Ianes: “Una diagnosi di dislessia non patologizza ma aiuta lo studente. Un educatore di plesso che affianca l’attività del docente di sostegno, ecco la sperimentazione”. INTERVISTA

Qual è lo stato dell’inclusione oggi? Ne abbiamo parlato con il Professor Dario Ianes, già docente ordinario di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano, Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento per il quale cura alcune collane, autore di vari articoli e libri e direttore della rivista «DIDA».
Professor Ianes, vorrei partire da una polemica nata dall’affermazione di un noto Professore nella quale afferma che oggi abbiamo una scuola con troppi alunni con diagnosi e che si tende a patologizzare tutte le insufficienze, quanto c’è di vero in questa affermazione?
Partiamo da un dato, non è possibile ragionare in termini così generalizzanti, nel senso che bisogna comprendere cosa voglia dire troppe diagnosi, di quali diagnosi stiamo parlando, perché se noi prendiamo la realtà della situazione scolastica sappiamo che ci sono alunni che hanno una disabilità certificata con L. 104/92 e quello è un mondo che ha delle sue logiche interne.
Quel mondo lì, che è un mondo molto controllato perché ci sono le commissioni, le certificazioni, eccetera, è un mondo che ha al suo interno una logica di incremento, ed è noto, ma è un incremento che ha anche delle fondate basi epidemiologiche. Poi non è un’esplosione, ad esempio nel caso dei disturbi dello spettro dell’autismo abbiamo un incremento importante, ma questo è dovuto da un lato alla maggiore e migliore capacità di diagnosi, di riconoscimento, e dall’altro lato effettivamente da un incremento oggettivo, e questo è un dato mondiale.
Se poi articoliamo ulteriormente il ragionamento, cosa che non ha fatto chi ha esternato quelle affermazioni, e prendiamo come esempio il DSA, cioè il disturbo specifico dell’apprendimento, come ognuno di noi sa non è che si può andare da un medico a farsi fare la “ricetta”, il riconoscimento di una dislessia, disgrafia, discalculia o disortografia è fatto a livello scientifico con dei protocolli del Ministero della Salute, tra l’altro, che prevedono la somministrazione di una serie di test ben precisi, per cui c’è un iter diagnostico, e qui i colleghi psicologi che lo fanno lo sanno molto bene che non è improvvisabile, cioè non è che se ho un alunna in prima o in seconda che non legge bene basta andare dal medico far fare una “ricettina” e così lo patologizzo, se lo faccio riconoscere, o viene riconosciuto in sede clinica, con un apprendimento legato ad un disturbo specifico dell’apprendimento, che è la dislessia, noi non lo stiamo patologizzando, ma lo stiamo salvando, perché possiamo mettere in atto una serie di misure del piano didattico personalizzato e via via fino all’università, che lo accompagneranno positivamente nel suo modo differente di apprendere. Questo è un’altra categoria dove è chiaro che anche lì si vede un incremento, ma si vede un incremento perché riconosciuti con la legge 170 del 2010, per cui è chiaro che prima non venivano riconosciuti.
Se poi andiamo a vedere i dati, intendo i dati veri e non quelli raccontati così a “super spanne”, si noterà, ad esempio, che c’è una grandissima differenza tra nord e sud nell’incidenza di questi disturbi dell’apprendimento, ma non perché al sud il clima o il mare siano più favorevoli, per cui si ha meno dislessia, ma perché i servizi non sono in grado di fare la diagnosi nei tempi necessari, per cui si ha un problema di riconoscimento, questo è a tutto svantaggio dei ragazzini e delle ragazzine che hanno il disturbo. Quindi non è che il sud patologizza di meno e dunque andiamo al sud perché non ci grava del fardello di una diagnosi, in quanto non è affatto un fardello, perché se un alunno ha un vero disturbo ha il diritto che sia riconosciuto ed ha il diritto alle misure compensative che però la scuola non sempre è in grado di adottare.
Poi c’è un terzo ambito che è quello degli altri bisogni educativi speciali; riconoscere un alunno che ha un bisogno educativo speciale, magari perché ha una famiglia particolarmente problematica o perché ha problemi di comportamento per altri motivi, non è affatto un patologizzarlo, è un riconoscere un suo diritto, in questo particolare momento di funzionamento difficoltoso, ad essere trattato dal punto di vista della didattica, delle verifiche e della valutazione in maniera personalizzata.
Quando nel 2012-2013 sono arrivate le normative BES sui bisogni educativi speciali, c’era qualcuno che temeva che ci fosse una patologizzazione e che per qualunque difficoltà venisse messa l’etichetta “BES”, ma questo non è accaduto perché non abbiamo dei numeri “fantastici” di alunni che hanno delle difficoltà. Poi qui sta la responsabilità della scuola, ovviamente, perché non c’è una diagnosi, cioè in questi casi non è che posso mandare l’alunno dallo psicologo per fargli una diagnosi BES, ma è la scuola che si assume la responsabilità di dire che il ragazzino in questo momento ha una difficoltà di funzionamento, di apprendimento, di situazione di relazione, di comportamenti e dunque possiamo e dobbiamo attivare delle misure di tipo personalizzato.
Questo non è affatto patologizzare, ma è riconoscere un diritto che se un alunno è in una situazione delicata e difficile, la scuola è in grado, con la sua flessibilità, di riconoscerlo. Tutto questo dimostra che non siamo di fronte a un’epidemia o a un’invasione di diagnosi, come viene rappresentato, così come quando si butta addosso ai genitori la croce per dire che sono loro che vogliono spianare la strada dei propri figli, che vogliono una scuola dell’ignoranza, della facilizzazione, eccetera, questo è un modo per deviare dal discorso, perché io temo che questi discorsi dei troppi problemi, delle troppe difficoltà, eccetera, siano problematici e siano dei lubrificanti, io li chiamo così, su un terreno scivoloso che è quello del retrocedere rispetto all’inclusione, che è come dire che ci sono troppe patologie, oppure fare paragoni con i propri tempi, in particolare questo discorso mi fa impazzire, “ai miei tempi non c’erano tante patologie”, queste cose hanno dell’incredibili, sentite dire poi da un personaggio illustre che c’erano quelli bravi e quelli che non erano bravi, ma che studiavano un po’ e diventavano bravi, è veramente incredibile. Però queste robe qui, dette magari in questo modo, sono funzionali a chi non vuole l’inclusione, a chi trova problemi e limiti, e su questo dobbiamo essere molto attenti, c’è chi vuole fondare una scuola che tenga dentro quelli che funzionano e trovare altre soluzioni per quelli che funzionano meno. Per cui io temo questo, più che le esternazioni estemporanee di un grande filosofo.
Un’altra critica viene lanciata al mondo dei genitori, più attenti alla promozione che alla formazione dei propri figli. Come aiutare i genitori a supportare i propri figli nel percorso formativo, abbassando, allo stesso tempo, anche il livello di pressione che viene esercitata sui docenti?
Che oggi i genitori siano più attenti alla promozione che non alla formazione anche questa è un’affermazione molto generalizzata. Sono quelle affermazioni un po’ propagandistiche che non si sa quanto contatto abbiano con la realtà, perché non sappiamo di quale percentuale stiamo parlando e a quali genitori ci stiamo riferendo. Stiamo parlando dei genitori della scuola dell’infanzia che vanno a prendere i propri figli tutti i giorni a scuola, o quelli del liceo che non si vedono mai, nemmeno ai colloqui?
Questo approccio non contribuisce alla chiarezza del dibattito, al di là di questo, sono dell’idea che un genitore vada accompagnato, la scuola ha il compito di accompagnare i genitori, perché le modalità sono differenti a seconda delle scuole e dell’età. Come scuola devo far vedere ai genitori le belle cose che stiamo facendo, cosa imparano i loro figli, tutto questo in un dialogo e un coinvolgimento continuo. La scuola ha il compito fortissimo, secondo me, di essere un ente culturale, ma culturale anche rispetto alla società che sta attorno e non solo rispetto agli studenti.
Culturale vuol dire far crescere la cultura in una comunità, portando la comunità a scuola, facendogli vedere e informandoli di quello che si fa, non che le cose che vengono fatte a scuola trapelano solamente dai quaderni che il genitore guarda o dalle cose che raccontano i figli. Però è chiaramente un compito faticoso, un compito importante che non viene sufficientemente riconosciuto all’interno dell’autonomia scolastica e dei ruoli che vengono dati ai docenti, tra l’altro non tutti i docenti sono bravi a fare questo, perché c’è chi ha più pazienza, chi è più accompagnatore e chi invece non si rappresenta così, per cui c’è una bella scommessa nell’accompagnare e sostenere e io credo che questo sia un compito della scuola.
Dall’altro lato la società, intesa come grande realtà che comprende anche i genitori, deve sostenere la scuola, il ruolo sociale degli insegnanti non è particolarmente sostenuto a livello sociale e politico, mentre anche la micro-politica, ovvero il piccolo comune, la piccola provincia eccetera, ha delle responsabilità nel valorizzare i docenti, nel fare in modo che i docenti facciano bella figura sociale, nel senso che siano valorizzati sui mezzi di comunicazione, sui coinvolgimenti, e via dicendo. Io credo che questo sia un altro polo della reciprocità, di una relazione di mutuo rispetto e di mutuo supporto, e le cose che possono essere fatte sono veramente tante. Quando c’era la pandemia ci ricordiamo tutti che tra scuola e famiglia si era cominciato a ipotizzare e a fare delle cose di comunicazione che altrimenti prima non venivano fatte, a tal proposito ricordo per esempio degli insegnanti che giravano dei tutorial su come fare delle cose e le mandavano a casa, un circuito virtuoso di collaborazione che sarebbe interessante tenere sviluppato ulteriormente.
Nelle nostre interviste abbiamo più volte rappresentato le criticità dell’attuale sistema del sostegno strutturato ad personam. A Bergamo è in corso una sperimentazione relativa all’educatore di plesso, ci spiega come cambia l’approccio?
È un aspetto interessante, stiamo seguendo varie scuole nella provincia di Bergamo che hanno deciso di sperimentare un modo nuovo di lavorare con gli educatori, non tanto con gli insegnanti di sostegno ma con le figure dell’assistente educatore. L’assistente educatore è un’altra figura che nella concezione tradizionale, che bisogna superare, era ad personam, cioè legata ad una specifica disabilità, in genere quella più marcata, che poi porta a fenomeni di delega, di separazione, che sappiamo essere comuni agli insegnanti di sostegno e all’assistente educatore, che poi è sempre il vecchio paradigma, alunno speciale uguale persona speciale, combiniamo insieme le due cose e via. Mentre nell’educatore di plesso di comunità, questa figura non si “appiccica” più all’alunno o all’alunna con disabilità, ma organizza delle attività per tutta la scuola, come ad esempio dei laboratori o delle attività varie, che coinvolgono ovviamente l’alunno con disabilità e gli altri compagni.
Per cui diventa una risorsa per organizzare delle attività che vanno a beneficio di tutta la comunità scolastica ed extrascolastica, perché in alcuni casi sono coinvolte anche le risorse della comunità, per cui il paradigma cambia, nel senso che l’educatore di plesso non segue più solo il singolo alunno in tutti i momenti, ma organizza delle attività in cui l’alunno con disabilità partecipa così come partecipano anche gli altri alunni e diventa strutturale come risorsa per quel plesso, per quella scuola, che ha in più un personaggio che organizza, appunto, delle attività di cui beneficiano tutti. Poi avendo più ore può dialogare con la famiglia, oppure può attivare delle risorse della comunità, per cui si muove anche in un’ottica più ampia.
Questo è un paradigma nuovo che si basa anche su un concetto di moltiplicatore di risorse, nel senso che se si lavora con i compagni di classe, perché magari si organizza il laboratorio per riparare le biciclette, questi ultimi lavorano anche con il ragazzino con disabilità, e in questo modo si moltiplicano le risorse, perché non sono solo quelle dell’insegnante o dell’educatore, ma sono anche quelle dei compagni di classe e di conseguenza ho un effetto moltiplicatore che poi porta ad una ricaduta positiva non solo per l’alunno con disabilità, ma anche per la sensibilità e le competenze cognitive e relazionali dei compagni che ovviamente migliorano avendo un ruolo attivo e significativo nei confronti dei loro compagni. Questo cambio di paradigma vale anche per l’insegnante di sostegno, perché il sostegno è uguale come logica, è sempre una persona che rischia di essere appiattita nel rapporto ad personam.
Un’ultima domanda, c’è una sorta di involuzione riguardo l’inclusione e alla difficoltà di lavorare con classi eterogenee. In un contesto sempre più complesso dove è difficile avere la padronanza di ogni casistica da affrontare, quanto è importante un lavoro di squadra che permetta la condivisione di esperienze e formazioni differenti?
Dell’intervento specifico ne abbiamo parlato un po’ prima, quello su cui vorrei portare l’attenzione è il tema dell’eterogeneità o dell’omogeneità, perché di fronte all’eterogeneità, alle complessità sempre crescenti delle classi, vediamo una evidente tendenza a ricostruire omogeneità.
Cioè quelli che sono bravi li metto insieme, ad esempio quelli che parlano bene l’italiano li metto da una parte, quelli che non lo parlano bene li metto da un’altra, tra l’altro è proprio di questi giorni la notizia di una separazione che avviene tra scuole, dove in una scuola ci vanno quelli meno parlanti italiano, diciamo così, anche se magari sono nati nel nostro Paese, e dall’altra parte quelli che invece pensano di parlare bene l’italiano. Questa nuova ricerca di omogeneità è un’illusione, perché dal punto di vista degli studi sull’apprendimento noi sappiamo per certo che le classi eterogenee, mescolate in termini di lingue, di abilità, di competenze eccetera, funzionano meglio, danno più risultati in termini di apprendimento.
È controintuitivo, perché si potrebbe dire che se sono tutti dello stesso livello funziona meglio, ma questo pregiudizio è frutto di una didattica standard, perché se faccio una didattica standard li voglio tutti uguali, voglio tanti soldatini uguali da far marciare al passo, ma se invece penso ad una didattica più centrata sulle competenze, sulla cooperazione, sul laboratorio, sull’inclusività, che siano eterogenei, che siano differenti l’uno dall’altro, mi va benissimo, perché è la materia prima che sfrutto positivamente per migliorare l’apprendimento, ma non solo l’apprendimento cognitivo e metacognitivo, ma anche quello relazionale, comunicativo, di empatia, di aiuto reciproco, di tutte quelle altre competenze che il buon Morin chiamava la testa ben fatta, che sono figlie dell’eterogenità, non sono figlie dell’omogenità.
Però l’omogenità mi dà un’illusione di facilità nel mio lavoro, perché so fare solamente lavoro frontale. Per il lavoro frontale, verifica e interrogazione, classico vecchio modo di insegnare, mi illudo che l’omogenità mi dia un risultato positivo, ma non è così. Per cui questa involuzione dell’inclusione sulle parole la si vede sempre di più, perché una scuola in difficoltà metodologica, di stanchezza, di invecchiamento eccetera, fa fatica a evolvere la propria didattica. Abbiamo fatto recentemente una ricerca su un buon campione di docenti in cui si nota che la didattica più prevalente è ancora quella frontale, standard, uguale per tutti. Allora, se tu fai una cosa uguale per tutti, vuoi che tutti siano uguali, cosa che in realtà non è possibile.
Il gioco di squadra, che lei dice nella sua domanda, la condivisione delle buone pratiche, eccetera, è un modo sicuramente importante per superare quell’isolamento, quella solitudine che molto spesso ha il docente. Il docente si sente solo, in moltissimi casi lo è davvero, quando invece una scuola che ha tanti insegnanti al suo interno avrebbe la possibilità di condividere pratiche, supporto reciproco, supervisione, anche piccole formazioni fatte peer-to-peer, tra chi ha già un po’ più di esperienza, che però sono pratiche pochissimo diffuse.
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