Il growth mindset

Il growth mindset

Coltivare la mentalità di crescita a scuola

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Nel contesto educativo italiano, segnato dalla sfida della dispersione scolastica, dell’inclusione e del recupero degli apprendimenti, il concetto di growth mindset può rappresentare una risposta strategica, in grado di promuovere un nuovo paradigma culturale dell’apprendimento fondato su fiducia, plasticità e valorizzazione dell’errore.

Negli ultimi anni, il concetto di growth mindset ha acquisito una crescente diffusione nel panorama educativo internazionale, configurandosi come uno degli approcci pedagogici più dibattuti e promossi a livello globale. Nato dagli studi della psicologa statunitense Carol Dweck negli anni Novanta presso l’Università di Stanford, questo approccio si fonda sull’idea che l’intelligenza e le capacità non siano doti innate e immutabili, bensì competenze dinamiche che possono essere sviluppate nel tempo attraverso l’impegno, la perseveranza e l’apprendimento dagli errori. A differenza della mentalità fissa, che tende a cristallizzare i limiti e a scoraggiare il miglioramento, il growth mindset favorisce negli studenti un atteggiamento positivo verso le sfide, una maggiore capacità di resilienza e una visione dell’errore come parte integrante e costruttiva del processo formativo. Questo approccio ha attirato l’attenzione non solo degli insegnanti, ma anche di genitori, dirigenti scolastici, formatori e ricercatori, divenendo punto di riferimento in numerose iniziative scolastiche sia negli Stati Uniti sia in Europa.

La diffusione nelle scuole e le criticità emerse

L’entusiasmo con cui molte scuole, soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, hanno accolto la teoria del growth mindset testimonia la sua attrattiva pedagogica. Si tratta di un’idea semplice, intuitiva e carica di positività, capace di valorizzare la soggettività dello studente e di orientare l’insegnamento verso la costruzione dell’autoefficacia. Tuttavia, nonostante la popolarità del concetto, il corpus di evidenze scientifiche a supporto della sua efficacia come strumento per il miglioramento dei risultati scolastici è ancora oggetto di discussione.

Una ricerca condotta nel Regno Unito dalla Education Endowment Foundation (EEF), in collaborazione con il National Institute for Economic and Social Research (NIESR), ha valutato l’impatto del programma Changing Mindsets, ideato per promuovere la growth mindset tra gli studenti dell’ultimo anno della scuola primaria. I risultati, misurati tramite i test nazionali di literacy e numeracy, non hanno mostrato miglioramenti significativi nei livelli di apprendimento rispetto al gruppo di controllo. È interessante notare che anche molti insegnanti delle scuole oggetto di rilevazione, pur non adottando formalmente il programma, utilizzavano già spontaneamente pratiche riconducibili al growth mindset, come l’enfasi sullo sforzo e sull’autovalutazione. Questa sovrapposizione rende difficile l’isolamento degli effetti specifici dell’intervento. La ricerca sottolinea, quindi, la necessità di un’implementazione strutturata, coerente e monitorata, che non si limiti a slogan motivazionali o interventi frammentari, ma che coinvolga in modo organico l’intero impianto pedagogico e l’identità professionale del docente.

Tra intuizione pedagogica e fondamento empirico

La distanza tra il successo intuitivo del modello e i risultati talvolta contraddittori della ricerca solleva interrogativi sull’efficacia reale del growth mindset. La teoria ha il merito di porre l’accento su aspetti cruciali dell’educazione, come la motivazione, la percezione di sé e l’atteggiamento verso l’errore, ma da sola non garantisce il miglioramento degli apprendimenti. È essenziale integrare il growth mindset in un contesto educativo complesso e coerente, che includa pratiche strutturate, valutazioni formative e un ambiente scolastico favorevole alla sperimentazione.

Il genetista britannico Robert Plomin ha criticato l’adozione acritica del growth mindset, considerandolo una “moda” educativa priva di basi scientifiche solide, se non adeguatamente contestualizzato. Per evitare una banalizzazione del concetto, è fondamentale che i docenti siano formati criticamente, in modo da comprendere le opportunità offerte dal modello e valutarne con consapevolezza limiti e potenzialità. Il growth mindset può fiorire solo se incorporata in una visione sistemica che promuova la motivazione, l’autoefficacia e la gestione dell’errore come strumento di crescita.

Declinazioni operative in aula: rendere visibile il processo

Carol Dweck ha più volte ribadito che il growth mindset non deve essere trasmesso in modo astratto, ma reso visibile attraverso pratiche concrete e quotidiane da parte degli insegnanti. Si tratta di un lavoro pedagogico profondo, che investe il modo di valutare, incoraggiare, ascoltare e comunicare. L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione dal risultato all’impegno, dalla risposta corretta alla qualità del ragionamento, dalla prestazione alla riflessione sul processo. Questo implica anche una riconsiderazione dei criteri di successo, allontanandosi da una visione prestazionale e classificatoria per abbracciare un’idea di crescita continua e personalizzata.

Le attività didattiche devono essere autentiche, motivanti e orientate al problem solving. Compiti sfidanti, ma accessibili, aiutano gli studenti a sviluppare la flessibilità cognitiva e l’autoregolazione, due competenze chiave nella società della conoscenza. Il feedback deve essere costruttivo, orientato al miglioramento e focalizzato sulle strategie adottate, piuttosto che sul risultato ottenuto. È attraverso il dialogo riflessivo che si promuove l’apprendimento metacognitivo e si rafforza la consapevolezza di sé.

L’ambiente scolastico, sia fisico che relazionale, deve favorire la collaborazione, l’ascolto e la fiducia reciproca. Un’aula in cui gli errori sono accolti come opportunità, in cui ogni voce è valorizzata e in cui il docente si pone come guida empatica, rappresenta il contesto ideale per far attecchire il growth mindset. Solo in un clima coeso e coerente, gli studenti potranno interiorizzare davvero questo approccio e sviluppare un’identità scolastica fondata sulla resilienza e sulla possibilità del cambiamento.

Aspetti pedagogici della growth mindset

Il growth mindset si inserisce nella cornice della pedagogia attiva e costruttivista, che valorizza l’alunno come soggetto protagonista dell’apprendimento. Il docente assume il ruolo di facilitatore dei processi cognitivi, relazionali e metacognitivi, accompagnando l’evoluzione dell’identità dello studente. L’errore viene riconosciuto come elemento prezioso del percorso educativo e il processo diventa più importante del prodotto finale, in linea con il pensiero di John Dewey, secondo cui si impara facendo, riflettendo e rielaborando.

Approcci come il learning by doing, la didattica laboratoriale e la valutazione formativa trovano nel growth mindset un naturale alleato. Il contributo di Jerome Bruner e Lev Vygotskij appare fondamentale per comprendere come la zona di sviluppo prossimale e il supporto docente favoriscano la progressiva autonomia del discente. L’obiettivo non è soltanto acquisire competenze, ma formare cittadini consapevoli, resilienti e autonomi. In questa prospettiva, l’educazione alla resilienza, all’autodisciplina e all’autoefficacia, come sottolineato anche da Albert Bandura, diventa parte integrante della quotidianità scolastica e dell’interazione educativa.

Aspetti neuroscientifici e implicazioni cognitive

Le neuroscienze confermano la plasticità cerebrale come elemento centrale nell’apprendimento. Studi condotti in Europa e negli Stati Uniti, attraverso avanzate tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e l’elettroencefalografia (EEG), mostrano come l’attività ripetuta, l’impegno intenzionale e l’emozione positiva rafforzino le connessioni neurali e favoriscano la memoria a lungo termine. In particolare, le ricerche statunitensi dell’Università di Stanford e britanniche dell’Università di Cambridge hanno evidenziato come i processi metacognitivi e motivazionali attivino regioni cerebrali legate all’autoregolazione e al rinforzo dopaminergico, facilitando l’apprendimento profondo.

Il growth mindset, stimolando la motivazione intrinseca e la fiducia nelle proprie capacità, attiva i circuiti dopaminergici del cervello, in particolare il sistema mesolimbico, promuovendo l’adattamento flessibile alle nuove informazioni. L’idea che l’intelligenza sia modificabile nel tempo rispecchia il concetto di plasticità sinaptica, su cui convergono numerose evidenze neuroscientifiche.

Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo e docente presso l’Università di Padova, ha introdotto il concetto di “didattica delle emozioni”, evidenziando l’importanza di un clima scolastico che riduca l’ansia e favorisca l’autoefficacia. Le sue ricerche condotte in Italia, con il gruppo di ricerca Mind4Children, dimostrano che un contesto emotivamente sicuro promuove lo sviluppo cognitivo e la capacità di affrontare sfide complesse. L’attivazione positiva del sistema limbico favorisce una più efficace elaborazione delle informazioni, confermando come emozione e cognizione siano profondamente interconnesse. Il growth mindset, dunque, non è solo una teoria motivazionale, ma una strategia fondata su robuste evidenze neurobiologiche e psicopedagogiche, capace di incidere sul benessere e sul rendimento scolastico degli studenti.

Buone pratiche per ogni ordine di scuola

L’applicazione del growth mindset va calibrato in base all’età degli studenti e alle loro esigenze evolutive, nella consapevolezza che ogni fase dello sviluppo richiede strumenti e approcci specifici, capaci di accompagnare i giovani lungo il percorso di costruzione dell’identità personale e cognitiva.

Nella scuola dell’infanzia, l’apprendimento passa attraverso il gioco simbolico, l’esplorazione sensoriale e l’esperienza corporea: contesti che, secondo Jean Piaget, rappresentano forme privilegiate di assimilazione e accomodamento. Valorizzare l’errore, in questo primo ciclo di vita, significa creare un clima di fiducia in cui ogni tentativo, anche fallimentare, diventa occasione per apprendere e per strutturare una relazione positiva con sé e con l’ambiente.

Nella scuola primaria, l’ingresso nei saperi formali richiede un accompagnamento metacognitivo costante: strumenti come rubriche valutative, mappe concettuali, diari di bordo o portfolio permettono ai bambini di rappresentare il proprio percorso e di comprendere che l’apprendimento è un processo evolutivo e non un’etichetta immutabile. Come sottolineato da John Hattie, è fondamentale che il feedback sia formativo, chiaro e costruttivo, per sostenere l’autoefficacia e la motivazione intrinseca.

Nella scuola secondaria di primo grado, la costruzione dell’identità, messa alla prova da nuovi interrogativi esistenziali e relazionali, rende centrale il tema della narrazione di sé. In questa fase, come osserva Jerome Bruner, la dimensione narrativa dell’apprendimento consente di organizzare le esperienze in forma di racconto, favorendo la consapevolezza delle proprie risorse e la rielaborazione degli insuccessi. Promuovere il growth mindset significa, qui, sostenere la riflessione, il confronto e l’accettazione del limite.

Nella scuola secondaria di secondo grado, l’adolescente si affaccia all’età adulta e ha bisogno di spazi di autonomia, progettualità e pensiero critico. L’insegnante diventa mentore, guida capace di stimolare la responsabilità, la resilienza e la capacità di auto-valutarsi. In linea con le riflessioni di Albert Bandura sull’autoefficacia, è importante offrire sfide cognitive equilibrate e occasioni per esercitare il pensiero divergente, affinché la crescita non sia solo accademica ma anche personale e sociale.

Manuali e letture per approfondire

Per approfondire la teoria del growth mindset e comprenderne le sue applicazioni in ambito educativo, si possono consultare diversi testi fondamentali disponibili in lingua italiana. Uno dei riferimenti principali è l’opera di Carol Dweck, Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo (Franco Angeli, 2023), in cui l’autrice, pioniera della teoria, illustra come l’atteggiamento mentale influenzi profondamente i risultati scolastici, le dinamiche familiari e l’ambiente professionale. Il libro rappresenta una guida essenziale per chiunque desideri comprendere i meccanismi psicologici alla base dell’apprendimento e della motivazione.

In linea con questo approccio, Elena Malaguti in Educarsi alla resilienza (Erickson, 2005) indaga la stretta connessione tra resilienza, emozioni e crescita personale, offrendo una prospettiva educativa incentrata sul rafforzamento del mindset positivo, soprattutto nei contesti più fragili.

Un contributo importante è dato anche da Daniela Lucangeli, che in A mente accesa. Crescere e far crescere (Mondadori, 2024) unisce i risultati delle neuroscienze alla riflessione pedagogica, ponendo al centro il ruolo della curiosità, della motivazione e dell’intelligenza emotiva nei processi di apprendimento.

Tutti questi testi condividono un orientamento educativo che riconosce il potenziale trasformativo della mente, sottolineando l’importanza dell’atteggiamento con cui si affrontano le sfide, e forniscono strumenti teorici e operativi per costruire ambienti di apprendimento più consapevoli, resilienti e orientati alla crescita.

Conclusioni

Il growth mindset non è soltanto una teoria educativa, ma rappresenta una visione trasformativa e profondamente etica dell’apprendimento e dello sviluppo umano. In un’epoca caratterizzata da incertezze e mutamenti rapidi, adottare un growth mindset significa restituire centralità al potenziale dell’individuo, promuovendo un approccio inclusivo, empatico e orientato alla valorizzazione della persona nella sua unicità. Quando tale paradigma viene integrato in modo consapevole nella quotidianità scolastica, non si limita a influenzare i risultati didattici, ma contribuisce alla creazione di ambienti relazionali fondati sulla fiducia, sul riconoscimento reciproco e sulla possibilità di apprendere anche dagli errori. La crescita, dunque, non si configura come traguardo statico, ma come processo continuo che si nutre di motivazione intrinseca, apertura mentale e riflessione critica. Come ricorda Carol Dweck, “La convinzione di poter migliorare è già l’inizio del cambiamento”. Questa affermazione, se assunta in profondità, invita tutta la comunità scolastica a rinnovare la propria cultura pedagogica, investendo in pratiche che alimentino il senso di autoefficacia e la possibilità concreta di trasformazione.

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Crescere si può

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Imparare dagli errori, allenare la mente, credere nel cambiamento

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Diventare più intelligenti significa imparare a vivere meglio. Non per accumulare successi o superare gli altri, ma per comprendere con più profondità ciò che ci circonda, riconoscere l’essenza effimera della vita, cogliere il senso nascosto delle esperienze. L’intelligenza, in questa luce, non è solo calcolo o logica, ma anche consapevolezza, sensibilità, capacità di abitare la complessità con equilibrio e autenticità.

Eppure, ancora oggi, nell’immaginario comune e spesso anche tra i banchi di scuola, sopravvive l’idea che l’intelligenza sia un dono fisso, distribuito in modo iniquo alla nascita. Sei “portato” o “non portato”, “bravo” o “negato”. Etichette che si appiccicano presto alla pelle dei bambini e che finiscono, lentamente, per diventare profezie che si autoavverano.

Questa visione statica dell’intelligenza pervade ancora molti contesti educativi, insinuandosi nei voti affrettati, nelle aspettative sbilanciate, negli sguardi delusi rivolti a chi fatica. La scuola, spesso inconsapevolmente, diventa teatro di una narrazione limitante, che separa chi “ce la farà” da chi è destinato ad arrancare. E così, invece di liberare potenzialità, le ingabbia.

Ma le neuroscienze, la psicologia cognitiva, la pedagogia contemporanea ci dicono altro.

 Ci dicono che l’intelligenza non è una torre costruita una volta per tutte, ma una casa in divenire, fatta di stanze che si possono sempre ampliare, modificare, rendere più accoglienti. Ogni esperienza significativa, ogni sfida affrontata, ogni errore elaborato diventa un mattone in più.

 In questo orizzonte, il lavoro della psicologa Carol Dweck rappresenta una svolta epocale. La sua teoria della “mentalità di crescita” ha restituito agli studenti — e a chi li accompagna — la possibilità di pensarsi in movimento, in trasformazione. Non più “sei intelligente” o “non lo sei”, ma “puoi diventarlo”, se abbracci la fatica come opportunità, se consideri l’errore non una condanna ma un passaggio, se impari a credere nella possibilità di cambiare.

La scuola, allora, deve smettere di fotografare gli studenti ma deve imparare a filmarli. Deve diventare uno spazio in cui le traiettorie si intrecciano, si correggono, si rinnovano. Coltivare l’intelligenza non è un’illusione ma un dovere educativo, un investimento culturale, una sfida che coinvolge ogni insegnante, ogni genitore, ogni istituzione. Perché se l’intelligenza può crescere, l’educazione deve diventare il terreno più fertile per farla fiorire. E forse, solo allora, potremo davvero educare alla felicità.

La mentalità di crescita secondo Carol Dweck

La teoria di Carol Dweck rappresenta una svolta profonda nel campo dell’apprendimento, poiché affronta non solo il modo in cui apprendiamo, ma il modo in cui pensiamo a noi stessi come esseri capaci di apprendere. Alla base della sua ricerca vi è la distinzione tra due modalità di pensiero che modellano l’atteggiamento degli studenti: la mentalità fissa e la mentalità di crescita. La mentalità fissa è radicata nella convinzione che le proprie capacità siano innate, immutabili, e che ogni successo o fallimento confermi tale destino. Gli studenti che la adottano tendono a evitare le sfide, a nascondere gli errori, a vivere il giudizio come minaccia. Al contrario, la mentalità di crescita riconosce che le abilità possono essere sviluppate attraverso l’impegno, l’utilizzo di strategie efficaci e la disponibilità a imparare dagli errori.

Questa prospettiva libera lo studente dalla trappola della prestazione e lo introduce in una logica di apprendimento autentico, nella quale lo sforzo non è sinonimo di debolezza, ma dimostrazione di coraggio e desiderio di miglioramento. Dweck dimostra, attraverso numerosi studi sperimentali condotti su campioni scolastici e universitari, che l’approccio mentale condiziona in modo significativo non solo i risultati accademici, ma anche il benessere psicologico, la resilienza emotiva, la capacità di stabilire obiettivi e di perseverare di fronte agli ostacoli.

La mentalità di crescita diventa, così, una chiave di lettura e di trasformazione della relazione educativa, poiché aiuta a riconoscere le potenzialità anche dove il giudizio scolastico tende a vedere un limite. Cambiare mentalità, sostiene Dweck, significa anche cambiare linguaggio: dire “non ci riesco ancora” al posto di “non ci riesco” trasmette agli studenti l’idea che ogni fallimento sia un momento intermedio, non un punto d’arrivo. È un cambio di paradigma, un invito a credere in ciò che ancora non è, ma può essere.

Le neuroscienze e la plasticità cerebrale

I progressi nel campo delle neuroscienze hanno confermato che il cervello è dotato di una straordinaria plasticità, ovvero della capacità di modificare la propria struttura e le proprie funzioni in risposta all’esperienza. Le connessioni neuronali non sono elementi rigidi e predeterminati, ma circuiti flessibili che possono rafforzarsi, moltiplicarsi e riorganizzarsi grazie all’esposizione a stimoli cognitivi, all’allenamento intenzionale e alla varietà dell’ambiente. Ogni nuova competenza, ogni sforzo mentale, ogni esperienza significativa lascia una traccia tangibile nel cervello, modificandolo fisicamente e ampliando il potenziale dell’individuo.

Questo significa che l’apprendimento non è solo un processo mentale astratto, ma una vera e propria trasformazione biologica. Apprendere modifica letteralmente la struttura cerebrale, aprendo la strada a un’idea di intelligenza non statica ma dinamica, in costante divenire. Tale visione comporta un ripensamento radicale del modello scolastico: se il cervello è modificabile, allora anche la scuola deve diventare un contesto che favorisce il cambiamento, offrendo a ogni studente opportunità reali di crescita, indipendentemente dal punto di partenza.

Diventa, pertanto, indispensabile superare l’approccio classificatorio della valutazione sommativa, che cristallizza le performance in voti, per orientarsi verso percorsi formativi che valorizzino i processi. Integrare nel curricolo scolastico attività che stimolino la creatività, il pensiero critico, la risoluzione di problemi autentici e la capacità di autoriflessione significa sfruttare la plasticità cerebrale come leva per generare apprendimenti profondi e duraturi. È attraverso esperienze significative, riflessione consapevole e ambienti relazionali positivi che il cervello scolastico si trasforma in un cervello che apprende davvero.

L’errore come alleato dell’apprendimento

Uno degli ostacoli principali all’adozione della mentalità di crescita risiede nel modo in cui la scuola tradizionale tratta l’errore, spesso considerato una colpa, una macchia da evitare o nascondere. In molte aule, sbagliare equivale a fallire, ed è proprio questa equazione a minare la possibilità di crescita. Il giudizio, legato quasi esclusivamente al risultato, genera paura e inibisce il pensiero creativo. Al contrario, nella prospettiva della mentalità di crescita, l’errore rappresenta una preziosa opportunità di apprendimento. Ogni sbaglio, se accolto e analizzato, diventa una lente che permette di osservare in profondità il proprio processo cognitivo, individuare le aree da migliorare e consolidare nuove strategie.

Insegnare agli studenti ad accogliere l’errore, a rifletterci sopra con consapevolezza, a coglierne il valore informativo e a riprovare senza sentirsi sminuiti, significa educarli alla resilienza e alla fiducia in sé stessi. È un passaggio culturale che trasforma la percezione del fallimento da barriera a ponte verso l’evoluzione personale. Gli insegnanti, in questo delicato processo, hanno il compito cruciale di creare un ambiente emotivamente sicuro, dove l’errore non venga stigmatizzato ma considerato tappa fisiologica del cammino verso la comprensione.

Attività come l’autocorrezione guidata, il confronto aperto in gruppo, i momenti di rilettura collettiva degli errori più frequenti e le simulazioni con feedback immediato possono trasformare l’aula in un autentico laboratorio cognitivo. In questo contesto, sbagliare non è più temuto, ma vissuto come parte integrante del gioco dell’apprendere. Ed è proprio in questo spazio liberato dalla paura che lo studente impara davvero, perché trova il coraggio di mettersi in gioco, esplorare, rischiare e crescere.

Strategie didattiche quotidiane per una scuola che fa crescere

Applicare la teoria della mentalità di crescita in classe non richiede rivoluzioni eclatanti, ma gesti quotidiani e coerenti che trasformino la cultura scolastica dal basso. Ogni interazione tra docente e studente può diventare un’occasione per coltivare fiducia, per incoraggiare lo sforzo e per orientare lo studente verso una visione di sé come soggetto attivo del proprio percorso di apprendimento. Il feedback rappresenta, in tal senso, uno strumento chiave: quando è specifico, costruttivo e orientato al processo, aiuta gli studenti a cogliere non solo ciò che è stato raggiunto, ma soprattutto come migliorare, quali strategie rafforzare e su quali aspetti riflettere.

Le attività proposte in aula dovrebbero mirare alla stimolazione della riflessione metacognitiva, della capacità di problem solving e della collaborazione tra pari. Compiti autentici, basati su situazioni reali e su domande aperte, sono più efficaci rispetto agli esercizi meccanici e ripetitivi, poiché richiedono di pensare in modo flessibile, di adattarsi, di sperimentare e di correggersi. In un contesto di questo tipo, è importante che gli studenti siano messi nella condizione di riconoscere le strategie che funzionano per loro, di valutare con lucidità i propri errori e di riformulare con coraggio il proprio approccio quando incontrano ostacoli.

Anche la valutazione può e deve essere ripensata in questa direzione. Se condotta con criteri trasparenti, rubriche condivise e modalità formative, la valutazione smette di essere un giudizio statico e diventa un’opportunità per documentare la crescita, per valorizzare i progressi e per orientare l’apprendimento futuro. Una scuola orientata alla crescita è, in definitiva, una scuola che costruisce consapevolezza, alimenta l’autonomia e insegna a imparare ad imparare. È un luogo dove il potenziale di ciascuno viene riconosciuto e accompagnato con cura, con la certezza che la mente, come un muscolo, si rafforza attraverso l’uso, la fiducia e il tempo.

Il valore dello sforzo e della perseveranza

In una scuola che promuove la mentalità di crescita, il talento cede il passo alla determinazione, perché il vero apprendimento non nasce da ciò che si sa, ma da ciò che si sceglie di costruire con costanza. Lo sforzo e la perseveranza non sono virtù da premiare solo quando portano a un risultato brillante, ma atteggiamenti fondamentali da riconoscere e coltivare in ogni fase del percorso scolastico. Insegnare agli studenti a perseverare non significa solo spingerli a non arrendersi, ma accompagnarli nella scoperta che la fatica è parte integrante di ogni evoluzione, e che i momenti di stallo o frustrazione non sono fallimenti, ma tappe inevitabili del processo.

I docenti hanno un ruolo decisivo nell’alimentare questa visione: devono sostenere i loro studenti nei momenti di difficoltà, accogliere la loro insicurezza e restituire fiducia attraverso parole, gesti, aspettative realistiche ma alte. Una cultura educativa che premia l’impegno sincero, che lascia spazio alla fatica e alla lentezza, è una cultura che rifiuta l’urgenza della prestazione immediata e valorizza la crescita continua. La perseveranza, infatti, non è solo una qualità personale, ma una competenza che si costruisce attraverso esperienze significative, obiettivi progressivi e adulti che fungano da modelli di resilienza.

Ogni piccolo traguardo raggiunto grazie allo sforzo, ogni sfida affrontata con tenacia, contribuisce alla costruzione di una visione positiva di sé come individuo capace di superare i propri limiti. Quando la perseveranza viene insegnata come parte del curricolo invisibile, diventa una risorsa per la vita, una forza silenziosa che accompagnerà gli studenti ben oltre i confini dell’aula. Solo in questo modo la scuola potrà formare persone davvero pronte ad affrontare la complessità del mondo, senza temere la propria imperfezione ma riconoscendola come punto di partenza per crescere.

Conclusione

Rendere la mentalità di crescita un orizzonte pedagogico condiviso non significa aderire a una moda educativa, ma abbracciare una visione radicale e profonda del compito formativo della scuola. Significa rispondere con responsabilità e consapevolezza a ciò che le scienze cognitive, la pedagogia critica e l’esperienza scolastica quotidiana ci mostrano con chiarezza: tutti possono imparare, a patto che siano accolti, sostenuti e messi nelle condizioni di farlo. Ogni studente è un potenziale in divenire, un’opera aperta che va accompagnata con fiducia, rigore e umanità.

La scuola, dunque, non può limitarsi a trasmettere saperi cristallizzati, ma deve farsi promotrice di un apprendimento che trasformi, che renda i ragazzi protagonisti consapevoli del proprio cammino. Insegnare a credere in sé stessi, ad accettare l’errore, ad amare la fatica del pensiero, vuol dire offrire strumenti di vita prima ancora che di studio. Coltivare l’intelligenza significa, in fondo, coltivare l’umanità nelle sue forme più alte: la capacità di riflettere, di scegliere, di migliorarsi.

Quando un ragazzo scopre che il suo cervello può cambiare, che lui stesso può cambiare, allora si libera dalla paura del giudizio, dall’ombra del fallimento, dalle etichette limitanti. E a quel punto, davvero, nulla può più fermarlo. La scuola che insegna a cambiare non costruisce solo competenze, ma costruisce libertà.

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