poesie, il lavoro sulla ritmizzazione diventa molto più ampio e trasversale, e soprattutto magico per i bambini! Il suono e il ritmo che pervade tutto, noi e la stanza, il movimento del corpo che ci fa sentire parte di queste note, le parole che accompagnano questa espressione in un viaggio attraverso storie e mondi paralleli.Se vuoi approfondire quanto letto in questo articolo, il corso “Parole, Movimento e Musica: un incontro stupefacente!” è quello che fa per te!

Allenare l’attenzione a scuola

Allenare l’attenzione a scuola

Strategie didattiche e neuroscienze per contrastare la distrazione nell’epoca digitale

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Mai come oggi l’attenzione appare fragile, instabile, frammentata. Il pensiero, invece di procedere con continuità, viene trascinato da uno sciame incessante di notifiche, stimoli digitali, richiami visivi che interrompono il flusso interiore e impediscono la concentrazione prolungata. Viviamo immersi in una cultura dell’immediatezza, dove la velocità di reazione viene premiata più della profondità della riflessione, e dove il tempo dedicato alla lentezza mentale sembra un lusso fuori moda. In questo scenario, educare alla concentrazione non è soltanto un compito pedagogico, ma una vera e propria urgenza antropologica poiché, senza la capacità di focalizzare l’attenzione, viene meno la possibilità stessa di comprendere, elaborare, interiorizzare.

È proprio in questa sfida, silenziosa, ma decisiva, che si gioca gran parte del futuro educativo delle nuove generazioni. Le neuroscienze cognitive, attraverso gli studi sull’elaborazione dell’informazione, la plasticità cerebrale e l’architettura dei circuiti attentivi, offrono oggi una chiave preziosa per comprendere come funziona la mente quando è presente a se stessa, e quali condizioni ne favoriscono o ostacolano l’equilibrio.

Non si tratta solo di acquisire nozioni tecniche, ma di ripensare l’intera pratica didattica alla luce di ciò che la scienza ci insegna sulla mente umana. Un ambiente scolastico che voglia davvero educare all’attenzione deve saper costruire contesti favorevoli: spazi che rispettino i tempi cognitivi, strategie che promuovano il focus, pratiche che valorizzino la calma, il ritmo, il silenzio, come strumenti mentali e non meri vuoti da colmare.

E allora, quali sono le basi neurocognitive dell’attenzione? In che modo le distrazioni digitali alterano i nostri processi mentali? Quanto conta la memoria di lavoro nella gestione dell’apprendimento? E soprattutto quali pratiche educative possono trasformare l’aula in uno spazio di attenzione viva e consapevole, restituendo dignità al pensiero lento, profondo, autenticamente umano?

Le basi neurocognitive dell’attenzione

Il cervello umano è progettato per concentrarsi su un numero limitato di stimoli per volta, a causa della natura selettiva e finita delle risorse cognitive disponibili. L’attenzione selettiva, ovvero la capacità di filtrare ciò che è rilevante da ciò che è irrilevante, rappresenta uno dei principali strumenti di sopravvivenza del sistema nervoso, consentendo di indirizzare l’energia mentale verso obiettivi specifici e significativi. Questa funzione è regolata da una rete neurale complessa che include la corteccia prefrontale dorsolaterale, sede delle funzioni esecutive, l’area parietale superiore, implicata nell’orientamento dell’attenzione spaziale, e il cingolato anteriore, che monitora l’errore e regola il conflitto cognitivo.

Il sistema attentivo si articola in diverse componenti funzionali che cooperano ma possono anche interferire tra loro: l’attenzione sostenuta permette di mantenere la concentrazione per periodi prolungati, l’attenzione selettiva filtra gli stimoli distraenti, mentre l’attenzione divisa consente di svolgere più compiti simultaneamente, sebbene con prestazioni ridotte. Ogni componente è sottoposta a vincoli neurobiologici precisi e può essere influenzata da variabili come il livello di stress, il carico emotivo o la stanchezza. In condizioni di sovraccarico cognitivo, tipico delle aule con ritmi serrati e stimoli molteplici, si verifica un rapido decadimento dell’efficienza attentiva, con effetti a cascata sulla memoria di lavoro, sulla capacità di elaborazione e sul benessere mentale.

Comprendere questi limiti significa non solo evitare di esigere attenzione continua e uniforme da tutti gli studenti, ma anche progettare ambienti educativi più intelligenti e adattivi. Rispettare i tempi cognitivi, evitare l’eccesso di multitasking, favorire la varietà sensoriale ben calibrata e introdurre momenti di decompressione cognitiva rappresentano scelte fondamentali per sostenere il funzionamento ottimale delle risorse attentive. In quest’ottica, l’educazione diventa non solo trasmissione di contenuti, ma anche cura del ritmo mentale con cui quei contenuti vengono recepiti, elaborati e integrati nella memoria e nell’identità dello studente.

L’effetto delle distrazioni digitali sull’apprendimento

Le tecnologie digitali, se da un lato rappresentano una risorsa per la didattica, dall’altro costituiscono oggi uno dei principali fattori di interferenza nella capacità di attenzione, soprattutto nei soggetti in età evolutiva. La continua esposizione a notifiche, messaggi, video brevi, contenuti visivi dinamici e piattaforme progettate per massimizzare l’interazione compulsiva stimola in modo persistente il circuito dopaminergico della ricompensa, generando una sorta di dipendenza da novità. Questo processo, noto come novelty-seeking, produce un’abitudine cerebrale a frammentare la concentrazione in micro-intervalli attentivi, impedendo la costruzione di un focus prolungato e coerente su un compito unico.

Dal punto di vista neurofisiologico, studi condotti attraverso tecniche di neuroimaging funzionale (fMRI) hanno evidenziato come l’uso continuativo e non regolato di dispositivi digitali sia associato a una minore attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale durante compiti cognitivi ad alta richiesta. Ciò compromette il controllo esecutivo, ovvero la capacità di pianificare, organizzare, regolare le emozioni e inibire risposte impulsive. Inoltre, l’alternanza rapida tra compiti digitali diversi (scrolling, messaggistica, video) riduce la soglia di tolleranza alla noia, ostacola la memoria di lavoro e indebolisce i processi di codifica a lungo termine.

In ambito scolastico, questi effetti si manifestano con crescente frequenza: difficoltà a mantenere l’attenzione durante una spiegazione, incapacità di sostenere la lettura di un testo complesso, ridotta persistenza nello svolgimento di compiti impegnativi. La cultura della distrazione, alimentata da uno stile cognitivo iperattivo e dispersivo, si insinua nelle aule e finisce per normalizzare la disattenzione come tratto comportamentale. La sfida educativa, oggi, consiste quindi non solo nell’utilizzare le tecnologie in modo funzionale, ma nel progettare ambienti e tempi che consentano una riabilitazione dell’attenzione, rendendo possibile un apprendimento intenzionale, profondo e durevole.

Strategie per proteggere l’attenzione e favorire la concentrazione

Per contrastare la frammentazione dell’attenzione, è necessario progettare ambienti di apprendimento che rispettino profondamente il funzionamento cerebrale e le dinamiche neurocognitive dell’elaborazione delle informazioni. Le neuroscienze suggeriscono che il cervello apprende in modo più efficace quando le informazioni sono presentate in sequenze brevi, logicamente strutturate e intervallate da pause di recupero attentivo. Tali pause non solo favoriscono il consolidamento delle tracce mnestiche, ma riducono il carico cognitivo e prevengono l’affaticamento della corteccia prefrontale, sede del controllo esecutivo e della regolazione dell’attenzione.

Lezioni costruite in moduli brevi e significativi, con cambi di attività ogni 15-20 minuti, si sono rivelate particolarmente efficaci per sostenere la vigilanza e ridurre il decadimento dell’attenzione sostenuta. L’impiego di narrazioni evocative, metafore coinvolgenti e domande aperte stimola il circuito dopaminergico mesolimbico, legato alla curiosità e alla motivazione intrinseca. L’apprendimento diventa allora non un esercizio meccanico, ma un’esperienza emotivamente partecipata, più facilmente ancorabile alla memoria a lungo termine.

Anche l’attività fisica breve, come il brain break o l’intervallo attivo, incide positivamente sull’attivazione cerebrale. Brevi movimenti o pause motorie migliorano la circolazione, riducono lo stress e favoriscono il rilascio di neurotrasmettitori benefici come la serotonina e la noradrenalina. Questi cambiamenti fisiologici favoriscono il ritorno alla concentrazione e l’apertura all’apprendimento. In questa prospettiva, il corpo e la mente non sono entità distinte, ma sistemi integrati da armonizzare.

Fondamentale è, inoltre, l’educazione metacognitiva, poichè insegnare agli studenti a riconoscere i segnali interni di distrazione, a gestire l’autoregolazione cognitiva, a pianificare pause e strategie di ripasso consente loro di sviluppare autonomia, consapevolezza e padronanza delle proprie risorse mentali. Un alunno che sa osservare i propri stati attentivi è in grado di intervenire su di essi, interrompendo il circolo della disattenzione prima che si cronicizzi. L’educatore, in questo contesto, diventa facilitatore di consapevolezza, mediatore tra neuroscienza e didattica, promotore di un apprendimento profondo e duraturo.

Il ruolo della memoria di lavoro nell’apprendimento scolastico

La memoria di lavoro è una funzione cognitiva centrale e sofisticata che consente al cervello di trattenere, manipolare e integrare temporaneamente le informazioni necessarie per svolgere un compito complesso, come comprendere un testo, risolvere un problema matematico o partecipare a una conversazione. Essa funge da ponte tra percezione e memoria a lungo termine, ed è considerata un indicatore cruciale della capacità di apprendimento. Tuttavia, la memoria di lavoro è fortemente limitata nella sua ampiezza e, secondo le teorie più accreditate, può gestire da quattro a sette unità di informazione alla volta, il che la rende vulnerabile al sovraccarico, specialmente in ambienti scolastici ricchi di stimoli e richieste simultanee.

Essendo strettamente legata all’attenzione, ogni interferenza attentiva compromette la qualità del processo di memorizzazione temporanea. Quando uno studente si trova di fronte a compiti cognitivamente sovraccarichi o a informazioni disorganizzate e prive di significato contestuale, la memoria di lavoro si esaurisce rapidamente, generando un blocco cognitivo. Questo si traduce in difficoltà nella comprensione di testi, nella risoluzione di problemi, nell’organizzazione del discorso e nel mantenimento della motivazione. L’attività cerebrale mostra una diminuzione dell’efficienza delle reti fronto-parietali, con conseguente riduzione della capacità di autoregolazione.

Una didattica realmente inclusiva e attenta ai meccanismi cognitivi deve prevedere strategie per alleggerire il carico della memoria di lavoro e facilitarne il funzionamento. L’uso di mappe concettuali, schemi visivi, organizzatori grafici e sintesi strutturate fornisce ancoraggi cognitivi che supportano la costruzione del significato. Tecniche di scaffolding, ovvero di sostegno graduale e temporaneo, accompagnano lo studente nel processo di interiorizzazione, facilitando il passaggio dalla dipendenza alla competenza autonoma. Inoltre, l’insegnamento esplicito di strategie di categorizzazione, chunking, rievocazione attiva e auto-spiegazione contribuisce a ottimizzare la capacità di elaborazione e a potenziare l’autoefficacia cognitiva.

Integrare queste strategie nella quotidianità scolastica significa trasformare l’aula in un laboratorio cognitivo consapevole, dove l’apprendimento non è affidato al caso ma progettato in funzione delle capacità del cervello umano. Il potenziamento della memoria di lavoro non solo migliora la concentrazione, ma getta le basi per un apprendimento duraturo e significativo, che rafforza l’identità dello studente come soggetto capace di pensare, comprendere e trasformare il proprio sapere.

L’ambiente educativo come alleato dell’attenzione

L’attenzione è influenzata non solo dai processi cognitivi interni, ma anche e in modo decisivo dall’ambiente fisico, sensoriale ed emotivo in cui l’individuo è immerso. Numerosi studi di neuroscienze ambientali e psicologia dell’educazione hanno dimostrato che l’ambiente esterno può modulare direttamente il livello di vigilanza, la qualità della concentrazione e la disponibilità all’apprendimento. Ambienti rumorosi, visivamente caotici, privi di ordine percettivo o saturi di stimoli disturbanti interferiscono con i processi di filtraggio sensoriale, costringendo il cervello a un continuo lavoro di inibizione degli stimoli irrilevanti, con un conseguente affaticamento della corteccia prefrontale.

Allo stesso modo, il clima emotivo relazionale gioca un ruolo determinante. Atmosfere fredde, giudicanti o improntate alla competizione attivano i circuiti limbici dell’allerta e dello stress, in particolare l’amigdala, riducendo l’accesso alle funzioni esecutive superiori necessarie per l’apprendimento complesso. Invece, ambienti empatici, cooperativi e basati su un senso condiviso di sicurezza e appartenenza favoriscono il rilascio di ossitocina e serotonina, neurotrasmettitori che promuovono la calma, la fiducia e la disponibilità a imparare.

Per questi motivi è fondamentale che l’allestimento degli spazi educativi venga pensato non come elemento accessorio, ma come parte integrante della progettazione didattica. La scelta dei colori, l’uso di materiali naturali, la qualità della luce, l’acustica degli ambienti e la disposizione dei banchi influenzano profondamente l’architettura dell’attenzione. Un ambiente prevedibile, ordinato e armonioso facilita la regolazione emotiva e favorisce la disponibilità del cervello a impegnarsi in attività cognitive complesse. Le neuroscienze confermano che un setting ben organizzato supporta lo sviluppo delle funzioni esecutive, la memoria di lavoro, la pianificazione e l’autoregolazione.

Ritualizzare alcuni momenti della giornata scolastica, come l’accoglienza iniziale, il passaggio tra una lezione e l’altra o la chiusura dell’attività, permette di stabilizzare i ritmi cognitivi, creare sicurezza prevedibile e rafforzare la memoria procedurale. Questi piccoli rituali agiscono come segnali temporali e simbolici che facilitano il passaggio da uno stato mentale all’altro, aiutando gli studenti a orientarsi, a sentirsi contenuti e a mantenere viva l’attenzione nel tempo. Un’aula, pensata anche come spazio psicologico e neuro-simbolico, può quindi diventare alleata silenziosa dell’apprendimento, generando benessere cognitivo ed emotivo.

Educare all’attenzione come competenza trasversale

Nel contesto attuale, dominato da stimoli incessanti e da una continua sollecitazione della nostra attenzione da parte di ambienti digitali e sociali iperconnessi, è necessario considerare l’attenzione non più come un presupposto naturale dell’apprendimento, ma come una competenza trasversale da coltivare intenzionalmente e sistematicamente. L’educazione all’attenzione diventa così un percorso pedagogico a sé stante, che attraversa ogni disciplina e ogni momento della vita scolastica.

Insegnare a prestare attenzione non può essere ridotto a un invito al silenzio o all’immobilità, bensì richiede la proposta di strumenti concreti per riconoscere, monitorare e regolare i propri stati mentali. È fondamentale aiutare gli studenti a sviluppare una forma di “meta-attenzione”, ovvero la consapevolezza dei propri processi attentivi, dei segnali di distrazione e delle strategie per tornare al compito. Tecniche come la mindfulness, la respirazione consapevole, la concentrazione focalizzata su un oggetto o su un gesto ripetuto, e la visualizzazione guidata si sono dimostrate efficaci nel promuovere l’autoregolazione cognitiva e la stabilità emotiva. Le neuroscienze hanno confermato che queste pratiche attivano circuiti cerebrali legati alla corteccia prefrontale e al sistema parasimpatico, contribuendo a rafforzare la capacità di concentrazione e la resilienza allo stress.

L’obiettivo educativo non è vietare le tecnologie in modo repressivo, ma imparare a convivere con esse con intelligenza e intenzionalità, educando a un loro uso consapevole, critico e finalizzato. Questo significa accompagnare gli studenti nell’acquisizione di competenze digitali orientate al benessere, alla selettività e all’autonomia. In questa prospettiva, promuovere una cultura della presenza mentale non è un compito accessorio, ma una condizione essenziale per garantire il diritto a un apprendimento profondo, libero dalla dispersione continua dell’attenzione.

Quando l’attenzione viene riconosciuta come un’abilità da sviluppare nel tempo, al pari della lettura o della scrittura, è possibile progettare percorsi didattici che integrano consapevolezza, autoregolazione, esercizio riflessivo e responsabilità cognitiva. L’insegnante assume il ruolo di guida nella formazione dell’attenzione consapevole, costruendo spazi di apprendimento in cui il tempo non sia soltanto riempito, ma abitato con presenza, intenzione e senso.

Conclusione

In un tempo in cui la soglia dell’attenzione si abbassa progressivamente, alimentata da una continua interruzione dei processi cognitivi e da una cultura dell’istantaneità, il pensiero rischia di dissolversi nella superficialità, perdendo la capacità di analizzare, rielaborare e generare significati autentici. In questo scenario, la scuola non può limitarsi a trasmettere saperi, ma deve assumere un ruolo rigenerativo, rieducando lo sguardo a sostare, la mente a sostituire la reattività con l’elaborazione, e l’intelligenza a connettere profondamente i saperi con l’esperienza vissuta.

Le neuroscienze ci insegnano che il cervello è plastico e allenabile, e che le abilità attentive possono essere rafforzate o indebolite a seconda della qualità degli stimoli, dei contesti e delle abitudini cognitive proposte. In questo quadro, ambienti scolastici ben progettati e pratiche educative intenzionali diventano veri e propri dispositivi di cura dell’attenzione. La lezione si trasforma in uno spazio per la concentrazione condivisa, l’ascolto profondo e la co-costruzione del sapere.

Compito dell’insegnante è, dunque, quello di assumere una educativa nuova diventando architetto dell’attenzione, capace di orchestrare tempi, silenzi, pause e relazioni; coltivatore di silenzi significativi, che non sono vuoti ma occasioni fertili per la riflessione e l’elaborazione interiore; guida competente nella complessità, capace di sostenere gli studenti nella navigazione di un mondo affollato di stimoli ma povero di senso.

Solo restituendo valore al tempo lento, alla profondità, alla fatica cognitiva e alla presenza reale sarà possibile contrastare efficacemente l’epidemia della distrazione. Così facendo, l’educazione tornerà ad aprire le porte non solo alla conoscenza come accumulo di dati, ma all’esperienza viva e trasformativa della comprensione, un’esperienza in cui il sapere si radica, si interroga e diventa parte dell’identità.

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