La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani


Oggi, 10 dicembre, ricorre l’anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Ennio De Giorgi la raccomandava come esempio di sistema assiomatico civile. Un testo scritto da buoni servi della Sapienza.

Oggi ricorre il 77° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: fu approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ogni ricorrenza rischia di diventare un rito formale, ma questo testo — composto da trenta articoli e pubblicato anche sul sito del Senato della Repubblica — merita di essere letto, meditato e fatto rivivere nelle scuole.

Qualche anno fa, l’italiano Ennio De Giorgi, uno dei più grandi matematici del secondo Novecento, ne aveva proposto una lettura singolare e attualissima: considerarlo un sistema di assiomi civili; non un documento politico, ma un modello di pensiero simile a quelli su cui si regge la scienza. Un’idea didattica forte, interdisciplinare: “Si potrebbe distribuire in tutte le scuole il semplice testo della Dichiarazione (senza aggiunte di note o commenti), lasciando che insegnanti, studenti, famiglie riflettano insieme su uno scritto che non è una raccolta di slogan, ma una serie di assiomi…”.

Per capirne appieno il senso, basta ricordare che cosa sia un assioma. In matematica è una verità di partenza: un enunciato che non si dimostra, ma da cui si dimostra tutto il resto. Gli studenti ne fanno esperienza sin dalla scuola primaria, quando apprendono che «per due punti distinti passa una e una sola retta», uno dei cinque assiomi con i quali Euclide, ventitré secoli fa, costruì il sistema assiomatico che ci è più familiare: la geometria.

Eppure, osservava De Giorgi, gli assiomi sono spesso percepiti come diktat, ordini che non richiedono comprensione. È un errore profondo: nella scienza, come nella vita morale, l’assioma non impone, ma dà fondamento; non chiude, ma apre.

È l’atto originario della libertà, perché stabilisce da dove cominciare a costruire un discorso coerente e condiviso. La matematica, cioè, non è affatto il luogo dell’autoritarismo, ma quello della libertà più completa. Possiede inoltre una proprietà che la rende davvero unica: non esiste alcun insieme finito di assiomi capace di renderla, al tempo stesso, un sistema definitivamente completo e coerente al suo interno. Questo significa, in altre parole, che la matematica non avrà mai una fine: ci saranno sempre nuovi teoremi da scoprire, nuove domande da porre, nuove  vie da percorrere. Lo stesso vale, osservava De Giorgi, per la morale e per la fede, che hanno anch’esse i loro sistemi assiomatici.

Un esempio semplice di sistema assiomatico, nell’ambito non matematico, è dato dai Dieci Comandamenti: nella tradizione ebraico-cristiana, dieci princìpi semplici e universali da cui discende un intero modo di vivere e di intendere il bene.

Al centro vi è un precetto che De Giorgi considerava fondamento comune e universale: «Ama il prossimo tuo come te stesso

Nella sua essenzialità, questo enunciato ha la stessa limpidezza logica di un postulato geometrico in modo necessario, unico e irripetibile. È la linea morale che fonda la convivenza umana.

Su questa base si comprende la proposta di leggere la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani come un insieme di assiomi. Alla radice vi sono tre verità elementari: dignità, libertà, uguaglianza. La Dichiarazione diventa così una sorta di “geometria della dignità umana”.

Mi sembra un testo scritto da buoni servi della Sapienza”, osservava De Giorgi. I suoi assiomi vanno dunque letti come i Proverbi — il libro biblico che egli definiva “un’arca di Sapienza”, il luogo in cui il pensiero si intreccia con la vita. È la Sapienza, infatti, che ha costruito la sua casa edificandola “su sette colonne”, che prepara il suo banchetto, imbandisce la sua tavola e invita chiunque desideri comprendere a entrare e sedersi.

Questa immagine è centrale: la Sapienza non comanda, invita; non impone, accoglie; non pretende obbedienza, offre nutrimento. Per De Giorgi, proporre la lettura della Dichiarazione nelle scuole significava proprio questo: invitare studenti e insegnanti alla tavola della Sapienza, a un banchetto di verità essenziali, accessibili a tutti, capaci di orientare la vita comune.

La Sapienza, come d’altronde la matematica, non è il sapere esoterico, ma la forma più alta della ragione umana: quella che sa tenere insieme logica ed etica, precisione e responsabilità, scienza e bene. Essere “servi della Sapienza” significa cercare la verità con rigore e umiltà, far dialogare scienza e morale, unire l’intelligenza alla cura per l’uomo.

Proprio per questo De Giorgi proponeva di leggerla nelle scuole, non come un elenco distaccato, ma come un esercizio di pensiero: individuare i princìpi, seguirne le conseguenze, discutere le incoerenze tra i valori proclamati e la vita concreta. Una lettura, scriveva, che “serve molto di più di tante celebrazioni formali”.

In un tempo in cui parole come “valore”, “giustizia”, “verità”, “diritti” hanno perso molto del loro significato più profondo, questa proposta assume un valore che si erge e resta al di sopra di tutte le altre: richiama alla responsabilità morale, alla formazione della coscienza, a un’educazione che tocchi davvero l’essenziale della condizione umana. È, in fondo, la finalità più alta — e insieme più semplice — che la scuola possa darsi.

Fra i trenta articoli della Dichiarazione, De Giorgi richiamava spesso il 26, dedicato all’educazione: “L’educazione deve mirare al pieno sviluppo della persona umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.” Questo articolo, diceva, è il punto d’incontro fra ragione e amore, fra pensiero e compassione. E aggiungeva: “Chi è meglio disposto alla tolleranza e all’amicizia cerca di superare le incomprensioni che rendono difficile il dialogo tra i diversi gruppi umani.”

La Dichiarazione — concludeva — “può essere letta e discussa nelle classi come un testo di fondazione, come un insieme di assiomi per la vita civile”. Perché la matematica e la sapienza sono due volti della stessa ricerca: entrambe cercano ordine e verità non come dominio sull’altro, ma come servizio alla convivenza e al bene comune.

Le parole conclusive della Dichiarazione, riassumono perfettamente questo ideale:

“L’Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione Universale dei Diritti Umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, affinché ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà.”

La proposta di Ennio De Giorgi è dunque un invito che ha la forma più antica e luminosa della tradizione sapienziale: sedersi alla tavola della Sapienza.  E la Dichiarazione dei Diritti Umani, letta nella chiave suggerita da De Giorgi, è proprio questo: una tavola imbandita di verità essenziali, un luogo dove ragione ed etica si incontrano, una casa aperta in cui imparare a pensare, a comprendere e a convivere.

Altri riferimenti:

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