Un antico bicchiere da birra: il pasglas nei dipinti

Come sempre le mie perlustrazioni nei dipinti iniziano per caso. Stavo facendo una raccolta pittorica sulla mia bevanda preferita, la birra, quando mi sono imbattuta più volte in un curioso bicchiere alto e stretto, con un largo piede, sezione poligonale e righe scure orizzontali lungo il corpo.

Jan van de Velde, Natura morta con bicchiere di birra e piatto di porcellana con pepe, 1647, olio su tavola, cm 64×59, Rijkmuseum, Amsterdam

L’ho trovato in tutte le nature morte dedicate alla birra del pittore olandese Jan van de Velde III (1620-1662), ma anche in un allegro autoritratto di Rembrandt con la moglie Saskia che interpretano una scena della parabola del figliol prodigo.

Rembrandt, Autoritratto con Saskia, 1635, olio su tela, cm 161×131, Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda

Ma è stato con un dipinto di Petrus Staverenus che ho fatto la scoperta: nella descrizione dell’opera, infatti, c’è scritto che si tratta di un uomo che ride con un “pasglas“.

Petrus Staverenus, Uomo che ride con un pasglas, 1650, olio su tavola, 17×13, Collezione privata

Questa parola, che non avevo incontrato nelle altre opere, credevo fosse semplicemente il termine olandese per bicchiere. Ma l’ho voluta comunque cercare sul web e così ho scoperto che indica un bicchiere speciale, tipico del Secolo d’oro, realizzato per i “giochi alcolici“, un passatempo praticato soprattutto nei Paesi Bassi, ma anche in Germania e Svezia. Queste gare di bevuta consistevano nel riuscire a tracannare in un solo sorso la birra inclusa tra due ‘passen’ cioè i gradini in rilievo che decorano il bicchiere (da cui il nome pasglas).

Adriaen van Ostade, Contadino alla finestra, 1660, olio su tavola, cm 27×21

Se il partecipante alla gara riusciva a bere la giusta dose di birra passava il bicchiere al giocatore successivo (per questo il pasglas era chiamato anche bicchiere da passaggio). Ma se avesse bevuto troppo, o troppo poco, doveva bere fino al segno seguente, e così via. Naturalmente, più si beveva e più era difficile raggiungere con precisione la tacca, finendo così per ubriacarsi del tutto.

Non è un caso, dunque, che i personaggi che tengono in mano un pasglas appaiano sempre piuttosto alticci!

Joos van Craesbeeck, Ritratto d’uomo che stringe un bicchiere, 1635-1661, olio su tavola, cm 13×11, Collezione privata

David Teniers il Giovane, Un contadino che tiene in mano un bicchiere, 1640-1650, olio su rame, cm 8×6, Dulwich Picture Gallery, Londra

Per non parlare dei quadri che raffigurano le gare alcoliche… i bevitori arrivano a stramazzare al suolo, aspramente rimproverati dalla proprietaria della taverna.

Cornelis Dusart, Gara di bevuta, 1702, olio su tela, cm 48×56, Frans Hals Museum, Haarlem

In questo genere di dipinti è facile trovare personaggi che ridono, con i denti bene in vista. Tuttavia la risata non è frequente nella storia dell’arte. Quell’espressione si addiceva infatti solo ai folli e agli ubriachi. Al massimo ai bambini e alla figura di Democrito, il “filosofo che ride”…

Jan Miense Molenaer, Allegra compagnia, 1650, olio su tela, cm 70×76, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam

Nelle nature morte, invece, un pasglas pieno di birra simboleggiava le tentazioni della vita. Per questo, in diversi casi, era accompagnato dal tabacco, dal vino e dalle carte da gioco, altri simboli di perdizione.

Jan Jansz van de Velde, Bicchieri, accessori da fumo e carte, 1653, olio su tela, cm 43×40, Ashmolean Museum, Oxford

A volte il pasglas compare assieme a un particolare calice da vino, il römer, di cui vi ho raccontato in un altro articolo.

Jan Albertsz Rotius, Natura morta con granchio, 1644-1666, olio su tavola, cm 58×81, Rijksmuseum, Amsterdam

In verità anche le scene con bevitori avrebbero dovuto avere un intento moraleggiante, quello di mettere in guardia dagli eccessi del vizio. 

Pieter Quast, Allegra compagnia, 1638-1645, grafite e gouache su vellum, cm 27×34, Ackland Art Museum, Chapel Hill

Tuttavia alla fine prevaleva l’aspetto gaudente di queste curiose scene di genere.

Adriaen van Ostade, Coppia danzante, 1625-1640, olio su tavola, cm 38×52, Rijksmuseum, Amsterdam

Il collegamento tra questo bicchiere e la corruzione dei costumi venne appositamente sfruttato dalla Chiesa cattolica che nel 1618, l’anno dopo il centenario della Riforma protestante, fece stampare un volantino nel quale i precetti di Lutero erano applicati tra gli anelli di un pasglas, a suggerire l’ubriachezza del riformatore e l’immoralità della sua dottrina.

Di pasglas originali oggi ne rimangono rari esemplari. Oltre a godere, all’epoca, di poca considerazione, la qualità del vetro con cui venivano realizzati era piuttosto scarsa e spesso conteneva bolle d’aria: era frequente, dunque, che al termine di una gara alcolica i bicchieri finissero in pezzi. 

Dalle immagini dei pochi pasglas conservati nei musei si può notare che le rigature altro non sono che fili di vetro fuso colati attorno al bicchiere senza troppa precisione. Non mancano tuttavia, anche pezzi molto pregiati, con eleganti incisioni sul vetro personalizzate per il committente.

Va precisato, comunque, che il pasglas era destinato essenzialmente alle gare di bevuta. In altre situazioni la birra veniva sorseggiata nello steinzeugkrug, un boccale in metallo o ceramica dotato di coperchio.

David Teniers il Giovane, Il vecchio bevitore di birra, 1640-1660, olio su tavola, cm 35×32, Rijksmuseum, Amsterdam

Anche quest’oggetto ha una storia affascinante: l’idea del coperchio incernierato, per esempio, nasce in Germania come norma igienica all’inizio del ‘500 per evitare che sciami di mosche (ritenute vettori della peste bubbonica!) potessero infettare la bevanda. L’aspetto più ingegnoso di questo dispositivo era che poteva essere sollevato con il pollice della stessa mano che impugnava il manico del boccale.

Questo contenitore veniva servito anche nelle taverne, quando l’avventore voleva farsi una tranquilla bevuta di birra, senza gareggiare coi compagni.

David Teniers il Giovane (1610-1690), Bevitori di birra

Gli eredi dello steinzeugkrug esistono ancora oggi, soprattutto come souvenir dal nord Europa. Il pasglas invece si è rapidamente estinto, scomparendo dalle taverne all’inizio del XVIII secolo.

Resta però in tanti affascinanti dipinti, pronto a raccontare storie sorprendenti di quattrocento anni fa.

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Raffinato ma capiente: il vaso da zenzero nei dipinti

Di questo curioso vaso panciuto  mi sono accorta osservando una natura morta di Paul Cézanne del 1895 intitolata Pot de gingembre (ginger jar in inglese), cioè “vaso da zenzero“.

In effetti non era la prima volta che lo vedevo: Cézanne lo ha inserito in decine di dipinti, probabilmente per la sua forma molto semplice assimilabile a un solido geometrico (era lui quello che intendeva «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono»). Eccolo in una Natura morta con mele del 1893-1894, avvolto da una reticella dotata di manici.

Non conoscendo bene quest’oggetto, ma essendo un’appassionata di design dei contenitori (in passato ho scritto dell’aryballos, del rhyton, del calice römer e del cassone nuziale) ho iniziato a documentarmi, scoprendo una storia affascinante e un repertorio vastissimo.
Ma andiamo con ordine: cos’è esattamente il vaso da zenzero? E quando compare per la prima volta in pittura?
William Henry Hunt, Natura morta con vaso da zenzero, 1825, acquerello su carta, cm 19×25, Yale Center for British Art, Londra
Secondo gli storici nacque in Cina durante la dinastia Tang (618-907) come contenitore per le spezie. La sua forma tipica è globulare, con un collo brevissimo e una larga bocca spesso dotata di coperchio. Il vaso è generalmente in porcellana, materiale perfezionato nella stessa epoca simile alla terracotta ma basato su un impasto di caolino e quarzo. Il risultato è un prodotto particolarmente duro ma sottile, dalla superficie liscia e brillante.
Con la dinastia Ming (1368-1644) i vasi da zenzero assunsero una colorazione prevalentemente bianca e blu cobalto e decori a forma di piante, animali o paesaggi. Non mancano anche vasi di colore verde – generalmente esagonali – o decori policromatici.

Questi vasi, che intanto in Cina erano diventati oggetti preziosi di grande valore simbolico (ma ve n’erano anche versioni povere per il trasporto), sbarcarono in Europa nella seconda metà del XVII secolo con l’intensificarsi degli scambi commerciali di tè con l’Estremo Oriente. Nella stessa epoca la conoscenza della cultura cinese venne diffusa in Europa dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) attraverso il suo trattato La Chine illustrée de plusieurs monuments tant sacrés que profanes.Naturalmente si tratta di descrizioni piuttosto fantasiose perché il monaco non si recò mai in Cina ma utilizzò i materiali inviati dai missionari. Non solo: tutto il suo lavoro era teso a dimostrare che la civiltà cinese discendesse da quella egizia (per fare questo paragonò i geroglifici ai segni della scrittura cinese) e che in origine fossero cristiani (questo giustificava le missioni gesuitiche che avrebbero dovuto far “riscoprire” ai cinesi le loro radici).

Al di là di questi aspetti, la moda delle cineserie impazzò presto in tutta Europa. Avere una stanza “alla cinese” divenne quasi un obbligo in ogni palazzo reale e ben presto si tentò di imitare sia la porcellana sia le sue decorazioni (la famosa ceramica di Delft blu e bianca nasce come tentativo di copiare i vasi provenienti dalla Cina).
Stanza della porcellana, 1763-1764, Palazzo di Schönbrunn, Vienna
È in questo periodo, tra Seicento e Settecento, che il vaso da zenzero compare nei dipinti olandesi (non è un caso: gli olandesi erano grandi navigatori e commercianti) assieme ad altri prodotti costosi come calici veneziani, bicchieri römer, tazze ricavate da conchiglie nautilus, vassoi in argento, tappeti orientali nonché agrumi del Mediterraneo.Tuttavia non si tratta solo di prove di virtuosismo o di celebrazioni della ricchezza dei committenti: queste tele sono sempre vanitas, ammonimenti visivi che ci ricordano la brevità della vita e dei suoi piaceri, come suggerito nella tela seguente da un piccolo orologio aperto sul tavolo.
Willem Kalf, Natura morta con vaso in porcellana cinese, 1669, olio su tela, cm 78×66, Indianapolis Museum of Art
Juriaen van Streeck, Natura morta con tazza di nautilus e vaso di zenzero, 1660-1687, olio su tela, cm 49×41, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Appartengono a questa epoca e alla stessa area geografica alcune curiose riproduzioni in argento del vaso da zenzero cinese, con decorazioni riprese dal repertorio classico e dimensioni decisamente maggiorate. Il vaso in foto è alto 42 cm mentre gli originali cinesi vanno dai 18 ai 26 cm di altezza.

Dopo questo primo momento di gloria il vaso da zenzero ricompare nei dipinti nell’Ottocento, in un momento in cui inizia a diventare un oggetto più a buon mercato ampiamente diffuso nelle case europee.Eccolo in un quadro del 1869 dell’olandese Maria Vos (1824-1906), in cui è raffigurato un angolo di un negozio di antiquariato coi suoi ricchi decori blu che risaltano sui toni caldi dell’insieme.

Qui invece è stato dipinto nel 1876 dallo statunitense William Michael Harnett (1848-1892) con la stessa rete impagliata usata per il trasporto che abbiamo visto all’inizio nelle opere di Cézanne.

La cordicella è presente anche nella tela del 1890 del pittore americano di trompe l’oeil John Frederick Peto (1854-1907).

Il britannico Henry Stacy Marks (1829-1898) ha scelto invece di rappresentare il vaso da zenzero nelle mani dell’antiquario Frederick Litchfield, un fine intenditore di ceramiche cinesi bianche e blu, così di moda tra il 1870 e il 1890. Qui sta esaminando un vaso dell’epoca Kangxi (1662-1722).

Accanto al collezionismo di pezzi originali esisteva un’ampia produzione inglese, tedesca e statunitense che riprendeva la forma tondeggiante del vaso da zenzero applicando sulla superficie colori e decori di tradizione europea. Ne sono stati realizzati anche esemplari con motivi vegetali in rilievo, in stile Art Nouveau, e con finiture iridescenti a lustro. Ma i pittori preferivano sempre gli originali!

Il vaso da zenzero era un oggetto talmente famoso che alcuni artisti erano anche grandi collezionisti. Tra questi lo statunitense James Abbott McNeill Whistler (1834-1903), proprietario di una collezione di oltre duecento pezzi (non solo barattoli da zenzero…), di cui alcuni visibili in questo Autoritratto nello studio del 1865.

Whistler è anche autore di un disegno in stile giapponese del 1878 che raffigura il tanto amato vaso cinese…

… nonché dell’allestimento tra il 1876 e il 1877 della Peacock Room (stanza del pavone) per le porcellane cinesi del magnate britannico della navigazione Frederick Leyland, nella sua casa di Londra (oggi la stanza è esposta allo Smithsonian di Washington).

Qualche anno dopo, esattamente nel 1885, un bel vaso da zenzero esagonale, di colore turchese, compare in un’insolita natura morta di Vincent van Gogh, circondato da alcune mele e usato come vaso da fiori.

Quella di riempirlo di fiori è una scelta abbastanza frequente, come dimostrano tanti dipinti di fine Ottocento/inizio Novecento.
Floris Arntzenius, Nasturzi in vaso da zenzero, 1890-1925
George Hendrik Breitner, Vaso di fiori, 1900-1923
Frans Oerder, Anemoni in vaso da zenzero, 1910-1944
Un vaso da zenzero con fiori si trova anche in un suggestivo dipinto del 1916 dell’olandese Jan Mankes (1889-1920)…

… e in tanti quadri di Henry Matisse, come questa Natura morta con Pensieri di Pascal del 1924…

… e questa Natura morta con limoni del 1943.

Insomma, questo vasetto così esotico non smise di esercitare il suo fascino per oltre trecento anni! Ne restò incantato persino l’ideatore del Neoplasticismo Piet Mondian (guarda caso un olandese).Nel 1901, quando non aveva ancora intrapreso il suo percorso verso l’astrazione, ne dipinse uno esagonale, di colore turchese, assieme a cinque mele e un piatto sopra un piano ricoperto da un drappo. È chiaro che, come in Cézanne, l’intento non è la creazione di una vanitas bensì quello della ricerca geometrica e compositiva.

Il vaso da zenzero ritorna dieci anni dopo, quando Mondrian conobbe le opere cubiste di Pablo Picasso e Georges Braque, come oggetto su cui sperimentare nuovi linguaggi. Nel 1911 dipinge Natura morta con vaso da zenzero I, una vista del tavolo da lavoro che ricorda ancora le nature morte della tradizione se non fosse per il trattamento sintetico degli oggetti.

Dell’anno seguente è Natura morta con vaso da zenzero II, una composizione di gusto cubista nella quale l’unico tocco di colore è il celeste del contenitore cinese.

Sappiamo come proseguirà il suo percorso: al posto di vasi e tavoli solo linee verticali e linee orizzontali; al posto delle nuance ocra e turchesi solo toni di grigio e piani rossi, gialli e blu.
Il vaso di zenzero stava per completare il suo ciclo vitale nella pittura, ma rimane nelle opere conservate nei musei, a testimoniare il contatto creativo tra cultura materiale e riflessione concettuale e le epoche passate di fertili scambi estetici tra oriente e occidente.

Tre volte il volto: i ritratti triplici nella storia dell’arte

Di fronte, di profilo e di tre quarti. No, non è una foto segnaletica (o forse dovremmo chiamarlo “quadro segnaletico”), ma il celebre triplo ritratto del regnante inglese Carlo I, realizzato da Antoon van Dyck nel 1635.
Antoon van Dyck, Carlo I in tre posizioni, 1635, olio su tela, cm 84×99, Royal Collection, Londra
Ma che significato aveva questo curioso dipinto? Perché l’artista ha raffigurato il sovrano da tre punti di vista differenti? Voleva sottolinearne l’espressività? Era una prova di virtuosismo? C’era qualche allegoria sottesa?Nulla di tutto ciò: il ritratto serviva perché Gian Lorenzo Bernini potesse realizzare un busto di re Carlo I senza muoversi da Roma (lo scultore non uscì mai dall’Italia se non una sola volta per andare a Parigi e Varsailles a realizzare il ritratto di Luigi XIV). Era quindi necessario che avesse a disposizione più viste possibili del soggetto, in modo da cogliere perfettamente la forma del volto, l’espressione del viso e l’andamento del profilo (ma si dice che Bernini non facesse mai posare immobili i soggetti da ritrarre preferendo osservarli in movimento e in pose naturali).
Purtroppo il busto marmoreo, realizzato nel 1636, è andato distrutto nel terrificante incendio del 1698 che distrusse il palazzo di Whitehall. Alcune copie vagamente simili sono ciò che rimane. Una è quella creata nel 1759 dallo scultore Louis François Roubiliac…

… e l’altra è quella attribuita a Jan Blommendael.

Quando il busto originale arrivò a Londra, nel 1637, fu universalmente lodato “non solo per la squisitezza dell’opera, ma per la somiglianza che aveva con il re” e Bernini fu ricompensato con un anello di diamanti. La regina Enrichetta Maria ne fu talmente entusiasta che nel 1638 incaricò van Dyck di fare anche a lei un triplo ritratto da inviare a Bernini. Quella volta però il pittore fiammingo non mise i tre punti di vista nella stessa tela ma produsse tre dipinti separati, due di profilo e uno frontale. Tuttavia, non si sa perché, il busto di marmo non verrà mai eseguito.
Antoon van Dyck, Tre ritratti di Enrichetta Maria di Borbone-Francia, 1638
Bernini realizzerà invece il busto del cardinale Richelieu utilizzando anche questa volta un triplo ritratto, quello dipinto dal francese Philippe de Champaigne nel 1641, simile al ritratto di Carlo I di van Dyck (ma in questo caso non c’è la vista strettamente frontale).
Philippe de Champaigne, Triplo ritratto del cardinale Richelieu, 1642, olio su tela, cm 58×72, National Gallery, Londra
Quel busto esiste ancora e si trova attualmente al Louvre.

Ma torniamo ai triplici ritratti per sottolineare un aspetto: a livello compositivo non fu un’invenzione di van Dyck ma la ripresa di un’iconografia che esisteva fin dal Medioevo in forma di “vultus trifrons” (volto trifronte), cioè il modo con cui talvolta veniva rappresentata la trinità.
Gregorio Vasquez de Arce y Ceballos, Trinità, XVII secolo, Museo Coloniale, Bogotà
Certo, nella maggior parte dei casi non si tratta di tre volti separati ma di facce sovrapposte che condividono gli occhi del volto centrale, come in questo esempio trecentesco…
Autore sconosciuto, Vultus trifrons (Trinità), XIV secolo, Chiesa di Sant’Agostino, Norcia
… o questo del XVI secolo.
Scuola di Leonardo da Brescia, Cristo trifrons, ca. 1542, chiesa di santa Giuliana, Vigo di Fassa (Trento)
Ma non mancano casi in cui i tre volti sono separati o addirittura lo sono le tre persone della Trinità.

Tuttavia il volto con tre facce era anche quello di Lucifero…
Autore sconosciuto, Illustrazione per la Divina Commedia con Lucifero, XIV secolo
Secondo Dante, che lo descrive nel XXXIV canto dell’Inferno, Lucifero è un mostro peloso, con tre paia d’ali di pipistrello e tre facce sulla stessa testa. Con le tre bocche divora i tre più grandi traditori: Bruto e Cassio ai lati e Giuda al centro. Le tre facce avrebbero anche tre colori diversi: rossa quella centrale, bianca quella destra e nera la sinistra.

Ha tre teste anche Cerbero, il cane infernale della mitologia greca che Dante colloca nel 3° cerchio dell’Inferno a vigilare e torturare i golosi.
William Blake, Cerbero, 1824-1827
Per questa insistente associazione tra le tre facce e gli esseri infernali, lo schema del vultus trifrons per rappresentare la Trinità fu abbandonato nel ‘500. Nel 1745, infine, papa Benedetto XIV, con la bolla Sollicitudini nostrae definì come “non appropriata” l’immagine di Cristo ripetuta tre volte poiché dava forme umane anche allo Spirito Santo. Dal Cinquecento, dunque, il volto triplo diventa un tema squisitamente profano.
Il primo dipinto in cui appare è probabilmente il Ritratto di un orefice di Lorenzo Lotto, una tela del 1525-1535 (dunque di un secolo precedente al ritratto di Carlo I). Qui lo stesso uomo è visto di profilo, di fronte e leggermente da dietro.  Le diverse pose delle mani e la tenda verde che taglia lo sfondo animano il ritratto e lo arricchiscono di espressività.
Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice, 1525-1535, olio su tela, cm 52×79, unsthistorisches Museum, Vienna
Questo quadro però non serviva come base per una statua, tuttavia un legame con la scultura c’era: il dipinto infatti si inserisce nel dibattito noto come “Paragone delle arti“, una disputa dell’età rinascimentale su quale arte, tra pittura e scultura, fosse la “migliore”.Secondo Leonardo, naturalmente, il primato spettava alla pittura, unica arte capace di imitare la natura nei suoi colori e nei suoi spazi. Per Michelangelo, invece, l’arte superiore era la scultura perché capace di riprodurre le forme in modo realmente tridimensionale.
Per superare il limite della pittura evidenziato da Michelangelo gli artisti tentarono di inserire più visioni del soggetto nello stesso dipinto, attraverso diverse modalità. Quella di Lorenzo Lotto consisteva, come abbiamo visto, nel creare un ritratto multiplo del soggetto in modo da raffigurarlo contemporaneamente da più punti di vista (una visione simultanea protocubista…), avvicinandosi così alla scultura.Tiziano, invece, ha inserito nella scena un grande specchio convesso per mostrare anche il retro della persona raffigurata.
Tiziano, Donna allo specchio, 1515, olio su tela, cm 96×76, Museo del Louvre, Parigi
Bronzino sceglie, invece, una terza via, quella del dipinto bifacciale che mostra la stessa scena dai due lati opposti. Suo è il Nano Morgante del 1553, un ritratto del buffone di corte di Cosimo I de’ Medici. Le due vedute, tuttavia, non corrispondono rigidamente: la vista del recto raffigura il personaggio prima della caccia mentre sul verso ha la selvaggina in mano e si volta all’indietro per vantarsene con l’osservatore.
Bronzino, Doppio ritratto del Nano Morgante, 1553, olio su tela, cm 149×98, Palazzo Pitti, Firenze
Due anni più tardi la stessa scelta sarà operata anche da Daniele da Volterra, con la sua lotta tra Davide e Golia in versione bifacciale, un quadro posto lungo la galleria del Louvre sopra un piedistallo, come fosse una scultura.
Daniele da Volterra, Combattimento di Davide e Golia, 1555, olio su ardesia, cm 130×170, Museo del Louvre, Parigi
La disputa sarà superata solo nel Seicento, quando il linguaggio barocco fonderà tra loro tutte le arti. Il dipinto bifacciale scomparirà presto ma non il triplo ritratto, che tornerà in auge nell’Ottocento.
È del 1804 un triplo ritratto di Elizabeth Patterson, prima moglie di Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone.
Gilbert Stuart, Triplo ritratto di Elizabeth Patterson (Betsy Bonaparte), 1804, olio su tela
Stavolta non c’è nessun confronto con la scultura né alcuno scopo utilitaristico: è un ritratto fresco, rapido, quasi uno studio, che evidenzia i bei lineamenti della donna.Ha invece un valore propagandistico il triplo ritratto di Napoleone in tre momenti cruciali della sua vita: il comando della Campagna d’Italia nel 1794, l’incoronazione a re d’Italia nel 1805, e il suo ritorno dall’esilio nel 1815.
Autore sconosciuto, Triplo ritratto di Napoleone Bonaparte in tre momenti della sua vita nel 1805, 1794 e 1815.
Della stessa epoca è un curioso autoritratto, di una sconosciuta artista che si è firmata come D. E. Brante, in cui la donna si è dipinta come pittrice, come scultrice e come arpista. Una tripla immagine che ha uno scopo preciso: quello di esibire il proprio poliedrico talento.
D. E. Brante, Triplo autoritratti come pittrice, scultrice e musicista, 1815-1820, olio su tela, cm 85×70
Questa modalità di rappresentazione non poteva sfuggire ai pittori amanti del simbolismo, per l’opportunità che offriva di mostrare le diverse anime racchiuse nel soggetto. È così che 1874 nasce Rosa Triplex, un triplice ritratto di May Morris (figlia di William Morris e della moglie Jane Burden), del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti. Il dipinto richiama quelle atmosfere estetizzanti tanto care alla confraternita inglese ma anche la tela di van Dyck, che faceva parte della Royal Collection inglese.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa triplex, 1874, acquerello su carta, cm 77×88, Collezione privata
L’immagine è molto simile a una precedente versione a pastello di sette anni prima nel quale la modella era stata Alexa Wilding.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa Triplex, 1867, pastello su carta, cm 50×73, Tate, Londra
Nel 1877 Rossetti riprende ancora una volta lo schema della tripla raffigurazione con Astarte syriaca, una sensuale divinità mediorientale dell’amore e della bellezza, per la quale avrebbero posato Jane Burden e May Morris. La composizione, con la dea frontale e le sue “gemelle” di lato, ricorda in verità un’altra iconografia tripla, quella delle Tre Grazie.
Dante Gabriel Rossetti, Astarte Syriaca, 1877, olio su tela, cm 185×109, Manchester Art Gallery
Poco tempo dopo, il genere del triplo ritratto viene ripreso dal simbolista francese Maurice Denis con una suggestiva rappresentazione della fidanzata Marthe Meurier. Non sfugge all’osservazione la progressiva apertura degli occhi andando verso destra, come se i tre volti raccontassero un risveglio, una maturazione, una consapevolezza verso la vita.
Maurice Denis, Triplo ritratto della fidanzata Marta, 1892
Da questo punto di vista il dipinto si inserisce nell’antico filone dell’allegoria delle tre età dell’uomo, realizzata, appunto, con tre personaggi in diverse fasi dell’esistenza.
Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501, olio su tavola, cm 62×77, Galleria Palatina, Firenze
Tiziano, Allegoria della Prudenza, 1550, olio su tela, cm 75×68, National Gallery, Londra
Denis riprende il triplo ritratto anche con la fidanzata successiva, Yvonne Lerolle, nel 1897. Qui il diverso abbigliamento e la varietà dei gesti e delle espressioni portano a immaginare che l’opera simboleggi proprio tre fasi della vita della giovane donna, come a voler dire che non è possibile conoscere l’anima mutevole di una persona perché il suo essere è la somma di un tempo che scorre.
Maurice Denis, Ritratto di Yvonne Lerolle in tre aspetti, 1897, olio su tela, cm 170×110, Musée d’Orsay, Parigi
Tutto cambia con Egon Schiele. Tormentato osservatore del proprio essere, realizzò nel 1913 un triplo autoritratto in cui sembra voler mostrare il suo multiplo io. La figura al centro, più definita delle altre, ha un’espressione rabbiosa e una posa contorta; il volto a destra sembra più calmo mentre quello a sinistra, tratteggiato con furia, contiene qualcosa di maligno. Si direbbe che abbia voluto raffigurare così le due opposte tensioni, passionale e contemplativa, dolorosa e pacificata, che hanno percorso i suoi giorni.Nonostante appaia come un bozzetto, si tratta di una composizione su cui l’artista ha lavorato anche a livello formale, come dimostra il piccolo schizzo con le stesse tre teste in basso a destra.
Egon Schiele, Triplo autoritratto, 1913, gouache, acquerello e grafite, cm 48×32, Collezione privata
Con l’avanzare del Novecento il tema del triplo ritratto passerà presto alla fotografia. Man Ray lo affronta nel 1926 con un fotomontaggio della ricca americana Rose Wheeler vista di fronte, di tre quarti e di profilo. È forse l’opera che più somiglia al genere inaugurato da van Dyck: un’esplorazione della fisionomia umana ma anche una sottile indagine psicologica che evidenzia le differenze espressive che esistono tra un ritratto di profilo (tipico del Rinascimento), un volto di tre quarti (di origine fiamminga e poi adottato a fine Quattrocento anche in Italia) e il volto frontale di ascendenza medievale (era il modo in cui veniva raffigurato Cristo).
Man Ray, Triplo ritratto di Rose Wheeler, 1926, stampa a gelatina ai sali d’argento, cm 14×10, Centre Pompidou, Parigi
Dopo venne il turno del fotografo francese Philippe Halsman e del suo triplice volto di Marilyn Monroe del 1955. In questo caso non c’è un interesse compositivo e vagamente surrealista come per Man Ray ma un preciso interesse per ciò che racconta il viso di una persona. «Ogni volto che vedo sembra nascondere – e a volte rivelare fugacemente – il mistero di un altro essere umano», diceva il fotografo. 
Philippe Halsman, Tripla Marilyn, 1955, stampa in gelatina ai sali d’argento, cm 25×33
Il triplo Elvis di Andy Warhol si inserisce invece nel suo metodo moltiplicatorio che parte da una fotografia o dal fotogramma di un film (in questo caso una scena di “Stella di fuoco” del 1960) per creare un’opera che ricorda le serie infinite e martellanti di manifesti pubblicitari e che, tramite la ripetizione, finisce con l’annullare l’anima del soggetto rendendolo pura immagine.
Andy Warhol, Triplo Elvis, 1963
Con Norman Rockwell torna per un attimo l’antico olio su tela con un ironico autoritratto allo specchio del 1960. L’uso dello specchio, in verità, era da secoli la modalità standard per realizzare l’autoritratto, ma l’originalità sta nel fatto che l’artista ha fatto un passo indietro rispetto al suo dipinto, mostrando così se stesso nell’atto di riflettersi sullo specchio e nel disegno che ne sta uscendo fuori. Non mancano dei divertenti riferimenti alla storia dell’autoritratto nelle cartoline fissate all’angolo superiore della tela che raffigurano i volti di Dürer, Rembrandt, Picasso e van Gogh, mentre dal lato opposto c’è un foglietto con altri 4 autoritratti dell’artista.
Norman Rockwell, Triplo autoritratto, 1960, olio su tela, cm 113×88, Norman Rockwell Museum, Stockbridge
Non dovremmo tuttavia parlare di novità per questo triplo autoritratto, perché questa modalità era già apparsa altre volte prima dell’opera di Rockwell (sebbene non con la stessa autoironia). La più antica è probabilmente una miniatura del 1403 con la pittrice di età greco-romana Marzia che realizza il suo autoritratto.
Marzia dipinge il suo autoritratto, miniatura dalla versione francese del De Claris mulieribus di Boccaccio, 1403, Biblioteca Nazionale di Francia
Poi c’è la tela del pittore austriaco Johannes Gumpp del 1646 che è effettivamente un autoritratto triplo.
Johannes Gumpp, Autoritratto, 1646
Quello del pittore Jean Alphonse Rohen è invece il ritratto di una pittrice intenta ad autoritrarsi.
Jean-Alphonse Roehn (1799-1864), Ritratto di artista che dipinge il suo autoritratto
Ed è proprio lo specchio l’oggetto che chiude questo percorso sui tripli volti. Perché consente ai fotografi di giocare con la moltiplicazione della figura in modo naturale, senza ricorrere a fotomontaggi o ad altri artifici. Ha usato due specchi messi ad angolo Cecil Beaton, l’originale e irriverente fotografo britannico, per  immortalare Mariana van Rensselaer con un cappello disegnato dallo stilista Charles James. I due riflessi laterali restituiscono delle immagini curiose che sembrano evocare a sinistra una Madonna velata e a destra un mercurio col cappello alato.
Cecil Beaton, Mariana van Rensselaer con il cappello di Charles James, 1930
Gli specchi sono invece contrapposti in uno straordinario autoritratto della statunitense Vivian Maier del 1955. Autrice di un’enorme quantità di autoritratti colti sulle più disparate  superfici riflettenti, la fotografa ha scelto qui il mise en abyme, il più sorprendente effetto che due specchi possano dare: quello di moltiplicare all’infinito il riflesso specchiandosi l’uno nell’altro. Tuttavia Maier ha evitato di mostrarci quella scia sempre più piccola di sagome ponendo al centro la sua macchina fotografica e mostrandoci solo un triplo autoritratto.
Vivian Maier, Autoritratto, 1955
Non deve meravigliare che questa antica iconografia sia sopravvissuta fino ai nostri giorni e goda ancora di ottima salute: la tentazione di voler essere uni e trini, il desiderio di indagare le nostre multiple personalità attraverso la nostra faccia-interfaccia, è quasi un istinto naturale e non smette di regalarci accattivanti capolavori.

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