S. Márai, Le braci

 Márai, nel segno dei grandi

 di Antonio Stanca

   Una nuova edizione del romanzo Le braci, dello scrittore ungherese Sándor Márai, è comparsa di recente per conto della casa editrice Adelphi che molte opere del Márai ha pubblicato. Alla traduzione de Le braci ha contribuito la Hungarian Book Foundation. L’edizione originale c’era stata a Budapest nel 1942 e le vicende di questa e delle altre opere dello scrittore sarebbero state alterne, avrebbero seguito quelle della sua vita, sarebbero passate tra accettazione e rifiuto finché ultimamente si sarebbe assistito ad una loro completa rivalutazione, riabilitazione. Ultimamente sarebbero entrate a far parte della serie dei grandi romanzi verificatasi nella cultura mitteleuropea compresa tra ultimo Ottocento e primo Novecento e destinata a rimanere una testimonianza tra le maggiori della tradizione narrativa continentale. Vi sarebbero rientrati autori, soprattutto scrittori ma anche artisti figurativi, uomini di pensiero, di spettacolo, di diversa nazionalità, cultura, lingua, formazione. Ci sarebbero stati tra gli altri Thomas Mann, Robert Musil, Thomas Bernhard e in tempi più recenti Milan Kundera. Si sarebbe creata, senza che la si programmasse, una corrente culturale, letteraria, artistica, capace di ritrovarsi, riconoscersi pur a distanza di luogo, di tempo poiché quelli della memoria, del ricordo, dello smarrimento esistenziale sarebbero stati i temi, i toni che si rincorrevano. Le opere di narrativa avrebbero assunto un rilievo maggiore, sarebbero state opere di riflessione, di elaborazione. Erano comparse nuove discipline, c’erano nuovi strumenti d’indagine. Alcune di queste opere sarebbero diventate memorabili per la forma espressiva, i significati, quasi tutte avrebbero detto di quanto stava avvenendo nell’Europa di quegli anni, di come si stava passando dal vecchio al nuovo mondo, dal mondo dell’idea, dello spirito, dell’anima a quello della realtà, della materia, della pratica. Era la fine di una grande epoca ed era come se l’arte non volesse rassegnarsi a tanta tristezza, a tale sconfitta, come se volesse salvare, con le sue opere, quanto dei vecchi tempi era ancora possibile o rappresentare il disagio che derivava dalla sua perdita.

   Diventò e rimase l’Età del Decadentismo volendo intendere così non solo l’aspetto letterario ma ogni altro che la cultura di allora assunse. Di quell’età fece parte Sándor Márai. Era nato a Kassa nel 1900 e sarebbe morto suicida a San Diego, California, nel 1989. Pur essendosi appassionato alla storia, alla cultura, alla lingua ungherese, pur avendo fatto dell’Ungheria la sua patria d’elezione rispetto alla Germania, non ne sarebbe stato ricambiato e insoddisfatto, deluso di quanto avveniva nella politica, nella società della sua nazione, se n’era andato quando non aveva ancora vent’anni. Adattandosi alle più diverse circostanze aveva trascorso un lungo periodo di esilio volontario tra Germania e Francia, Berlino e Parigi. Risale a quel periodo il matrimonio con Lola, una ragazza di Kassa. Dopo altre esperienze di carattere culturale, artistico, scrisse per giornali e riviste, pubblicò la prima raccolta di poesie, nel 1928 rientrò in Ungheria e si applicò per molto tempo, circa vent’anni, nella sua attività di scrittore. A quegli anni risalgono le maggiori opere di narrativa e un certo successo, una notorietà che, però, sarà disturbata dai primi segnali di un disagio, di uno scontento che si aggraverà quando il suo nome sarà messo all’indice e i suoi libri vietati in Ungheria per quarant’anni. Succederà perché Márai non accetterà la tessera del nuovo governo comunista. Nel 1948 andrà di nuovo in esilio, prima in Svizzera, poi in Italia ed infine in America, dove si sarebbe tolto la vita dopo aver assistito alla morte del proprio figlio, a quella del figlio adottivo e della moglie. In una condizione di estrema solitudine, di isolamento, di silenzio si era trasformato il secondo esilio volontario. Un isolamento, un silenzio più gravi di quelli del primo poiché falliti aveva visto lo scrittore gli impegni, gli ideali ai quali si era convinto di dover attendere con la sua opera. Erano gli impegni, gli ideali di quello che sarebbe stato il suo personaggio più importante, il più famoso, il generale Henrik, di antico e illustre casato, che ne Le braci ha tanto creduto nei valori morali, spirituali da non accettare di essere stato tradito dalla bella moglie della quale è molto innamorato e dal migliore amico che tanto ha aiutato. Una scoperta simile lo farà andare, nel libro, ad una lunga, interminabile confessione rivolta a cercare le spiegazioni, le cause di tanto danno. Ne troverà alcune ma non basteranno a risolvere lo stato di angoscia nel quale è precipitato. Dovrà riconoscere che in certi casi non ci sono parole che possano valere, servire, dovrà ammettere che la sua lunghissima ricerca a ben poco è servita se di quello che era decoro, rispetto, onore sono rimaste solo “le braci”. È servita, però, affinché Márai non rimanesse nella penombra alla quale sarebbe stato destinato se non l’avesse fatta, se non avesse scritto questo e altri romanzi quali L’eredità di Eszter, Confessioni di un borghese, dove si è mostrato degno di stare accanto ai grandi autori di quella koinè verificatasi allora tra le nazioni dell’Europa centrale e rivelatasi capace di opere storiche. Se di Márai non si può dire che sia stato uno dei protagonisti non si può nemmeno negare che le sue qualità siano state pari a quelle degli altri grandi del momento riguardo all’espressione, all’esposizione, “maestro di stile” fu ritenuto, e ai contenuti, ai significati. Non può essere escluso dalla compagine solo perché sfortunato. Anche alla sua triste sorte ha dato voce nelle opere riuscendo a farne motivo di letteratura, di arte. 

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