Il silenzio

 Il silenzio

Scuola, emozioni e giustizia nella lotta al narcisismo e alla violenza di genere

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Storie di vite che soffrono in silenzio, prigioniere di quelle mura domestiche costruite con amore, si trasformano in narrazioni tragiche di dolore e sopravvivenza. Prigioniere non solo degli spazi fisici, ma di una società che troppo spesso si volta dall’altra parte. Anche chi riesce a scappare da relazioni distruttive si trova a combattere un’altra battaglia: quella contro l’isolamento, il giudizio, la mancanza di ascolto. Se da un lato l’opinione pubblica condanna gli atti estremi, dall’altro mostra una scarsa solidarietà verso chi tenta di liberarsi e ricostruire sé stessa, spesso a rischio della propria vita.

Il narcisista patologico è abile a conquistare le masse, a manipolare la percezione pubblica. Con le sue parole, il carnefice diventa vittima e la vittima viene screditata, isolata, resa invisibile. È in questo sofismo retorico che si annida un pericolo culturale profondo, che la società civile è chiamata a contrastare con determinazione e lucidità, a partire dall’educazione.

Ogni volta che una donna viene uccisa per mano del partner o dell’ex compagno, ci troviamo di fronte a una domanda urgente e scomoda: cosa non ha funzionato nell’educazione di quell’uomo? E cosa avrebbe potuto salvarla? I femminicidi non sono soltanto delitti individuali, ma il riflesso tragico di una cultura ancora intrisa di dominio, possesso e disuguaglianza, sedimentata in secoli di patriarcato che ha modellato persino il linguaggio, l’immaginario collettivo, i modelli educativi.

In questa cornice, la scuola assume un ruolo cruciale e irrinunciabile. È tra i banchi che si formano i pensieri, le relazioni, le prime idee sull’amore, sul rispetto, sul corpo e sull’altro. È nella quotidianità scolastica, fatta di sguardi, parole, attività e silenzi, che si costruisce o si disfa l’educazione sentimentale e sociale di una generazione.

È a scuola che si può insegnare, con parole e comportamenti, che l’amore non uccide, che non esiste libertà senza rispetto e che la fragilità emotiva non può essere gestita con il dominio. Ma per farlo, bisogna riconoscere che educare alla parità non è un’attività collaterale, bensì una priorità pedagogica e civica. In un Paese in cui il numero delle vittime continua a salire, la neutralità è una forma di complicità. Tacere, rinviare, banalizzare è già un modo di schierarsi dalla parte sbagliata.

Un’emergenza sociale che interpella la scuola

Ogni volta che la cronaca restituisce l’ennesimo caso di femminicidio, la società si scuote, si interroga, si indigna. Ma troppo spesso l’indignazione si disperde nel rumore, mentre le radici profonde del fenomeno rimangono intatte. I femminicidi non sono mai eventi isolati, ma l’apice tragico di una lunga escalation di controllo, possesso e disumanizzazione, che affonda le sue radici in un sistema patriarcale interiorizzato e ancora largamente tollerato.

Non si tratta solo di episodi di violenza, ma di un preciso ordine culturale che per secoli ha legittimato la prevaricazione dell’uomo sulla donna, normalizzando atteggiamenti sessisti, sminuendo il concetto di consenso, minimizzando la violenza psicologica ed economica. Questa cultura si riproduce nei media, nei modelli familiari, nel linguaggio quotidiano e, se non contrastata, anche nella scuola.

La scuola, in quanto istituzione educativa per eccellenza, non può restare a guardare. Non può limitarsi a trasmettere saperi astratti o ad adempiere a obblighi burocratici, ma deve farsi presidio attivo di giustizia e consapevolezza. Educare alla parità, alla relazione sana, al rispetto dei confini altrui, non è un compito accessorio. È una missione pedagogica urgente e trasversale, che riguarda ogni ordine di scuola e ogni disciplina, dal nido all’università. È attraverso l’educazione che si spezzano le catene dell’indifferenza e si coltiva una nuova coscienza collettiva.

Il narcisismo patologico e la cultura del possesso

Le dinamiche disfunzionali che conducono alla violenza contro le donne sono spesso legate a forme di narcisismo patologico, disturbo della personalità caratterizzato da una profonda insicurezza, mascherata da onnipotenza e bisogno compulsivo di ammirazione. Dietro la maschera dell’amore si celano desideri di controllo, paure dell’abbandono, mancanza di empatia e un bisogno costante di conferme, che si trasforma in manipolazione e dominio sull’altro.

Il partner abusante non ama, possiede. Non ascolta, impone. Si nutre della dipendenza emotiva della compagna, mina la sua autostima, isola gradualmente la vittima dalle sue reti sociali e familiari. E quando la donna sceglie di andarsene, quando reclama la propria libertà, l’illusione narcisistica crolla. È in quel crollo che il narcisista patologico può diventare letale, perché percepisce la fine della relazione come un affronto intollerabile, una ferita narcisistica che scatena un bisogno di vendetta e annientamento dell’altro.

Questi uomini, spesso insospettabili all’esterno e perfettamente integrati socialmente, presentano una fragilità interna che si trasforma in rabbia distruttiva, in un copione che si ripete con inquietante regolarità. Comprendere questi meccanismi, fin dalla giovane età, significa offrire strumenti fondamentali per riconoscere e allontanarsi da relazioni tossiche prima che degenerino.

Significa educare ragazzi e ragazze alla consapevolezza emotiva, alla gestione del rifiuto, all’autonomia affettiva, alla costruzione di legami basati sul rispetto reciproco. Serve una vera alfabetizzazione sentimentale che insegni a riconoscere i segnali della manipolazione, a rifiutare la logica del possesso, a dare valore ai propri confini e a quelli degli altri. Solo così sarà possibile contrastare alla radice la mentalità predatoria e salvare vite.

Le responsabilità della scuola tra pedagogia e didattica

La scuola ha il compito di decostruire stereotipi, promuovere un pensiero critico e fornire un’educazione affettiva che insegni a distinguere l’amore dal possesso, la cura dal controllo, la gelosia dalla violenza. Questa educazione non può essere affidata al caso o delegata a momenti straordinari, deve diventare parte della didattica quotidiana, strutturata attraverso linguaggi plurali, laboratori, letture guidate, discussioni filosofiche e pratiche riflessive.

Non si tratta solo di trasmettere nozioni, ma di formare una coscienza relazionale. Questo non significa inserire occasionali “lezioni sulla parità” in giornate commemorative, ma costruire percorsi continui, trasversali, interdisciplinari. La pedagogia della parità non è un’aggiunta al curricolo, è il fondamento di ogni vera educazione democratica, perché insegna il rispetto della persona come valore assoluto e inalienabile.

Ogni insegnante, qualunque sia la disciplina, può contribuire a promuovere modelli relazionali sani, valorizzando la diversità, smascherando i micro-sessismi, rielaborando testi, riscrivendo finali alternativi, invitando al confronto tra modelli culturali diversi. Insegnare non è solo trasmettere contenuti, ma generare cittadinanza. E oggi più che mai, educare alla cittadinanza significa educare all’uguaglianza sostanziale, al rifiuto della prevaricazione, alla cura del legame umano.

Percorsi concreti dalla scuola dell’infanzia alle superiori

Già nella scuola dell’infanzia è possibile lavorare sul riconoscimento delle emozioni, sull’empatia, sul rispetto del corpo proprio e altrui. Attraverso il gioco simbolico, la lettura di albi illustrati e il dialogo quotidiano, si possono introdurre storie di amicizia, collaborazione e valorizzazione delle differenze. Le attività devono essere progettate per far emergere la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di riconoscere e nominare le emozioni, di capire che ognuno ha il diritto di dire no e che nessuno ha il diritto di far male o costringere.

Nella scuola primaria diventa fondamentale proporre attività cooperative, circle time, role playing, letture guidate di fiabe classiche reinterpretate in chiave paritaria, laboratori artistici e giochi di gruppo che stimolino il pensiero critico. Insegnare che non esistono giochi da maschi o da femmine, che ogni bambino può scegliere liberamente i propri interessi e le proprie emozioni, è già un atto rivoluzionario. L’educazione alla parità passa anche dal linguaggio, dalle dinamiche di classe, dalle relazioni quotidiane tra compagni e con gli insegnanti.

Alla scuola secondaria di primo grado si possono introdurre dibattiti regolati, visioni di film educativi seguite da analisi collettive, progetti teatrali, scrittura di storie alternative e incontri con esperti, psicologi e rappresentanti di centri antiviolenza. È qui che le relazioni affettive iniziano a delinearsi con maggiore intensità, ed è qui che si devono fornire gli strumenti per riconoscere dinamiche malsane, meccanismi di dipendenza emotiva e segnali precoci di abuso. Fondamentale è il lavoro trasversale tra educazione civica, lettere, scienze, arte e tecnologia per affrontare il tema della rappresentazione della donna e del corpo nei media e nei social.

Alle scuole secondarie di secondo grado dai licei, ai tecnici e ai professionali si può lavorare con il debate, con le simulazioni processuali ispirate a casi di cronaca o giurisprudenza, con l’analisi di testi letterari o filosofici che abbiano al centro il tema del rispetto, della libertà individuale, dell’autodeterminazione. La scrittura creativa può diventare uno strumento potente di elaborazione e denuncia. I progetti di peer education e mentoring possono responsabilizzare i ragazzi più grandi e creare spazi orizzontali di confronto. È anche il momento di affrontare in modo esplicito temi come il consenso, la libertà sessuale, l’identità di genere, la violenza psicologica e quella economica, con un linguaggio adulto, rispettoso e non moralistico.

Un esempio virtuoso in questo senso è rappresentato dall’Istituto Ettore Majorana di Milazzo, che ha realizzato l’evento “Narciso e Narcisi – Le mille facce del narcisismo patologico”, con contributi accademici universitari, interventi dell’Ordine degli Psicologi e della scrittrice Shara Pirrotti, autrice del libro Guariti per Amare, raccolta di testimonianze autentiche di vittime di narcisismo patologico. L’incontro ha offerto agli studenti un’occasione preziosa per confrontarsi con esperti e testimoni diretti, approfondendo in chiave scientifica, narrativa e relazionale il legame tra disturbi della personalità e violenza affettiva.

Il Majorana di Milazzo è andato anche oltre, organizzando un incontro di Debate in cui due squadre si sono confrontate pubblicamente sul tema del “Codice Rosso”: una a favore, guidata da un Commissario e vice Questore di Polizia, e una contraria, capitanata dal Presidente della Camera Penale di Messina. Questo confronto, aperto, documentato e civile, ha permesso agli studenti di esplorare la complessità della giustizia penale e delle misure di tutela delle vittime, sviluppando al tempo stesso pensiero critico, capacità oratoria e consapevolezza civica. È questo il volto migliore della scuola: una palestra di democrazia, di parola condivisa e di responsabilità. L’obiettivo è far emergere una nuova narrazione dell’intimità e delle relazioni, fondata sulla reciprocità, sulla libertà e sulla responsabilità affettiva.

Il ruolo delle emozioni e la prevenzione psicologica

La prevenzione della violenza passa dalla costruzione di un’identità affettiva solida e consapevole, che si radica nella capacità di stare in relazione senza annullare sé stessi o l’altro. I ragazzi e le ragazze devono imparare a gestire frustrazioni, delusioni, conflitti e vissuti di rifiuto senza trasformarli in rabbia distruttiva o auto-svalutazione. In questo percorso, la scuola può diventare uno spazio sicuro in cui sviluppare intelligenza emotiva, autostima, assertività e resilienza.

Molti giovani, che diventano carnefici o vittime, portano con sé storie di fragilità relazionale, modelli familiari segnati dalla violenza, carenze affettive o esperienze di abbandono e trascuratezza. Il disagio psico-affettivo, se non intercettato, può evolvere in forme di dipendenza, controllo o sottomissione nelle relazioni. Per questo occorre uno sguardo educativo che sia anche terapeutico, in grado di cogliere i segnali sommersi del malessere e intervenire in modo integrato.

Serve un’alleanza forte e continuativa tra scuola, famiglie, servizi territoriali, centri antiviolenza e sportelli psicologici scolastici. L’approccio deve essere sistemico poiché prevenire non significa soltanto intervenire sull’individuo, ma cambiare l’ambiente educativo, il clima scolastico, le relazioni tra pari, promuovendo una cultura del benessere e dell’ascolto.

Nessun alunno va lasciato solo nel proprio disagio. Le emozioni, se inascoltate, si trasformano in rabbia o annientamento. Se accolte e legittimate, diventano forza creativa, risorsa per costruire relazioni autentiche, motore di cambiamento e crescita. È solo così che la scuola può davvero diventare una comunità educante e protettiva, capace di accompagnare ogni studente nella costruzione di sé.

Costruire una nuova cultura relazionale

Il femminicidio non nasce da un raptus, ma da una cultura che ha tollerato per troppo tempo la violenza, l’ha giustificata, estetizzata, interiorizzata. Una cultura che ha legittimato la gelosia come segno d’amore, la rabbia come virilità, la sottomissione come dedizione, e che ancora oggi plasma l’immaginario collettivo attraverso fiabe, canzoni, narrazioni tossiche nei social e nei media.

In questo contesto, cambiare la cultura non è un atto isolato ma un processo lento e profondo, che richiede pazienza, coerenza e una visione educativa condivisa. Un processo che può e deve cominciare tra i banchi di scuola, in ogni ordine e grado, in ogni materia e in ogni interazione.

Parlare con i ragazzi, ascoltarli senza giudicarli, aiutarli a riflettere sulle parole che usano, sulle relazioni che vivono, sulle emozioni che provano e sui modelli che li influenzano, è già educazione alla libertà. Significa offrire loro la possibilità di diventare cittadini consapevoli, capaci di relazioni libere, fondate sulla reciprocità, sull’empatia e sul rispetto. La scuola ha il potere di interrompere la catena culturale della violenza, restituendo valore al linguaggio, dignità alle emozioni e senso alle relazioni.

Conclusione. Educare per prevenire, educare per cambiare

Di fronte al femminicidio, la scuola non può restare neutrale, né osservare da una comoda distanza ciò che accade nella società. Deve entrare nel cuore della questione con consapevolezza, coraggio e responsabilità, sapendo che ogni azione educativa ha un peso, ogni omissione una conseguenza. Le parole pronunciate in classe, i silenzi taciuti, i testi selezionati o ignorati, le attività proposte o evitate sono tutti atti educativi. E ciascuno di essi può diventare un seme.

Un seme che, se coltivato con cura e intenzione, germoglia nella forma di consapevolezza, spirito critico, rispetto profondo dell’altro. Ma se abbandonato, lasciato inascoltato o represso, crea un vuoto in cui attecchiscono la sopraffazione, l’indifferenza, la violenza.

Educare alla parità non è un compito accessorio o una voce da inserire nel PTOF. È il fondamento etico di ogni progetto educativo. Significa offrire strumenti cognitivi ed emotivi per costruire relazioni sane, libere, fondate sulla reciprocità e sull’autonomia affettiva. È un lavoro quotidiano, lento e profondo, che attraversa tutte le discipline e si riflette nello stile comunicativo, nei modelli relazionali, nell’organizzazione della vita scolastica.

Se davvero vogliamo che mai più nessuna debba morire o essere isolato e screditato per aver detto “basta”, per aver scelto la propria libertà, allora è a scuola che dobbiamo iniziare ogni giorno. Non con proclami, ma con gesti coerenti. Con ogni parola detta e ogni silenzio finalmente spezzato.

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L’arte della mediazione

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Insegnare la risoluzione dei conflitti a scuola

di Bruno Lorenzo Castrovinci

Il conflitto è una componente inevitabile delle relazioni umane, un fenomeno che attraversa ogni epoca e contesto sociale. In ambito scolastico, può manifestarsi tra studenti, tra studenti e insegnanti o all’interno del corpo docente, tra docenti e dirigente, assumendo spesso forme silenziose ma persistenti, talvolta esplosive. La parola “conflitto” deriva dal latino confligere, ovvero “urtarsi insieme”: non è dunque di per sé negativo, bensì espressione di un’interazione dinamica che può sfociare tanto in distruzione quanto in crescita.

La sua origine è complessa e stratificata: differenze di valori o interessi, disuguaglianze percepite, comunicazione inefficace, identità in formazione, sentimenti di esclusione o insicurezze personali possono tutti generare tensione. Nelle scuole, il conflitto può nascere anche dal confronto tra culture diverse, dall’influenza delle dinamiche familiari, o dall’assenza di modelli di comportamento empatici e coerenti.

Comprendere le cause profonde del conflitto richiede un approccio sistemico, che non si limiti a intervenire sul sintomo, ma indaghi il contesto e le dinamiche relazionali sottostanti. È solo attraverso questa consapevolezza che il conflitto può diventare occasione educativa: una spinta verso la maturazione, la responsabilità e la costruzione di un’identità più consapevole e sociale. Trasformare il conflitto in strumento di apprendimento è il cuore della pedagogia della mediazione.

Teorie e strumenti per la risoluzione

La risoluzione dei conflitti è una disciplina pedagogica e sociale che si avvale di un ventaglio di teorie psicologiche, sociologiche ed educative. Essa non si limita alla pacificazione superficiale dei dissidi, ma mira alla trasformazione profonda dei rapporti umani, dei comportamenti e delle strutture comunicative.

Tra le teorie più influenti spiccano la Teoria del Conflitto Costruttivo di Morton Deutsch, che interpreta il conflitto come occasione di crescita e apprendimento, e l’approccio trasformativo di Bush e Folger, centrato sul riconoscimento reciproco e sull’empowerment delle parti coinvolte. Questo approccio non propone soluzioni preconfezionate, ma stimola le persone a riscoprire la propria capacità di dialogare, scegliere e costruire significati condivisi.

In ambito educativo, diventa cruciale l’introduzione di pratiche e strumenti specifici: la comunicazione non violenta di Marshall Rosenberg, che invita a esprimere i bisogni senza giudicare; la negoziazione collaborativa, che promuove soluzioni win-win; l’ascolto attivo, che richiede attenzione empatica e sospensione del giudizio; e la mediazione tra pari, che coinvolge gli studenti nel ruolo di facilitatori tra coetanei, potenziando il senso di responsabilità e cittadinanza attiva.

Queste strategie non devono essere vissute come semplici tecniche, ma come parte integrante di un’educazione alla convivenza, che forma al rispetto, alla cooperazione e alla gestione delle diversità. Solo in questo modo la scuola può diventare uno spazio autenticamente democratico e inclusivo, dove i conflitti, lungi dall’essere negati, diventano occasione di consapevolezza e trasformazione.

Rabbia e trasmissione del disagio

Tra le emozioni che più spesso alimentano i conflitti vi è la rabbia, un sentimento primordiale e potente che può assumere molteplici forme. Essa nasce dalla frustrazione, dal senso di ingiustizia, da un bisogno inespresso o negato, e si manifesta attraverso comportamenti impulsivi, aggressività verbale o fisica, ma anche mediante atteggiamenti più sottili, come l’ironia tagliente, la chiusura affettiva o l’ostilità latente.

Spesso, la rabbia non è diretta alla vera causa del disagio, ma si riversa su chi è più vicino o percepito come più debole: un meccanismo di proiezione e difesa che serve a evitare il confronto con il dolore originario. A scuola, gli studenti esprimono la rabbia in modi diversi a seconda dell’età, del contesto familiare e della loro storia personale: può assumere la forma del bullismo, dell’isolamento, della sfida aperta verso l’autorità, o anche del sabotaggio delle attività scolastiche e delle relazioni tra pari.

Le neuroscienze affermano che la rabbia, se non riconosciuta e gestita, può interferire con i processi cognitivi, impedendo l’apprendimento e la socializzazione. Per questo è fondamentale che la scuola diventi uno spazio in cui l’emozione venga nominata, accolta e trasformata. Educare alla gestione della rabbia significa fornire agli studenti strumenti per leggere i propri vissuti, apprendere strategie di autocontrollo, sviluppare una comunicazione efficace e instaurare relazioni più autentiche. Solo in questo modo si può promuovere un ambiente scolastico sicuro e inclusivo, in cui il disagio non sfoci in violenza ma si converta in crescita.

Disturbi del comportamento: bulimia e anoressia nervosa

Molti conflitti interiori si manifestano attraverso disturbi del comportamento, che non vanno ignorati né minimizzati. In particolare, bulimia e anoressia nervosa rappresentano espressioni estreme di un disagio psicologico profondo, che coinvolge l’autostima, la percezione del proprio corpo e un bisogno spasmodico di controllo. Questi disturbi, spesso invisibili agli occhi dei coetanei e talvolta anche degli adulti, sono segnali di una sofferenza che ha radici complesse: relazioni familiari disfunzionali, pressioni sociali e scolastiche, isolamento emotivo, eventi traumatici o semplicemente una fragilità interiore che non trova spazio di espressione.

Anoressia e bulimia non sono soltanto patologie legate al corpo, ma veri e propri linguaggi simbolici attraverso cui l’adolescente comunica un disagio esistenziale. Il corpo, infatti, diventa il luogo della battaglia interiore: una lotta contro il vuoto, contro il bisogno d’amore, contro l’incapacità di accettarsi e accettare. Il controllo ossessivo dell’alimentazione diventa un modo per recuperare un senso di potere su un mondo percepito come caotico e fuori controllo.

In questo scenario, la scuola ha un ruolo fondamentale. Gli insegnanti, spesso tra i primi adulti significativi dopo la famiglia, devono essere formati per cogliere i segnali di allarme: cambiamenti improvvisi di comportamento, ritiro sociale, fissazioni alimentari, cali drastici nel rendimento. Ma soprattutto, devono poter contare su una rete di figure professionali specializzate all’interno dell’istituzione scolastica: psicologi, pedagogisti, educatori che possano intervenire con sensibilità e tempestività.

Promuovere una cultura della cura di sé non significa solo parlare di alimentazione o benessere fisico, ma trasmettere ai ragazzi il valore della propria unicità, la possibilità di essere accolti anche nella fragilità, l’importanza di chiedere aiuto. La prevenzione dei disturbi del comportamento passa attraverso l’ascolto, la fiducia, la creazione di ambienti relazionali sicuri. È un lavoro quotidiano, silenzioso e tenace, ma essenziale per la salute mentale e la dignità di ogni studente.

Il clima d’istituto e i rapporti tra il personale

Il benessere relazionale all’interno dell’ambiente scolastico dipende in modo sostanziale dalla qualità e dalla profondità dei rapporti tra adulti. La scuola non è solo una comunità di apprendimento per studenti, ma un microcosmo sociale dove i modelli relazionali offerti dagli adulti incidono direttamente sullo sviluppo emotivo e comportamentale dei giovani. Un clima sereno e cooperativo tra docenti, dirigenti, collaboratori scolastici e personale amministrativo si riflette positivamente sull’intero ambiente educativo, generando sicurezza, fiducia e apertura.

Al contrario, tensioni non esplicitate, conflitti latenti o mal gestiti, atteggiamenti competitivi e comunicazioni disfunzionali tra adulti diventano un terreno fertile per la trasmissione di modelli negativi. I ragazzi assorbono inconsapevolmente queste dinamiche, riproducendole nei propri rapporti. È per questo che la cura del clima relazionale tra il personale scolastico deve essere un obiettivo prioritario delle politiche d’istituto, sostenuto da una leadership diffusa e consapevole.

Promuovere una cultura della collaborazione, della corresponsabilità e della mediazione interna non significa solo evitare i conflitti, ma costruire quotidianamente una comunità professionale fondata sull’ascolto, sul riconoscimento reciproco e sulla valorizzazione delle competenze di ciascuno. Ciò implica la creazione di spazi di dialogo tra colleghi, momenti di formazione condivisa, supervisione pedagogica, e un sistema di governance inclusivo e trasparente. Quando la scuola funziona come un organismo coeso, ogni suo membro diventa agente di benessere per l’altro, e l’efficacia educativa dell’istituzione cresce in modo esponenziale.

Il ruolo fondamentale delle figure di supporto

Nella scuola di oggi è urgente e non più rinviabile la presenza stabile, riconosciuta e istituzionalizzata di psicologi scolastici, pedagogisti, psicopedagogisti e psicoterapeuti. Figure professionali qualificate che, con le loro competenze specifiche, possano affiancare il lavoro degli insegnanti, diventando punti di riferimento fondamentali per l’ascolto attivo, la diagnosi precoce, l’intervento individuale e la progettazione di percorsi di prevenzione e potenziamento.

La complessità delle dinamiche relazionali, affettive e cognitive che caratterizzano la vita scolastica richiede una visione integrata, capace di rispondere non solo alle esigenze didattiche, ma anche al bisogno di benessere psicologico ed emotivo degli studenti. Le fragilità giovanili oggi emergono con sempre maggiore frequenza e intensità: ansia, depressione, disturbi alimentari, ritiro sociale, difficoltà relazionali. In questo scenario, il supporto psicoeducativo non è un lusso, ma una necessità.

Solo un lavoro sinergico e continuativo tra didattica e area socio-affettiva può garantire una risposta efficace, tempestiva e sistemica. È necessario superare l’approccio emergenziale e occasionale per costruire una vera rete educativa integrata, che valorizzi la collaborazione tra scuola, famiglia, servizi territoriali e professionisti della salute mentale. Investire in queste figure significa promuovere una scuola inclusiva, accogliente e attenta alla persona nella sua globalità, capace di prevenire il disagio prima che diventi emergenza.

L’empatia come strumento educativo

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, comprendendone emozioni, vissuti e pensieri, senza necessariamente condividerli o approvarli. È un elemento chiave nella prevenzione e nella gestione dei conflitti, poiché consente di superare la barriera dell’incomprensione, del pregiudizio e della reattività istintiva. Laddove manca empatia, nasce la distanza, si irrigidisce la comunicazione e si acuiscono le fratture relazionali.

Educare all’empatia significa coltivare una competenza complessa e trasversale, che coinvolge l’ascolto profondo, la sospensione del giudizio, l’apertura verso l’altro e la capacità di regolare le proprie emozioni. Non si tratta di una dote innata, ma di una capacità che può essere appresa, esercitata e potenziata attraverso pratiche educative intenzionali. La scuola, in questo, riveste un ruolo insostituibile.

Attraverso attività mirate come il role-playing, le simulazioni, le letture guidate, la scrittura riflessiva e i laboratori teatrali o narrativi, è possibile favorire nei ragazzi l’identificazione emotiva e la comprensione delle differenze. Inoltre, l’educazione all’empatia va integrata in ogni disciplina, come valore trasversale, e promossa anche attraverso l’esempio quotidiano degli adulti di riferimento. Un ambiente scolastico empatico favorisce la costruzione di relazioni autentiche, la solidarietà, l’inclusione e un clima più sereno e collaborativo, riducendo l’incidenza dei conflitti e potenziando il benessere collettivo.

Narcisismo, autoreferenzialità: il sé e l’altro sé

Viviamo in un tempo segnato da una crescente enfasi sull’individualismo, dove il bisogno di visibilità, successo e approvazione si traduce spesso in forme di narcisismo e autoreferenzialità. Questi tratti, se non riconosciuti e rielaborati, possono ostacolare profondamente la costruzione di relazioni sane e significative, soprattutto nell’età dello sviluppo, quando l’identità è ancora fluida e fragile.

Nella dimensione scolastica, la presenza di un Sé ipertrofico e chiuso alla relazione rende difficile il riconoscimento dell’altro come soggetto distinto e autonomo. In queste condizioni, il rapporto diventa strumentale: l’altro viene percepito solo in funzione della propria autoconferma. Questo atteggiamento ostacola non solo il dialogo, ma anche la cooperazione, la solidarietà e l’apprendimento condiviso.

Per contrastare queste dinamiche, la scuola deve promuovere un’educazione che sappia mettere in discussione il primato del Sé assoluto, stimolando nei giovani la capacità di relativizzare il proprio punto di vista, di accettare il limite, di valorizzare l’incontro con la differenza. È in questa tensione tra il Sé e l’Altro Sé che si costruisce una vera consapevolezza relazionale, prerequisito essenziale per la crescita emotiva, sociale e culturale.

Il ruolo di dirigenti e insegnanti: una leadership educativa

La gestione dei conflitti e la promozione del benessere scolastico passano anche attraverso la leadership esercitata da dirigenti scolastici e insegnanti, che devono agire come guide culturali ed etiche all’interno della comunità educante. Il dirigente scolastico non deve essere solo un manager, ma un leader pedagogico che deve saper ispirare visione, promuovere coerenza e attivare dinamiche di mediazione nei momenti di crisi. La sua leadership si esprime nella capacità di creare una cultura condivisa, in cui tutti gli attori scolastici si sentano corresponsabili del clima relazionale e dell’efficacia educativa.

La costruzione di un’organizzazione armoniosa e orientata al dialogo richiede uno stile direzionale fondato sull’ascolto, sulla trasparenza decisionale, sulla valorizzazione delle competenze e sul coinvolgimento attivo del personale scolastico. Allo stesso modo, gli insegnanti rivestono un ruolo cruciale: sono modelli relazionali quotidiani e, attraverso il loro modo di comunicare, di gestire la disciplina e di accogliere le diversità, plasmano le dinamiche socio-affettive del gruppo classe.

Una leadership educativa efficace si fonda su autorevolezza, empatia, capacità di visione e coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Non è sufficiente impartire regole: occorre incarnare i valori che si desidera trasmettere, promuovendo un’educazione coerente, etica e trasformativa. Solo in questo modo la scuola può davvero diventare una comunità di apprendimento e cura, un luogo dove ogni componente si senta riconosciuto, valorizzato e motivato a dare il meglio di sé.

La fragilità giovanile e l’eredità della pandemia

La pandemia da COVID-19 ha lasciato un segno profondo e stratificato nella psiche dei più giovani, alterando il loro rapporto con la realtà, con sé stessi e con gli altri. L’isolamento prolungato, la chiusura delle scuole, la riduzione drastica delle interazioni sociali e l’interruzione delle routine quotidiane hanno inciso sull’equilibrio emotivo e sull’identità in formazione di milioni di studenti. Non si è trattato solo di una crisi sanitaria, ma di una vera e propria emergenza educativa, affettiva e relazionale.

Stati d’ansia, depressione, apatia, difficoltà di concentrazione, paure generalizzate, ritiro sociale e dipendenza da dispositivi digitali sono solo alcune delle manifestazioni più evidenti di questa crisi post-pandemica. Il rientro a scuola ha rivelato una generazione più fragile, più vulnerabile, ma anche più consapevole della necessità di essere ascoltata e accolta. I giovani chiedono strumenti per affrontare la complessità della vita, per ricostruire il proprio orizzonte di senso, per ritrovare fiducia nel futuro.

La scuola non può e non deve rimanere indifferente. Essa è chiamata a rinnovare la propria missione educativa ponendo al centro il benessere psicologico ed emotivo degli studenti. Deve diventare un presidio di cura integrale della persona, un luogo sicuro dove ricostruire legami, riattivare la speranza, coltivare la resilienza. Solo attraverso un’alleanza solida tra insegnanti, famiglie, professionisti della salute mentale e istituzioni, sarà possibile trasformare il trauma collettivo della pandemia in un’occasione di crescita educativa, umana e sociale.

Dinamiche conflittuali nella gestione delle risorse umane a scuola

L’aumento delle risorse destinate al personale, anche se gestito attraverso avvisi pubblici, con criteri di selezione oggettivi e trasparenti, può generare paradossalmente nuove forme di conflitto, anziché risolvere le fragilità del sistema scolastico. La competizione per l’accesso a tali risorse innesca spesso una corsa all’accaparramento, alimentando tensioni latenti tra colleghi, logiche di esclusione e forme di discredito sociale.

In particolare, si osservano dinamiche di mobbing relazionale e professionale, che si manifestano attraverso atteggiamenti svalutanti, esclusione dai processi decisionali, diffusione di maldicenze o sabotaggio del lavoro altrui. Questi fenomeni si accentuano, in contesti professionali dove la competizione viene esasperata e le forme di riconoscimento non sono sufficientemente trasparenti o meritocratiche.

Il moltiplicarsi di incarichi su base discrezionale può alimentare un clima di sospetto e disgregazione, minando la fiducia reciproca e la coesione del corpo docente. Le relazioni professionali, in tal modo, rischiano di ridursi a rapporti di potere, piuttosto che a legami di collaborazione educativa. La scuola, in quanto comunità educante, non può permettersi che il principio della cura venga offuscato da logiche di rivalità o manipolazione.

Diventa allora fondamentale una riflessione sistemica sulla distribuzione delle risorse, sugli effettivi vantaggi in termini di risultati e sull’importanza di costruire un ambiente di lavoro che promuova la solidarietà professionale, la corresponsabilità e il riconoscimento reciproco. Solo in questo modo è possibile evitare che le opportunità diventino occasioni di divisione e che la scuola resti un luogo di benessere anche per chi vi lavora.

 

Conclusione: una scuola che media è una scuola che cura

Insegnare la mediazione e la gestione dei conflitti non significa eludere i problemi o minimizzare le tensioni, ma affrontarli come occasioni formative, con strumenti educativi e relazionali che diano valore alla parola, all’ascolto e alla responsabilità. La mediazione non è una scorciatoia, ma un processo lento e profondo che insegna a riconoscere l’altro, a negoziare i significati, a costruire ponti anziché barriere.

Una scuola che investe sulla formazione emotiva e relazionale dei suoi studenti, dei docenti e del personale tutto è una scuola che semina cittadinanza consapevole e prepara individui capaci di affrontare il cambiamento, la complessità, la diversità. In tale prospettiva, l’ascolto diventa atto politico ed educativo, e la cura un gesto rivoluzionario: prendersi cura dell’altro significa riconoscerlo, rispettarlo e accoglierne la vulnerabilità.

Educare alla mediazione è oggi una scelta coraggiosa, un atto controcorrente rispetto alla cultura della polarizzazione e del conflitto permanente. È il cuore pulsante di una pedagogia umanistica e trasformativa, che mette al centro la persona nella sua interezza: con i suoi bisogni, i suoi limiti, le sue risorse e il suo potenziale in divenire. In questo senso, la scuola che media è anche la scuola che cura, che accompagna, che rigenera: non solo uno spazio di istruzione, ma un vero laboratorio di convivenza civile.

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