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L. Ravera, Più dell’amore

Ravera scrive della “roba d’altri”

  di Antonio Stanca

   Altri tre romanzi brevi di tre note scrittrici italiane sono usciti a partire dallo scorso Settembre per conto della casa editrice Rizzoli su licenza Mondadori Libri. Le scrittrici sono Viola Di Grado con Questo mondo non è casa, Lidia Ravera con Più dell’amore e Jennifer Guerra con La fabbrica di bottoni. Fanno parte le loro opere della collana “Dieci Comandamenti” promossa ultimamente dalla Rizzoli, composta da dieci romanzi brevi finalizzati ognuno a rappresentare, interpretare in chiave moderna e per mano femminile uno dei Comandamenti dell’Antico Testamento. Alcuni di questi romanzi sono già usciti, gli altri usciranno dopo quelli di Settembre. È in preparazione anche una serie televisiva intitolata “Undici” e dedicata a questo progetto. Un progetto editoriale abbastanza originale: dieci scrittrici si sono impegnate a rielaborare i Dieci Comandamenti, a commentarli, chiarirli, dare loro forma, figura tramite vicende presentate in una narrazione, tramite lo svolgimento di una trama, lo sviluppo di un romanzo. Molto originale e molto moderno il progetto della Rizzoli se si pensa che sono interessate soltanto donne e che spetta a loro saper dire di un tema così antico in tempi così recenti. Questo ci si attende dalle dieci opere della collana, scoprire in che modo la contemporaneità possa stare accanto alla più remota antichità, come possa una scrittrice d’oggi riportare a regole, principi problemi così lontani. Nonostante le difficoltà previste si può dire che abbastanza bene sono riuscite le opere finora comparse, che capaci si sono mostrate ognuna di una trama che lascia intravedere l’antico Comandamento al quale s’ispira e lo collega con la moderna situazione alla quale è giunto. Quella combinazione tra passato e presente, che sembrava tanto complicata, sta avvenendo e con un certo successo. Così è stato pure per Lidia Ravera in Più dell’amore, il suo romanzo breve che vuole commentare, esemplificare il Decimo Comandamento “Non desiderare la roba d’altri”.

    Ravera è una giornalista e scrittrice torinese, ha settantaquattro anni e molto e di molti argomenti ha scritto. Ha esordito nel 1976, quando aveva venticinque anni, col romanzo Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti. Lo scrisse insieme a Marco Lombardo Radice e fu un successo straordinario. L’opera vendette tre milioni di copie, fu molto tradotta e avviò, nell’ampia produzione di romanzi e racconti della Ravera, quella prima fase dedicata alla giovinezza, ai suoi problemi. Sarà seguita da altre opere dove si dirà soprattutto della difficile emancipazione femminile, dei problemi che ha comportato e ancora comporta, degli ostacoli che sono rimasti. Sarà il motivo fondamentale della produzione narrativa della Ravera, il tema di tante opere della sua maturità, quello nel quale sarà possibile riconoscerla. Col tempo, però, sarebbe tornata a scrivere degli adolescenti, dei giovani. Anche giornalista sarebbe stata nonché sceneggiatrice per il cinema e la televisione. Molto premiata e apprezzata sarebbe risultata per la convinzione, la sicurezza, la precisione con la quale avrebbe sostenuto le sue posizioni riguardo a tanti problemi, a tanti fenomeni dell’attualità più recente. Uno tra i migliori esempi del moderno intellettuale impegnato nell’opera e nella vita, nell’arte e nella storia, è il suo. Non poteva, quindi, mancare la Ravera in un’operazione come quella dei “Dieci Comandamenti” tanto carica d’impegno sociale, morale e letterario. In Più dell’amore intende dar vita, voce, movimento a quanto enunciato nel Decimo Comandamento, animare intende quanto si era detto allora e confrontarlo con quanto si può dire ora a tal proposito. Lo farà tramite un’opera che mostra la vita di due quarantenni nella Roma dei nostri tempi. Hanno una figlia adolescente, Sara, ma nessuno dei due ha un lavoro stabile che garantisca una qualche certezza. Entrambi, Tom e Betta, hanno nutrito aspirazioni artistiche, lui come regista, lei come attrice, ma nessuno ha avuto successo e dopo qualche breve periodo sono stati licenziati. Hanno seri problemi di sussistenza, stanno in una casa molto piccola e scomoda soprattutto per la figlia e le sue esigenze. Anche per l’alimentazione hanno problemi, sono molto poveri, hanno debiti presso negozi e altri posti. Spesso marito e moglie giungono a litigare e in quei casi lui va a stare per qualche tempo da sua madre. Sarà in uno di quei periodi che lei, donna ancora bella e attraente, s’imbatterà in un nobiluomo di altri tempi, il conte Paolo von Arnim. Betta non lo sa ancora, lo saprà dopo e intanto è meravigliata dal garbo, dalle attenzioni, dalle galanterie che quell’uomo le rivolge e che giungeranno al punto da farli incontrare spesso, da farli stare in casa di lui e pranzare serviti dai domestici e per un certo tempo. Lui è vecchio rispetto a lei ma molto attento nel portamento, molto curato nel vestire, molto ricca è la sua casa nell’arredamento, negli ornamenti, nel personale di servizio, nelle stanze, nei locali e in tutto quanto la compone. Betta gli farà sapere delle condizioni sue, della sua famiglia e lui provvederà a offrirle dei regali, ad aiutarla economicamente. Per lei sarà come entrare a far parte di un’altra vita, non le sembrerà possibile, vera quella situazione. Ne parlerà al marito che s’insospettirà, saprà della nobiltà di Paolo, della sua ricchezza, lo vedrà innamorarsi di lei, le sembrerà giusto accettare i suoi regali, i suoi soldi fino al punto da approfittare, da “desiderare la roba d’altri”, da trafugarla. Sarà allora che Paolo darà ai poveri tutto quello che possiede compresa la casa che aveva pensato di dare a lei, sarà allora che non si farà trovare per molto tempo e che morirà solo e malato lasciando ricadere Betta tra le sue miserie.

    Così ha creduto la Ravera di dare forma al Decimo Comandamento, mostrando come il desiderio finisca col venire punito quando diventa smodato, senza regole, quando diventa invidia, cupidigia. È tratto dalla vita moderna questo evento, è dei nostri giorni ma lascia trapelare anche il clima di quel Comandamento di tanto tempo fa. Niente dei due momenti ha negato la scrittrice, li ha composti, li ha richiamati, ha fatto vedere come possano stare insieme, come possano valere entrambi, come di entrambi si possa fare un’opera sola, un’opera che invita a riflettere su quanto è accaduto prima e quanto accade adesso riguardo allo stesso problema, su come sia possibile trovare delle somiglianze nonostante il tanto tempo trascorso.

V. Andreoli, Lettera sull’amore (A tutte le età)

Di Andreoli o dell’amore

di Antonio Stanca

   È da poco comparsa, allegata al Corriere della Sera, nella serie Idee Solferino, Lettera sull’amore (A tutte le età), un ampio studio di Vittorino Andreoli riguardo al fenomeno dell’amore, alla sua importanza, al suo significato, al suo valore, al suo modo di manifestarsi, costituirsi, agire.

   Andreoli è nato a Verona nel 1940. Diplomato geometra, frequenta Medicina all’Università di Padova, si laurea e si dedica allo studio del cervello, dell’encefalo e della correlazione tra neurobiologia e comportamento animale e umano. Specialista in psichiatria, in farmacologia, ha lavorato presso l’Università di Cambridge e quella di Harvard negli Stati Uniti. È stato Direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave, è membro della New York Academy of Sciences. Molto ha scritto, molto ha pubblicato, spesso con Solferino, circa quanto studiato, le sue ricerche, le sue scoperte. Ai primi anni ’70 risalgono le prime pubblicazioni. Lo studio del cervello, la psichiatria, sono risultati i temi più trattati. Molta diffusione hanno avuto le sue opere, molto tradotte sono state, molti riconoscimenti e una fama internazionale gli hanno procurato. Ammirata è la sua maniera di far risultare semplici, chiari pure argomenti così complicati come quelli relativi alla psiche umana, apprezzato è il suo linguaggio che rimane sempre vicino a chi legge quasi cercasse la sua comprensione, la sua approvazione. Andreoli è lo scienziato che non si stanca di sapere, di scoprire e che di quanto viene a conoscenza vuol mettere al corrente gli altri quasi fosse un dovere al quale non si può sottrarre insieme all’altro di usare i modi più facili per svolgerlo. La sua indagine, la sua psichiatria va nel profondo, penetra all’interno del fenomeno analizzato e ne porta alla luce aspetti, risvolti, collegamenti che erano rimasti da parte, come esclusi. Completo, totale oltre che facilmente comprensibile risulta l’argomento, il problema quando è Andreoli ad esporlo. Così succede pure in Lettera sull’amore dove di un pensiero, di un sentimento tanto diffuso l’Andreoli, studioso del cervello, famoso psichiatra, svela quanto non si era mai detto o era stato appena accennato. Già all’inizio chiarisce il suo proposito di immaginare di scrivere una lettera e indirizzarla a persone di ogni età, di ogni ceto sociale, di ogni nazionalità. Lo ha fatto per poter procedere, come appunto in una lettera per persone diverse, in un modo che da tutti fosse capito e per poter usufruire di quella libertà, di quell’intimità nell’esposizione che sono proprie di una lettera. Ha rinunciato agli schemi, ai rigori del trattato scientifico e ha fatto di quella sull’amore un’opera di oltre cento pagine liberandolo dalla convinzione che si tratti di un evento occasionale, casuale e attribuendogli un processo, un movimento, assegnandogli una storia che inizia nella mente, nell’animo, che si sviluppa per l’intera vita e che con questa s’identifica. Un carattere, un aspetto, un elemento della persona è l’amore, è presente, agisce già prima che avvenga “l’incontro fatale” tra lui e lei, agirà anche dopo che saranno diventati marito e moglie poiché oltre ad aumentare tra loro sarà l’amore del padre e della madre, quindi quello del nonno e della nonna ed infine l’amore dei più giovani verso i più adulti. Continuerà dopo la morte di questi, nel ricordo, diventerà quello degli eredi e tornerà a ripetersi, a ricominciare tra questi e i loro figli. Un processo destinato a crescere, ad estendersi, a non finire, ad assumere un carattere sociale, a diventare costitutivo della vita, della storia: è questo l’amore, è tutto quanto c’è di buono, di bello, di utile, è aiuto, partecipazione, collaborazione, è attenzione, affetto, è un bene che non distingue, non si risparmia, non finisce. Sarebbe bastato, pensa Andreoli, conservare queste posizioni per evitare che si arrivasse all’attuale crisi di quei valori morali, di quelle convinzioni spirituali che erano state alla base di ogni virtù ed avevano tenuto lontano ogni vizio. Così non è stato e tormentato si mostra lo studioso per dover riconoscere la sconfitta di un sentimento tanto importante, tanto determinante come quello dell’amore. Solo nel suo recupero vede la possibilità della salvezza, solo tornando a credere nell’amore pensa che l’umanità possa riabilitarsi, ritrovarsi, riconoscersi. Non dovrebbe essere difficile, secondo lui, giacché si tratta di un sentimento proprio della specie umana, è soprattutto suo, la distingue da ogni altra, fa parte di ogni momento, di ogni fase della vita compresa quella passata e quella futura. A mostrare la ripetizione, la continuazione, l’eternità di una simile condizione umana è, infatti, impegnato l’Andreoli di quest’opera, a documentarla con riferimenti storici, letterari, a farne un principio, un ideale che ha attraversato i secoli, e che lui pensa possa tornare a valere, a vincere pur di fronte a quanto di negativo sta succedendo ai nostri giorni. È una concezione, però, tanto carica di fiducia nell’amore da trascurare i gravi sconvolgimenti che ultimamente sono sopravvenuti nella storia, nei costumi, da non valutare quanto di nuovo, di diverso, di contrario, di cattivo è successo e succede, da credere possibile una correzione, un recupero ad opera dell’amore quando inutili si sono dimostrati ormai da anni tanti tentativi pur se di altro genere.

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