Virgilio, ci manchi!

Virgilio, ci manchi!

di Antonietta Cataldi

     Voglio dare voce a tutti i genitori che, dinanzi alla crisi in cui sembrano irrimediabilmente immersi tanti giovani oggi, vengono accusati di immaturità, di giovanilismo, di disattenzione, di incompetenza. Ebbene sì, è colpa nostra ma non è vero che non li guardiamo, che non ci occupiamo di loro. Il fatto è che, quando cerchiamo di parlare, veniamo subito respinti. Non siamo stimati, non siamo visti come interlocutori utili o credibili. Per questo motivo preferiscono vivere all’interno di un gruppo di loro pari o fissi davanti a uno schermo popolato di anonimi guaritori. Abbiamo provato a chiedere aiuto, a consultarci con i nostri vecchi, con esperti, con persone che, fino ad alcuni anni fa, i ragazzi avevano stimato e anche amato. Inutilmente.  Non sappiamo più cosa fare. Vediamo che sono infelici, che la loro vita è un buco nero dal quale non siamo in grado di farli uscire, di salvarli. E mi viene in mente Virgilio.  Anche loro, come Dante nella Divina Commedia, sono in una selva oscura popolata di mostri che non consentono loro una via d’uscita. Ecco, forse, un tentativo da fare sarebbe che noi genitori, possibilmente padre e madre insieme, trovassimo una persona disposta a porsi accanto a nostro figlio o a nostra figlia con autorità ma senza pretese. In fondo, è ciò che viene raccontato nel secondo canto dell’Inferno. Certo, ciò non fu possibile ai nostri progenitori, che sperimentarono subito la difficoltà di crescere figli.

     Il problema, per Adamo ed Eva, fu che erano i soli adulti sulla terra quando si trovarono a gestire Caino e la sua rivalità con Abele. Non sappiamo se abbiano commesso errori, giacché ogni figlio cerca il modo per farsi amare dai genitori, anche a dispetto dei fratelli, e, nel migliore dei casi, lo trova. Dalla Bibbia apprendiamo solo che il problema si pose nel rapporto dei due ragazzi con Dio e nella maggiore devozione rivelata da Abele. Caino si dimostrò irritato dal fatto che la sua offerta non fosse stata gradita e abbattuto per la sconfitta; riconobbe la propria colpa ma si lamentò della condanna all’esilio. Non gli bastò la garanzia di non essere ucciso, con la promessa, da parte di Dio, di infliggere la vendetta sette volte a chi lo avesse fatto. Poca cosa, rispetto alla moltiplicazione della violenza che si generò col tempo nell’animo di quel giovane assassino, a giudicare dalla sua dichiarazione che si sarebbe vendicato settantasette volte contro chi avesse ucciso il suo sesto discendente. Meglio lasciar passare i millenni e pensare, per i peccatori, a interventi paragonabili a quelli proposti nella Divina Commedia. Vediamoli nell’ordine.

      In cielo c’è una donna gentile, la Madonna, immagine di maternità universale, che prova dolore per la condizione in cui si trova Dante e intercede in suo favore presso Dio. Chiede aiuto a Santa Lucia con parole che qualunque madre userebbe rivolgendosi a persona che sa essere sempre stata cara al proprio figlio: “Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io te lo raccomando[1]. Lucia subito si muove, va da Beatrice e, con tono quasi di rimprovero, la interroga: “ché non soccorri quei che t’amò tanto?[2],  non senti l’angoscia della sua sofferenza? Questo basta per farla andare subito da Virgilio e affidare quell’uomo in pericolo di perdizione a colui che è stato il suo grande maestro di poesia.

     Immaginiamo questo iter nella nostra realtà.  Un genitore che capisce che c’è un problema ma non sa o non può affrontarlo direttamente, ne parla con una persona amica, la quale può ritenere utile l’intervento di chi il giovane ha amato da adolescente. Costui o costei suggerisce come figura idonea quella di una persona molto stimata ai tempi della scuola. Con o senza i vari passaggi, il prescelto potrebbe essere un giovane adulto, un amico fuori dal giro, un fratello maggiore ormai psicologicamente autonomo, un cugino o anche uno zio, un nonno o un estraneo, un sacerdote, un insegnante, purché non ingombrante, disposto ad essere semplicemente una presenza, un’ombra che non intende comandare o giudicare ma solo pronta ad aiutare quando le paure si ingigantiscono. I giovani, di paure, ne hanno tante, paralizzanti, e gli adulti, quando vengono percepiti come meritevoli di rispetto, sanno fare prodigi. Ho in mente i casi, vissuti da testimone a distanza di molti anni, di due professoresse che si sono trovate a correggere elaborati sconcertanti: uno con la descrizione viva, bruciante, di uno stupro subìto; l’altro con la definizione del proprio “inferno”. In entrambi i casi le famiglie non avevano capito niente, non avevano colto il mare di sofferenza. Ecco perché un estraneo sensibile, competente, a volte può riuscire dove tanti sembrano fallire. L’amore non basta, anche perché spesso è cieco.

     Salvare un giovane è un compito difficile, è quello al quale è stato chiamato Virgilio, che compare come una figura evanescente. Dante non sa chi sia ma è disperato e gli chiede aiuto. Quando poi apprende la sua identità, ne riconosce l’autorevolezza e, chiamandolo sempre “Maestro”, a lui si affida. Gli chiede di essere difeso dalla belva che lo minaccia ma Virgilio gli spiega che deve seguire un altro percorso. La salvezza si raggiunge conoscendo e riconoscendo gli effetti del male ma non lo si può fare da soli: c’è bisogno di una guida. Così, mano nella mano, con volto sorridente, gli spiega la realtà di quel mondo e cosa vuol dire perdere “il ben de l’intelletto[3]. Poi, quando Dante piange nel sentire i forti lamenti delle anime immerse nel dolore, lo rassicura e, all’ultima richiesta di spiegazioni, con gentilezza lo chiama “Figliuol mio[4].  È la prima volta che il suo tono diventa familiare, prima del terremoto che spaventa il suo protetto al punto da farlo svenire.

     Si preparano a scendere nell’inferno, Virgilio per primo, ma Dante si accorge che il maestro è “tutto smorto[5]. Interpretando il suo aspetto come segno di timore, gli chiede come possa seguirlo se ha paura anche lui che di solito gli funge da sostegno. Non ha capito che il pallore è solo manifestazione della pietà che prova per le anime del Limbo, alle quali egli stesso appartiene. È l’angoscia di chi, non per colpe commesse ma per non essere stato battezzato, si trova escluso in eterno dalla visione di Dio. Il dolore di questa condizione, propria dei bambini morti privi di battesimo ma legata anche, come nel caso di Virgilio, all’essere vissuti “nel tempo de li dei falsi e bugiardi[6], cioè prima di Cristo, avvicina Dante all’interlocutore, al quale si rivolge con tono più accorato: “Dimmi, maestro mio, dimmi segnore[7]. Non esiste nessuno immune dal dolore: è un progresso sul piano emotivo. Dante ha potuto cogliere l’umanità di Virgilio e ne trae conferma dalle parole di Francesca da Rimini: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.”[8]

     Il rapporto tra i due diventa sempre più intenso: a Dante risulta spontaneo riferirsi a Virgilio come al “mar di tutto il senno”, alla “virtù somma”, a “lo savio mio”, al “savio gentil”, al “maestro mio”, al “buon maestro”, a “‘l savio mio maestro”, ma soprattutto come a “‘l mio buon duca”, “lo duca mio”, la mia guida. Vuol dire riconoscere il suo ruolo e il proprio bisogno. Dal canto suo, Virgilio sempre più spesso lo chiama “figlio” e “figliolo mio”, dando al proprio compito una dimensione genitoriale che non esclude il rimprovero, anche duro, all’occorrenza. È quanto accade quando Dante piange nel vedere il corpo stravolto dei maghi e degli indovini[9] e quando si sofferma ad ascoltare un litigio tra falsari[10].

     Occasione di fermezza è anche il desiderio di conoscenza di Dante il quale, come capita agli alunni curiosi e impazienti, talvolta non si pone limiti, col rischio di risultare molesto. Rendendosene conto, decide: “Allor con gli occhi vergognosi e bassi, temendo no ‘l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi[11]. Quando poi, più avanti, Virgilio lo rassicura che non solo riceverà risposta alla domanda che gli pone ma anche che sarà soddisfatto il desiderio che gli nasconde, Dante si giustifica: “Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m’hai non pur mo a ciò disposto[12], gli nasconde ciò che prova solo per parlare poco ed è ciò che anche adesso la sua guida gli ha chiesto di fare. Ha trovato la misura: “Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace[13],  mi è gradito tutto quello che piace a te: tu decidi e sai che non mi allontano dal tuo volere, e conosci ciò che non viene detto.

     Il rispetto e l’obbedienza diventano sintonia, così che arrivano le lodi. Pensiamo a quella, esaltante, plateale, che conclude il contrasto con Filippo Argenti. Dante, che in precedenza si è lasciato inopportunamente turbare dal dolore dei dannati, rimane del tutto indifferente dinanzi a questo “spirito maladetto” e Virgilio prima impedisce che l’arrogante con ira rovesci la loro barca e dopo manifesta tutta la propria soddisfazione al discepolo, che racconta: “Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ‘l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ‘n te s’incinse!»”[14]. Non ci può essere riconoscimento maggiore: Anima capace di sdegnarsi, benedetta colei che fu incinta di te!  Analoga esaltazione il maestro manifesta per la tremenda invettiva di Dante contro i papi simoniaci che si sono fatti “dio d’oro e d’argento”. Racconta: “I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via onde discese. Né si stancò d’avermi a sé distretto[15], credo proprio che alla mia guida piacesse, dato che seguì sempre con aria felice il suono delle parole di verità che esprimevo. Perciò mi prese con tutte e due le braccia e, dopo avermi sollevato fino al petto, ripercorse la strada da cui era disceso e non si stancò mai di tenermi stretto a sé.

     Gli slanci e le manifestazioni di consenso, espressi con una fisicità sconosciuta tra adulti con ruoli diversi, ci devono far riflettere sul bisogno di affetto che non si riduce con l’età e che contribuisce a dare conforto e sicurezza. Tra Virgilio e Dante ormai non c’è solo obbedienza, c’è comune sentire. Ne è un esempio l’atteggiamento nei confronti dei sodomiti, gli omosessuali, l’incontro coi quali occupa due canti. Virgilio non solo presta attenzione alle loro grida ma dice a Dante: “Or aspetta, a costor si vuole esser cortese.”[16] L’esortazione alla sosta e al dovere della cortesia nei confronti di quelle anime è superflua perché Dante, se non fosse per la paura del fuoco, si getterebbe ad abbracciarle, a cominciare da quella di Brunetto Latini, suo antico maestro. Infatti, fermo restando il loro destino, che in un caso sembrerebbe addirittura legato al danno prodotto dalla presenza di una “fiera moglie[17], cioè di una moglie scontrosa, c’è rispetto e stima per le loro persone, per la loro statura di letterati e guerrieri, per le loro virtù civili e la loro nobiltà  d’animo.

     È il contrario di quanto accade con un’altra categoria di dannati, ai quali pure sono dedicati due canti ma dai quali Virgilio invita Dante ad allontanarsi. Si tratta dei barattieri, cioè dei truffatori che, attraverso inganni e raggiri, hanno mirato sempre e soltanto al proprio beneficio. Sono numerosi nella terra in cui “del no, per li denar, vi si fa ita[18], lì dove, per denaro, qualunque no diventa sì. Forse, ancora oggi, ne sappiamo qualcosa. Il rapporto tra i due è divenuto via via più stretto, così che Dante, quando ha paura, si stringe a Virgilio, mentre costui lo trae a sé, come sempre fa quando vuole proteggerlo. I gesti di entrambi sono di grande tenerezza. Per evitare che rimanga impietrito guardando la Gorgone, lo fa girare e gli copre gli occhi con le proprie mani[19]. Quelle stesse mani, “animose”, cioè in atto di incoraggiamento, lo spingono a parlare con Farinata, accompagnate dall’esortazione: “Le parole tue sien conte[20], le tue parole siano adeguate.

     Lo prende per mano per accompagnarlo vicino al cespuglio in cui è prigioniero un suicida che inutilmente piange, avendo rifiutato il proprio corpo in vita[21]. Ancora “caramente” lo prende per mano per avvertirlo che gli appariranno, come una strana sequenza di torri, i giganti che, disposti intorno alla parete del pozzo infernale, vedrà sporgere dalla voragine solo fino all’ombelico[22]. Istiga il Minotauro che vuole impedire il loro passaggio in modo da farlo infuriare e, approfittando delle sue smanie, far passare Dante[23].

     Si sente responsabile di questo essere timoroso che Caronte ha definito “anima viva[24]. Perciò, via via che il loro rapporto diventa più stretto, passa dal tenerlo per mano, come davanti alla porta dell’Inferno, al sostenerlo con le braccia quando il percorso è difficile, tant’è che Dante riferisce che, appena salì in groppa a Gerione, il maestro “con le braccia m’avvinse e mi sostenne[25].

     Quando ci sono da affrontare difficoltà particolari, il maestro ha un attimo di forte turbamento ma trova subito la soluzione. Dante racconta: “con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte, le braccia aperse” e mi afferrò. Segue una similitudine: “E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ‘nnanzi si proveggia”, come chi agisce e valuta, così che mostra sempre di provvedere in anticipo, mentre lo spinge verso la cima di una sporgenza, ne osserva un’altra e gli dice: “Sovra quella poi t’aggrappa, ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia[26], poi aggrappati a quella, ma prima prova se è tale da poterti reggere.

     Virgilio è una guida perfetta, seria, prudente, ma, quando il discepolo, giunto in cima, si sente esausto e si siede, non esita a cambiare tono “Omai convien che tu così ti spoltre”, ormai è il caso che tu ti scuota di dosso la pigrizia, perché, sedendo sulle piume, non si arriva alla fama, e nemmeno stando sotto le coperte, perché, chi consuma la propria vita senza fama, lascia di sé sulla terra un ricordo simile al fumo nell’aria e alla schiuma nell’acqua. Perciò alzati e supera la difficoltà di respiro col vigore che vince ogni battaglia se non si lascia abbattere dal peso del suo corpo. A questo invito perentorio, Dante reagisce: “Levàmi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentia”, allora mi alzai, mostrandomi provvisto di una lena maggiore rispetto a quella che mi sentivo e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”. L’esortazione genera una nuova dimensione nel loro rapporto, sicché il discorso tra i due si conclude semplicemente con un invito all’allievo ad agire: “Altra risposta”, disse, “non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo[27], non ti do altra risposta che agire, perché la domanda legittima deve essere seguita dall’azione senza parole.

     E’ una lezione di vita. Egli stesso ne è un esempio perché, nel momento più difficile, tocca a lui la parte più faticosa, quella dell’uscita dall’inferno.

     Se veniamo un attimo ai nostri giorni, ci rendiamo conto che, per un giovane che ha perso il senso dell’esistenza, abbandonare la realtà, umana o virtuale, che comunque sembrava offrirgli un rifugio, deve essere drammatico. Ecco perché, a questo punto, è la guida a doversi assumere tutto il peso e la responsabilità del passaggio.

     Tornando alla Divina Commedia, pensiamo che l’anima di Dante è salva in quanto sta sfuggendo alla condanna eterna ma ha ancora tanto da capire, tanto da imparare prima di poter procedere da sola. Ancora una volta, dovrà essere la guida a prendere tutte le decisioni. E’ allora, quando sono giunti nel fondo dell’inferno, costituito da un lago ghiacciato, dopo che Dante ha visto Lucifero con le sue tre facce, le gigantesche ali di pipistrello e il corpo peloso, è quello il momento di ripartire. E’ un momento quasi cinematografico: l’uscita  avviene attraverso la discesa lungo il corpo de “lo ‘mperador del doloroso regno[28]. Dante riferisce che Virgilio aveva stabilito tutto nei dettagli: “Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai”, il discepolo si avvinghiò al suo collo mentre lui, la guida, quando furono ben aperte le ali di quello che era stato l’angelo più bello del Signore prima di precipitare orribilmente, “appigliò sé a le vellute coste” si aggrappò ai fianchi pelosi e, “di vello in vello”, da un ciuffo di pelo all’altro, giù discese fino al punto in cui la coscia si articola e s’ingrossa l’anca. Erano al centro della terra e, per salire nell’emisfero australe, dove s’innalza la montagna del Purgatorio, dovevano capovolgersi e girare la testa in direzione delle gambe del mostruoso gigante, aggrappandosi al pelo “com’om che sale”. Tutto questo Virgilio fece “con fatica e con angoscia”, infine “ansando com’uom lasso[29], ansimando come un uomo sfinito.

Ci vuole tanto amore per agire così, un amore che Virgilio ha già dimostrato quando Dante era atterrito al sopraggiungere dei diavoli: “Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese, che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura”. Il maestro si era lasciato andare supino lungo la parete scoscesa “portandosene me sovra ‘l suo petto, come suo figlio, non come compagno[30].

     Trovo stupenda la similitudine col gesto protettivo della madre che fugge per portare il figlio in salvo dall’incendio, sia perché l’amore non è una questione di genere, sia perché, come vedremo, anche nell’aldilà, non sempre risponde ai canoni. Sappiamo solo che, quando c’è, può dare fiducia, speranza, salvezza.

     Vediamo ora cosa accade nel Purgatorio, dove Virgilio viene definito “dolcissimo patre[31] e – come abbiamo visto –  tale è  stato per Dante, che a lui si è affidato per la salvezza e tale continua ad essere nel regno in cui le anime espiano le proprie colpe in vista del Paradiso. Nell’Antipurgatorio, seguendo le istruzioni di Catone, pone “soavemente” tutte e due le mani aperte sull’erba tenera, ancora bagnata di rugiada, e gli lava le guance segnate dalle lacrime per renderne visibile il colore offuscato dall’inferno[32]. Soddisfa i suoi bisogni senza che nemmeno gli vengano manifestati, come quando, nella cornice degli iracondi, avvolta da un denso fumo, quale “scorta saputa e fida[33], come guida esperta e fedele, gli si avvicina, gli offre l’appoggio della propria spalla e lo esorta a non separarsi da lui.

     Non che non sappia svolgere il proprio ruolo quando si tratta di incoraggiarlo a fare qualcosa che teme, ma lo fa sempre da “dolce padre[34]. Insieme a Stazio, sono nella settima cornice; l’angelo della castità li esorta ad attraversare il muro di fuoco purificatore che permetterà loro di accedere all’ultima scalinata del monte ma Dante, pallido come un cadavere, non si muove. Quando – come vedremo – riesce a convincerlo, entra nel fuoco per primo, si fa seguire da lui e chiede a Stazio di stargli dietro, affinché la sua posizione sia la più sicura. Poi, superata la barriera di fiamme e saliti i primi gradini della scala, quando si devono fermare per la notte, ciascuno si distende su un gradino. Dante precisa: “io come capra, ed ei come pastori[35]. Infatti Virgilio e Stazio fanno la guardia a lui come i pastori al gregge.

     Soffermiamoci un momento su come Virgilio ha indotto Dante ad affrontare la prova.  Dapprima gli ha spiegato che la fiamma non lo avrebbe potuto privare nemmeno di un capello; poi, turbato nel vederlo irremovibile, gli ha fatto notare: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro[36]. Così il “savio duca” ha saputo vincere la sua ostinazione. Per questo ha sorriso “come al fanciul si fa ch’è vinto al pome[37], come si fa col fanciullo che si lascia convincere da una ricompensa. E ancora di Beatrice gli ha parlato continuamente mentre erano dentro il fuoco, sostenendo: “Li occhi suoi già veder parmi[38].

     Dopo tante aspettative, nel Paradiso terrestre infine Beatrice appare “dentro una nuvola di fiori[39]. Dante è scosso dalla grande potenza del sentimentoche  –  rievoca  –  “m’avea trafitto prima ch’io fuor di puerizia fosse[40], lo aveva colpito prima che fosse uscito dall’infanzia.  Si volta, “col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli è afflitto”, con la fiducia di un bambino impaurito o sofferente, per dire a Virgilio: “Men che dramma di sangue m’è rimaso che non tremi”, non mi è rimasta nemmeno una goccia di sangue che non tremi, ma lui “n’avea lasciati scemi di sé[41], ci aveva lasciati privi di sé. E piange, rievocando la tenerezza con cui gli aveva pulito le guance con le mani bagnate di rugiada.  Piange tanto da essere persino compatito dagli angeli, anche perché, in contrasto con la premura paterna di Virgilio, Beatrice si comporta con lui come la madre che “al figlio par superba[42] perché gli si rivolge con tono aspro. Questo gli fa sentire come amaro il sapore del suo affetto. Eppure la donna ha pianto per lui. Glielo fa sapere lo stesso Virgilio nel suo ultimo discorso, quando ne ricorda “li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno[43].

     Allora era disperata perché, dopo la morte, notando che Dante aveva preso una strada sbagliata, aveva tentato in ogni modo, attraverso ispirazioni divine, di richiamarlo alla fede. Inutilmente. L’unica possibilità rimasta era fargli vedere le condizioni dei dannati. Per questo era scesa all’inferno e aveva implorato l’aiuto di Virgilio. Ma ora che costui ha svolto la propria funzione, occorre che Dante si penta, che “sia colpa e duol d’una misura[44], cioè che il suo dolore sia pari alla sua colpa e che il prezzo dell’espiazione sia pagato attraverso un “pentimento che lagrime spanda[45].

     Da qui la sua severità, sconosciuta a Virgilio, il quale, in cima alla scala che porta al Paradiso terrestre, chiamandolo “figlio”, gli aveva spiegato di avere portato a termine il proprio compito: “Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce[46], ormai puoi prendere la tua volontà  come guida. Colui che al primo incontro Dante aveva chiamato “lo mio maestro e lo mio autore[47], gli aveva segnalato il traguardo raggiunto: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio[48], non aspettarti più da me parole o gesti; il tuo arbitrio è libero, retto e incorrotto, e sarebbe un errore non seguirlo: perciò io ti proclamo signore e guida di te stesso[49].

      In quel momento Dante non sapeva che sarebbero state le sue ultime parole. Lo ha visto sorridere insieme a Stazio quando hanno sentito richiamare gli antichi poeti[50]; con loro ha assistito alla processione mistica[51] ma poi, quando, all’apparizione di Beatrice,  sbigottito, si è girato verso di lui per comunicargli la propria emozione, non lo ha trovato. Era uscito di scena con la grandezza della sua statura morale.

     Ecco, la sua uscita di scena è ciò su cui più dovremmo riflettere perché è il segno caratterizzante la sua azione: la levità. Tutti i suoi gesti hanno una delicatezza sconosciuta a tanti di noi genitori. Tendiamo ad essere pesanti, ingombranti, quando li affrontiamo, per essere sicuri dell’efficacia dei nostri interventi, dell’effetto delle nostre parole. E quando sembriamo disinteressarci dei nostri figli è per il senso di inadeguatezza che ci pervade. Non sappiamo essere maestri.

     Non è stato così per le generazioni passate, che erano istintive e non si ponevano problemi. Prendiamo il caso di quando avrebbero dovuto lasciar andare i giovani: a parte il richiamo alle armi e l’emigrazione per fame, riuscivano a condizionarli a vita. Un uomo di una certa età mi ha descritto con angoscia una scena, alla quale aveva assistito molti anni prima, in cui la propria madre rincorreva piangendo giù per le scale il figlio minore in partenza per andare a vivere altrove. Mi ha confessato di aver deciso in quel momento che non avrebbe mai causato il ripetersi di quello strazio e di non avere, per questo motivo, colto alcune occasioni che lo avrebbero portato ad abbandonarla.

     Certamente è un caso estremo ma, ancora oggi, sono tante le mamme chiocce e non sono pochi i padri che costruiscono la casa ai figli nel proprio paese e che portano avanti l’impresa che hanno creato con l’intento di lasciarla loro in eredità, sentendosi traditi se questi aspirano a fare altro.

     Non accettiamo di definire quello del genitore un difficilissimo compito a tempo, che potremo considerare assolto quando il figlio avrà capito cosa significa vivere e sarà, come dice Virgilio, signore e guida di sé stesso.

     Dobbiamo chiedere scusa per la nostra inutile invadenza, per la nostra incapacità di far crescere e lasciar crescere i ragazzi, per la presunzione di poterli proteggere e l’arroganza di volerli difendere incondizionatamente, senza mai uscire di scena dalla loro vita.  

     In fondo, tutto dipende dal fatto che siamo viziati: dal XIII secolo avanti Cristo siamo tutelati dalle tavole di Mosè e dal comandamento “Onora il padre e la madre” che – badiamo bene – accosta le due figure genitoriali pur non equiparandole, tant’è che, nel Siracide, uno dei Libri sapienziali della Bibbia, del secondo secolo prima di Cristo, si chiarisce: “Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole”. Non ci possiamo meravigliare del potere che ci sentiamo in diritto di esercitare, anche se, già in quel testo, da alcuni precetti traspare l’onere della loro osservanza: “Chi onora il padre espia i peccati; chi onora sua madre è come chi accumula tesori[52]. Il discorso si fa addirittura minaccioso, in caso di mancato rispetto della norma da parte di “chi teme il Signore”: “poiché la benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta[53]. Le indicazioni sono molto più toccanti quando riguardano i genitori in disgrazia: “Non vantarti del disonore di tuo padre, perché il disonore del padre non è gloria per te; la gloria di un uomo dipende dall’onore di suo padre, vergogna per i figli è una madre nel disonore[54].  Trovo infine commovente l’invito al figlio di un genitore in condizione di fragilità: “Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Sii indulgente, anche se perde il senno, e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore[55]. Tutte queste disposizioni sono sbilanciate a favore dei genitori, ai quali si deve rispetto, gratitudine e cura in quanto rappresentano l’autorità di Dio: onorarli significa onorare Dio.

     Passano tanti anni e, nel 60 dopo Cristo, San Paolo assume una posizione di maggiore equilibrio. Comincia: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto” ma, due righi dopo, aggiunge: “E voi, padri, non esasperate i vostri figli[56]. Questi cominciano finalmente ad esistere come persone, non più solo come esecutori della volontà divina. Bisogna tuttavia arrivare all’inizio del XX secolo perché vengano giuridicamente riconosciuti loro dei diritti. Non ci possiamo sorprendere che tanti di noi genitori ancora non li prendano in considerazione e agiscano come se essi non esistessero. I nostri figli, dal canto loro, come tutti gli adolescenti, quando vogliono oltrepassare i confini e opporsi all’autorità, possono invischiarsi in situazioni pericolose rispetto alle quali non sappiamo come agire.

     Forse, tra qualche decennio, quando gli adulti saranno più preparati e consapevoli di quanto siamo noi, i casi da “selva oscura” saranno rari ma oggi, quando noi stessi siamo frutto di un’educazione legata al passato e ci permettiamo di ripetere che “ai nostri tempi …”, in questa fase di transizione, dobbiamo prendere atto dei nostri limiti e accettare di non potercela fare da soli. E’ a questo punto che ci rendiamo conto che … ci manca Virgilio.


[1] Inf III, 98-99.

[2] Inf. III, 104.

[3] Inf III, 18-20.

[4] Inf III, 121.

[5] Inf IV, 14.

[6] Inf I, 72.

[7] Inf IV, 46.

[8] Inf V, 121-3.

[9] Inf XX.

[10] Inf XXX.

[11] Inf III, 79-81.

[12] Inf X, 19-21.

[13] Inf XIX, 37-9.

[14] Inf VIII, 43-5.

[15] Inf XIX, 112 e 121-7.

[16] Inf XVI, 14-5.

[17] Ibidem, 45.

[18] Inf XXI, 42.

[19] Inf IX, 59-60.

[20] Inf X, 37-9.

[21] Inf XIII, 130-1.

[22] Inf XXXI, 28-33.

[23] Inf XII, 22-7.

[24] Inf III, 88.

[25] Inf XVII, 96.

[26] Inf XXIV, 20-30.

[27] Ibidem 16-78.

[28] Inf XXXIV, 28.

[29] Ibidem, 70-83.

[30] Inf XXIII, 37-51.

[31] Purg XXX, 50.

[32] Purg I, 121-9.

[33] Purg XVI, 8-15.

[34] Purg XXVII, 51.

[35] Ibidem, 86.

[36] Ibidem, 35-6.

[37] Ibidem, 45.

[38] Ibidem, 54.

[39] Purg XXX, 28.

[40] Ibidem, 41-2.

[41] Ibidem, 43-9.

[42] Ibidem 79-81.

[43] Purg XXVII, 136-7.

[44] Purg XXX, 108.

[45] Ibidem, 144-5.

[46] Purg XXVII, 130-1.

[47] Inf I, 85.

[48] Purg XXVII, 139-142.

[49] In questa, come in alcune altre occasioni, ho tratto spunto dal commento contenuto nell’edizione SEI del 2021.

[50] Purg XXVIII,144.

[51] Purg XXIX.

[52] Libro del Siracide 3:2-4.

[53] Ibidem 3:9.

[54] Ibidem 3:10-11.

[55] Ibidem 3:12-13.

[56] Lettera agli Efesini 6:1 e 4.

Continua la lettura su: https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=178052 Autore del post: EdScuola Fonte: http://www.edscuola.it/

Articoli Correlati

Ragazzi, soli, mai!

Ragazzi,  soli,  mai!

di Antonietta Cataldi

Madre: Smettila di commiserarti!  Ti comporti come se tutto ciò che ti è capitato fossero disgrazie e tu non avessi alcuna responsabilità.

Figlio: No, Mamma!  Il fatto è che, da ogni parte, viene scaricata su di me ogni colpa, come se fossi stato io a compiere tutte le scelte, sin da quando ero piccolo.

M.:  Cosa intendi dire?  Chi ti ha costretto a fare quel che non volevi?

F.:  Nessuno, ma io ero davvero in grado di capire quello che volevo?  A undici anni, appena uscito dalle elementari, quando ho formulato l’idea di entrare in seminario, ero in grado di capire cosa significasse questa scelta?

M.:  Ti dirò la verità, tuo padre e io non ci siamo posti il problema, forse perché, a quel tempo, avere un prete in famiglia era un titolo di merito, forse perché alcuni genitori sceglievano questa strada per i figli che non erano in grado di mantenere agli studi.  In ogni caso, non era una scelta definitiva, era un percorso che si poteva interrompere.

F.:  Voi avete guardato al futuro lontano senza considerare quello prossimo.  Vi siete chiesti quale sarebbe stata la mia vita in una realtà monca, soltanto maschile, con scarsi contatti con l’esterno?  A quell’età, non ero in grado di pormi questo problema.  Il mio mondo era popolato da ragazzetti come me, che amavano giocare a calcetto.  Ma la preadolescenza era vicina, con la sessualità che avrebbe presto imposto un cambiamento di prospettiva e, in quel momento, io mi sarei trovato chiuso in un mondo senza la presenza femminile.  Mi sarebbero state negate tutte le curiosità, le emozioni, anche le difficoltà, le frustrazioni nel rapporto con l’altro sesso.  La mia vita sarebbe stata priva di quella molteplicità di stati d’animo che l’attrazione, l’infatuazione, l’innamoramento comportano.  Pensi che una simile amputazione possa avvenire senza conseguenze?

M.:  Figlio mio, pensavo che si potessero generare forme di trasgressione come la lettura di giornalini scandalistici che quasi costò a tuo zio l’espulsione dal collegio.

F.:  No, Mamma, le conseguenze di quella deprivazione erano molto, molto più gravi.  Non selezionare i ricordi.  Pensa a ciò che ti raccontò tuo marito, che pure era già al ginnasio all’epoca dei fatti: tra i ragazzi c’era l’abitudine di accarezzare quelli con i glutei più rotondi!

M.:  E’ vero, ma poi tuo padre ha avuto una vita sessuale normale e io ne sono testimone.

F.:  Forse perché, dopo due anni, minacciò di scappare dal collegio se non lo avessero fatto uscire e, comunque, portò a lungo i segni di quelle esperienze.

M.:  In concreto, secondo te, cosa avremmo dovuto fare?

F.:  Quello che tu stessa mi hai detto che fece tuo padre con te.  Mi hai raccontato due episodi. Il primo è di quando eri ancora alle elementari e la suora che ti dava lezioni di pianoforte gli comunicò che intendevi farti suora.  Lei ti regalò un libro su Santa Chiara e lui non proferì parola, né in quel momento né in seguito.

M.:  Era un uomo saggio, capiva bene che la mia giovane età impediva che si potesse dare un valore permanente a quella mia supposta aspirazione.  In effetti, ero semplicemente attratta dalla veste monacale e dal mistero che sentivo aleggiare nella vita del convento.

F.:  E quando, a quindici anni, gli comunicasti che volevi fare l’attrice?  

M.:  Ancora una volta, mio padre fu abilissimo: mi disse che non sarebbe stato un problema ma che prima dovevo finire la scuola.

F.:  Lo vedi?  Non ti presentò difficoltà ma prese tempo per dare a te stessa il modo di maturare una decisione, tant’è che, dopo la maturità, eri proiettata verso altri obiettivi.  Perché non faceste così con me, consigliandomi di proseguire la scuola pubblica per entrare poi in un seminario maggiore?  A diciotto anni sarei stato molto più consapevole, avrei saputo agire e reagire adeguatamente nelle varie situazioni.  Avrei saputo respingere gesti mai immaginati e rifiutare approcci non desiderati, perché avrei capito e riconosciuto la differenza rispetto alle tenerezze e alle effusioni che avrebbero popolato i miei sogni e regalato magia alla mia realtà.  Avrei capito che i compagni di seminario non erano comparabili con le amiche di scuola.  Invece l’impossibilità del confronto ha finito col rendere accettabili comportamenti di coetanei e superiori che mai lo sarebbero stati in condizioni normali.  Io non sono gay, Mamma!

M.:  Sono stata miope e superficiale, figlio mio: mi dispiace non avere colto in tempo le implicazioni della tua situazione e tratto le conseguenze.  Non mi ero resa conto del motivo per cui addossavi a me e a tuo padre parte della responsabilità per la tua condizione e non avevo decifrato il dolore e il disagio che ti porti dentro.  Solo ora immagino la riluttanza a cedere a desideri che non erano i tuoi, ad abituarti a sollecitazioni non richieste e che, anche per chi le forniva, erano soltanto un ripiego, un surrogato, come il caffè di cicoria che si beveva durante la guerra, come l’omosessualità in carcere.  Se soltanto ci avessi pensato per tempo!  Sento parlare di una potente lobby gay in Vaticano e mi rattrista pensare che tu, per un’unica ragione, il fatto di essere in procinto di diventare prete, possa essere inquadrato tra i colpevoli mentre sei una vittima.  Perché intendiamoci: se si è omosessuali, il problema è costituito dalla mancata astinenza, ma se non lo si è, a questo si aggiunge anche l’aver agito controvoglia o l’avere addirittura semplicemente subito.

F.:  Sono vittima ma anche colpevole per non avere avuto il coraggio di ribellarmi, fin dall’inizio.

M.:  Ma se tu stesso hai detto che non conoscevi altra realtà!  A quell’età, poi, quando non si è ancora definita la propria identità, non si capisce nemmeno bene cosa si vuole e cosa non si vuole e, in ogni caso, non si può rifiutare ciò che non si riconosce, a parte il fatto che ti devi essere trovato in una condizione di impotenza se non addirittura di sudditanza.  Da quando ho percepito il tuo problema, mi sono impegnata a studiare …

F.:  Ecco, lo sapevo, tu trasformi sempre tutto in una occasione di studio, quasi che così si risolvano le questioni.

M.:  E’ vero, figlio mio, che non si risolvono ma conoscere il passato ci offre spunti per decifrare il presente e per individuare spiragli che indichino possibili vie d’uscita, perché – credimi – la storia dell’umanità ha delle costanti che ci possono sorprendere.  Pensi forse che il ricevere attenzioni sessuali indesiderate o, peggio, subire atti omosessuali sia una particolarità del nostro tempo?  La costante è che gli esseri umani riescono ad abituarsi quasi a tutto, specie quando le regole sono dettate, se non da dominatori, dalle convenzioni o dalle tradizioni.  Credi davvero che tutti i giovani gradissero il ruolo passivo che, nelle società tribali, toccava loro nella relazione, anche sessuale, con cui si concretizzava parte del rito di iniziazione che segnava il passaggio all’età adulta, quando era ammesso solo il ruolo attivo, quello che caratterizza il rapporto con la donna?

F.:  Certo che no e sicuramente non lo gradivano tutti i ragazzi tra i dodici e i quattordici-quindici anni che, ad Atene, si ritrovavano soggetti passivi, pur “all’interno di un legame affettivo duraturo”.  Ne sono testimonianza “le affermazioni di autori come Platone, Senofonte e lo pseudo Luciano, quando parlano del disgusto dei giovani amati, dell’umiliazione e del rancore che essi provavano verso gli amanti dopo il rapporto”[1].

M.:  Vedo che hai letto il saggio di Cantarella. 

F.:  Illuminante.  Così ho capito il perché di quei rapporti che alcuni semplicemente accettavano mentre altri, come Aristotele, rimpiangevano: “il ricordo del piacere provato provoca il desiderio di rinnovare il congiungimento che vi si accompagnava”. Non c’era possibilità di scelta, secondo le proprie inclinazioni; erano una “necessità sociale”[2] legata al fatto che, al centro dell’organizzazione della comunità non c’era il rapporto uomo-donna ma il rapporto tra uomini. Cantarella spiega: “il rapporto eterosessuale dava la vita fisica; la funzione di dare vita nel gruppo al maschio adulto, la funzione di creare l’uomo come individuo sociale spettava invece al rapporto omosessuale, che come sappiamo si stabiliva a questo scopo, quasi istituzionalmente, tra un adulto e un ragazzo. Ma questo rapporto doveva durare solo per un periodo di tempo ben delimitato.  Una volta raggiunta la maturità, infatti, il ragazzo doveva abbandonare il ruolo passivo (sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista sessuale) e assumere un ruolo duplicemente attivo: quello eterosessuale del marito, e quello omosessuale dell’amante, educatore di un ragazzo amato»”[3].

M.:  Vedi, figlio mio, che c’è una ragione per tutto?  E’ perché c’era un tempo per tutto, anche per “assumere il ruolo virile con una donna, nel matrimonio”.  A questo proposito, c’è una indicazione molto significativa nell’Iliade, quando Teti si rivolge al figlio, disperato per la morte di Patroclo: “Accanto ad Achille sedette l’augusta sua madre, / lo carezzò con la mano e chiamandolo a nome gli disse: / «Figlio mio, fino a quando gemendo e soffrendo dolori / ti roderai il cuore, del tutto oblioso del cibo, / del letto?  Eppure è bello congiungersi con una donna / in amore»”[4].  E’ l’immagine di una madre affettuosa che esorta il figlio a superare quello stadio, ad andare oltre il “cameratismo di guerrieri” e “a compiere finalmente il suo dovere sociale”[5].

F.:  A me il discorso di Teti sembra quello tipico del genitore che si cura meno dei problemi psicologici che dei problemi sociali.

M.:  Sento un tono di rimprovero nella tua voce.

F.:  Te ne meravigli?  E’ vero che Teti sta agendo su ordine di Giove, adirato per lo scempio che, da nove giorni, Achille sta facendo del corpo di Ettore, colpevole di avere ucciso Patroclo.  E’ vero altresì che è difficile il compito di convincere il figlio, caratterizzato dall’«ira funesta», a consegnare la salma a Priamo per la sepoltura.  E’ pur vero, tuttavia, che, nel suo discorso, Teti non sembra tenere in alcun conto l’intensità del rapporto che legava i due amici.  Noi sappiamo, infatti, che Achille, sperando di essere il solo tra i due a morire a Troia, confidava di poter assegnare a Patroclo il ruolo di tutore del proprio figlio.  E sappiamo anche quanto premuroso Patroclo fosse stato con Briseide quando era stata condotta schiava di guerra.  A lui, cadavere, la donna rivolge il proprio lamento, quasi possa sentirla: “tu no, non volevi / ch’io piangessi, ma sempre dicevi che resa m’avresti / d’Achille divino la sposa legittima e, a Ftia sulle navi / condotta, il banchetto nuziale tra i Mirmidoni avresti imbandito. / Perciò senza fine io ti piango morto, dolcissimo sempre!”[6].  A me sembra altissima la statura umana di questo eroe ucciso: non mi meraviglia che abbia suscitato tanto amore e non mi importa se il legame con Achille avesse o no una componente sessuale.  Era amore e tanto mi basta. Per me il problema sorge quando l’amore non c’è o non è reciproco. 

M.:  Capisco quello che intendi dire: i genitori, nel valutare la condizione dei propri figli, usano parametri che prescindono dal loro benessere presente e futuro.  Ad esempio, non tengono in conto se abbiano o no conosciuto una realtà prima di allontanarsene.  Forse hai ragione.  Il problema è che spesso è così difficile conoscervi!  Tu, per esempio, sei sicuro di esserti sforzato di farmi comprendere il tuo disagio, quando ha cominciato a prendere corpo?

F.:  Ecco, lo sapevo che, ancora una volta, la colpa era mia!  Proprio tu mi parli così, tu che hai sempre sostenuto che ti bastasse uno sguardo per capire se qualcosa non andava! Ma non mi vedevi, in quei brevi periodi che trascorrevo a casa?  Non ti rendevi conto di quanto poco sereno fossi? Sembra quasi che tu non mi abbia guardato come persona ma come un esserino da gestire nel modo migliore possibile, quello che potesse darti la massima tranquillità.  E dove maggiore tranquillità che in un seminario?

M.:  Dimentichi che sei stato tu a chiederlo?

F.:  No, ma tu e Papà siete stati pronti ad assecondarmi, come se la mia fosse la migliore delle scelte possibili, come una buona sorte.  Non mi avete posto nessun problema, non mi avete presentato nessuna difficoltà.  Non vi siete chiesti e non mi avete chiesto se ci fosse un qualcosa che mi sarebbe potuto mancare.

M.:  Tu avresti saputo rispondere?

F.:  Non credo, ma sarei stato costretto a riflettere.  Invece così mi sono trovato in un ambiente sconosciuto, al quale mi sono semplicemente dovuto adattare accettando relazioni che non avevo mai nemmeno immaginato.  Mentre rispondeva pienamente alle mie aspettative la realtà educativa, sono stati per me sorprendenti alcuni rapporti affettivi che ho via via individuato e che erano talvolta connotati da una fisicità che mi appariva morbosa e comunque sgradita.  Era come se invano fossero trascorsi millenni da quando, nella Grecia precittadina, “i ragazzi apprendevano le virtù che avrebbero fatto di loro degli adulti durante il periodo di segregazione, vivendo in compagnia di un uomo, al tempo stesso educatore e amante”, mentre a Sparta “i ragazzi, a dodici anni, erano affidati a degli amanti, scelti tra i migliori uomini in età adulta, e da questi imparavano a essere dei veri spartiati”[7].

M.:  Ma quanti di questi casi hai trovato in tutti questi anni?

F.:  Mamma, cosa dici?  Fai una questione di numeri? 

M.:  No, figlio mio, volevo solo dire che in ogni contesto ci sono le eccezioni, le famose “mele marce”, ma questo non consente di generalizzare; come dice il proverbio, di “buttare il bambino con l’acqua sporca”.  Nella vita mi è capitato di avere a che fare con un sacerdote che stimavo, al quale mi rivolgevo per le messe ai defunti, e che poi ha dato scandalo, sorpreso a compiere atti sessuali con un ragazzino.  Una storia squallida, che però non mi ha indotto a colpevolizzare tutto il clero.  Mi rendo conto di quanto sia difficile la rinunzia alla sessualità e come questa, in un contesto in cui non sia possibile la sua libera espressione, possa trovare vie improprie.  Mi viene in mente ciò che disse Gesù a conclusione di una discussione sul matrimonio e sul fatto che non convenisse sposarsi se non si poteva ripudiare la propria moglie: “vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli”[8].  Ora, un conto è “la teorizzazione della continenza come valore morale”, un altro è la pratica “dell’astinenza come stato di vita più alto e più vicino al Signore, come strumento per la conquista del premio nella vita eterna”[9].   Non è facile accettare l’idea della “superiorità del celibato volontario”[10], rifiutare la sessualità e rendersi eunuchi, specie per alcuni.  Ora ti dico una cosa che spero non ti scandalizzi.  E’ un pensiero rimasto confuso finché non ho letto questo passo di Mancuso: “Riferendosi all’espressione «il discepolo che egli amava», presente sei volte nel Vangelo di Giovanni, alcuni hanno ipotizzato una tendenza omosessuale di Gesù.  La realtà è che questa figura un po’ enigmatica del discepolo preferito è completamente assente nei Sinottici, ricorre solo nel Quarto vangelo e solo nella seconda parte, forse come proiezione del suo autore, e non ha nulla a che fare con la vita di Gesù quale emerge da tutte le altre fonti, ben più affidabili dal punto di vista storico.  Se quindi si vuole ritrovare nel «discepolo che egli amava» un segnale di tendenza omosessuale, essa riguarda non Gesù ma l’autore del Quarto vangelo”[11].  Non avevo mai pensato che Gesù fosse omosessuale semplicemente perché, in quanto Dio venuto in terra come “Figlio dell’Uomo”, cioè figlio dell’Essere Umano, nella mia mente non poteva avere altro ruolo che quello di fratello dell’umanità intera.  Avevo sempre pensato che l’espressione di Giovanni potesse essere una vanteria, come quella dei bambini quando sostengono “la mamma vuole più bene a me”.  In alternativa, l’espressione mi sembrava interpretabile come “il discepolo che lo amava”, lo amava più di tutti e pertanto era da lui ricambiato con la massima intensità.  L’ipotesi riportata da Mancuso mi ha fatto molto riflettere: se davvero Giovanni fosse stato gay, sarebbe stato bellissimo, perché vorrebbe dire che Gesù davvero lo amava particolarmente perché era il più fragile, quello che faceva più fatica a stargli accanto, a “rendersi eunuco per il regno dei cieli”.

F.:  Mamma, davvero non c’è limite alle tue elucubrazioni!  Però devo ammettere che la tua ipotesi mi intriga.  Amare qualcuno e stargli accanto sapendo bene di dover respingere qualunque impulso, di doversi negare qualunque aspettativa, è terribile: vuol dire amare fino al sacrificio.  Ora rivedo la mia esperienza con altri occhi ma non cambia la mia convinzione che il seminario minore sia un errore.

M.:  Ma, figlio mio, io ho sempre pensato che il seminario fosse, dopo la famiglia e forse più ancora che la famiglia, il luogo più protetto al mondo!

F.:  E non hai pensato che una realtà mutilata come quella potesse generare storture e potesse impedire a ciascuno di trovare la propria identità, anche sessuale? Tu non hai idea di come sia triste assistere alle manovre di preadolescenti che cercano di trovare uno sbocco alle loro pulsioni!

M.:  Vuoi forse dire che le cose andavano meglio nella Grecia dell’età classica, quando era previsto che il figlio, per il passaggio all’età adulta, venisse affidato a un adulto di valore, che avesse le qualità per fare di lui un degno esponente della propria comunità e che con lui avesse un rapporto esclusivo, anche di tipo sessuale? Andavano meglio quando i genitori, che non ponevano in discussione le convenzioni, si limitavano a proteggere i propri figli dai corteggiatori inadeguati facendoli, come  ad Atene,  “controllare dai pedagoghi”[12]?

F.:  Non dico che era meglio; dico che, già allora, c’erano leggi a protezione dei ragazzi, tese a evitare ai giovanissimi “le possibilità di frequentazioni e di incontri pericolosi” col rischio di diventare prede di avventurieri.  Per questo “era considerato infame intrattenere qualunque rapporto” con i minori di dodici anni ed era corposo l’elenco degli amanti di “cattiva qualità” cui era proibito frequentare il locale ginnasio: tra questi gli schiavi, i liberti, i prostituti, i commercianti, gli ubriachi e i pazzi[13].  Alcune cose, a mio giudizio, col tempo sono cambiate ma non tutte con effetti positivi.  Per esempio, “l’uomo romano era condannato alla virilità”[14].  Per questo, “a differenza dei greci, i romani non ritenevano che, per i ragazzi, essere soggetti passivi di un rapporto omosessuale fosse educativo. […] Sessualmente […] erano uomini, anche se solo in potenza: e come tali non dovevano mai essere sottomessi”. D’altra parte, mancando la “funzione pedagogica del rapporto, […] fondamentale in Grecia”, veniva meno ciò che dava una motivazione nobile al compito assegnato all’adulto, che pur godeva di una posizione di predominio.  Di conseguenza, nel mondo latino, dove “l’adolescenza era breve” tanto che, “a quattordici anni, un ragazzo era già considerato un adulto […] e poteva prendere moglie”[15], “con il giovinetto amato […] si viveva una vera storia d’amore: destinata peraltro a finire […] nel momento in cui l’amante compiva l’atto che per i romani altro non era, di regola, che un dovere sociale, e che segnava l’inizio di una nuova era della vita: il matrimonio”[16].  Questo scatenava i pappagalli stradali, le cui iniziative potevano diventare veri e propri “attentati all’onore” dei “ragazzi di nascita libera”.  I “giovani ingenui”, che non potevano uscire da soli, erano protetti dal pretore con la punizione di “chi sottraeva loro la scorta” giacché, “senza scorta, essi si presentavano, a chi li incontrava, come persone di facili costumi”[17].

M.:  In conclusione, vuoi dire che c’erano più tutele di oggi?  Di nessun rilievo è dunque il fatto che “quel che era riprovato era solo il fatto di amare un giovane libero e cittadino romano”, mentre restava escluso lo schiavo che “non apparteneva, come soggetto, al mondo della città” e che poteva dunque essere sodomizzato senza problemi giacché “subire il padrone era parte integrante del dovere di servirlo”[18]?

F.:  Questo è un altro discorso, Mamma.  Voglio semplicemente dire che, se certe cose accadono oggi, non si può liquidare la faccenda dando la colpa al fato.  A me sembra che le famiglie non si assumano appieno le proprie responsabilità, scaricandole sulla scuola o, più genericamente, sulla società.  Penso a quanto si è impoverito il novero delle doti richieste a un compagno di scuola per essere considerato degno di essere frequentato: basta che sia “di buona famiglia” e prenda bei voti.    Poco importa se manca di sensibilità ed è anche magari un po’ bullo; se ti capisce; se ha piacere di stare con te o lo fa solo per convenienza; soprattutto, se tu hai piacere di stare con lui.

M.:  Figlio mio, non hai idea di quanto sia difficile essere genitore.  Mio padre diceva sempre: “io faccio quello che posso; il resto, come Dio vuole”.  Io non so se ho fatto tutto quello che potevo.  Probabilmente no.  Certo mi sono posta il problema dell’identità sessuale ma non ho mai immaginato che potesse essere messa a repentaglio in un seminario.  Ho letto tanto, cominciando naturalmente con Platone e quella bellissima immagine che spesso viene citata solo per metà: “Tanto tempo fa la nostra forma non era come adesso, ma diversa. Per cominciare, i generi umani erano tre, non come oggi, due: maschio e femmina.  Allora se ne aggiungeva un terzo, partecipe d’entrambi i sessi. […] L’uomodonna esisteva come sesso a parte, allora”.  Mi è sembrata rivoluzionaria questa “lezione preliminare sulla fibra umana” perché supera la concezione binaria per cui, sin dalle origini, o si è maschi o si è femmine. Questi esseri sferici “erano mostri d’aggressività e di resistenza.  Pieni d’orgoglio assalirono le divinità. […] Zeus ebbe un lampo di genio. Disse: «[…] li spacco tutti in due, ad uno ad uno, così le loro forze caleranno».  […] Ora, dopo il dimezzamento della figura umana, ogni parte rimpiangeva quel suo doppio”. Qui finisce la parte più citata della storia.  La più interessante è, a mio giudizio, il seguito, in cui Platone fa una casistica di ciò che poteva accadere a ciascuno nella ricerca della metà mancante.

F.:  Lo so, ho studiato il Simposio: “Esistono uomini risultato della spaccatura di quel vivo nodo che, allora, si chiamava uomodonna: sono amatori della donna, questi, e la risma degli adulteri, quasi tutta, alligna qui; ed ecco anche le donne appassionate d’uomo, specialmente adultere, tutte dallo stesso ceppo”.  Questo è l’effetto   del ricongiungimento delle due parti del terzo sesso.  Nessun problema per gli altri due. Infatti, “donna nata da spaccatura di donna, non fa tanto caso all’uomo, quanto si orienta sulle altre donne: da qui le donne che vanno con le donne.  Chi è taglio di maschio, bracca il maschio”.

M.:  E contempla i vari stadi e le varie possibilità di interazione anche sessuale tra due metà con “radici maschili”, concludendo: “Qualcuno dice che sono scandalosi: è una calunnia.  Non compiono quell’atto per istinto osceno: anzi, è tutto cuore, fibra maschia, d’uomo vero, è l’attrazione, in loro, per natura affine. Documento sicuro di questo: solo questi, fattisi maturi, riescono uomini versati in politica”[19].  Io penso che dovrebbero leggere questo passo tutti coloro che nascono “taglio di maschio” e soprattutto coloro che li avversano, li denigrano, li dileggiano, li giudicano anormali. 

F.:  Io lascerei da parte il riferimento alla politica, visto il basso livello di considerazione di cui gode al giorno d’oggi.  Piuttosto confronterei il discorso di Platone con le informazioni che, da medico, già venticinque anni fa, ha offerto la monaca benedettina e teologa Teresa Forcades quando, parlando di gender, ha spiegato che esistono almeno tre dimensioni del sesso biologico: “Sul piano cromosomico (genetico) tutti sappiamo che esistono xx(femmina) e xy (maschio) e molti sono convinti che vi siano soltanto queste due possibilità, ma non è così. […] Oltre a xx e xy, che tutti conosciamo, esiste infatti anche xxy: in medicina si chiama «sindrome di Klinefelter».  Questa composizione genetica riguarda una persona ogni mille.  C’è poi anche un’altra possibilità: x0 («sindrome di Turner»). Questi due sessi genetici che ho nominato cosa sono: femmine o maschi?”[20]. Pensa a quanto è divenuto attuale questo discorso durante le ultime Olimpiadi …..

M.: …con osservazioni e commenti che denotavano estrema ignoranza e volgarità. A me, invece, viene in mente ciò che disse Calvino in una intervista nel 1980: “Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza.  Non potrei vivere senza una donna al mio fianco.  Sono solo un pezzo d’un essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante”[21].  Sembra Platone rivisitato ed è stupendo il modo in cui viene proposto il risultato del rapporto che si crea quando c’è vera intimità e appartenenza reciproca.  E’ l’effetto dell’amore vero e a me non interessa se si generi tra due persone dello stesso sesso o di sesso diverso e non m’importa nemmeno che sia eterno: mi basta che esista all’interno di una relazione.  Sono troppo vecchia per accettare rapporti basati solo su un’attrazione momentanea, su una voglia occasionale. Siamo persone; per me non esiste il “fare sesso”, non ha senso un amplesso equivalente al mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete, e trovo fulminante l’affermazione di Simone de Beauvoir riportata da Forcades: “rispetto alle esperienze sessuali riferite dalle giovani ragazze americane quindicenni sosteneva che avessero fatto più che altro «ginnastica pelvica»”[22].  Per me esiste solo il fare l’amore – come cantava Dalla – “ognuno come gli va”.  Mi rendo conto ora di non aver riflettuto sulla condizione di chi l’amore non lo può fare e se ne deve privare senza nemmeno averlo conosciuto.  Ci penso e me ne rammarico profondamente.

F.:  Peccato che avere studiato tanto ti sia servito tanto poco, come madre!

M.:  E’ vero.  Il fatto è che, per tanti anni, convinta che, per gli esseri umani, il sesso, non essendo legato alla procreazione, dunque alla conservazione della specie, sia o debba essere semplicemente un piacere, ho trovato normale poterne fare a meno, come col desiderio di cioccolata, cui si rinuncia in tempo di fioretti. Non solo. Non mi sono posta il problema di tutte le persone per cui si tratta di un impulso irrefrenabile, che non possono essere condannate a una vita da eunuchi. Dopo tutto, Gesù stesso parla del “rendersi tali”, cioè di una decisione di cui non può farsi carico un ragazzino.

F.:  E ora che l’hai capito?

M.:  Ora sono per l’abolizione dei seminari minorili.  Ti dirò di più, sarei per la chiusura dei seminari in generale, così da permettere a tutti di conoscere la vita.  Farei esistere solo Facoltà universitarie di Teologia analoghe alle altre Facoltà, cioè programmate con un corso base triennale e successivi corsi biennali specialistici, a seconda della branca di studio prescelta.  Sarebbero tutte aperte a uomini e donne, sposati e non, che, a seguito di concorsi, potrebbero avere accesso all’insegnamento o ad altre professioni. L’unico corso specialistico riservato agli uomini non sposati sarebbe quello di formazione alla vita ecclesiastica. Così dovrebbe essere fino a quando la Chiesa cattolica non si sentirà pronta per il sacerdozio femminile. In ogni caso, si tratterebbe di una scelta della quale un adulto sarebbe consapevole; soprattutto, una scelta della quale nessuno se non l’interessato potrebbe o dovrebbe sentirsi responsabile.

F.:  Questa, secondo te, sarebbe la soluzione di tutti i problemi?

M.:  Certo che no, ma toglierebbe spazio alla segregazione che ne causa tanti, su cui i più preferiscono tacere.  Per questo ho trovato coraggioso, anche se dirompente, e non mi ha scandalizzata affatto il termine “frociaggine” utilizzato da Bergoglio, che considero un grande Papa.  Lui si riferiva a quelle pratiche che poi diventano costume e non cessano con l’età né col mutamento delle condizioni. E’ un termine indubbiamente forte ma che richiama esclusivamente il fare sesso, non riguarda l’amore, che è un sentimento dolce, capace di illuminare un momento di vicinanza fisica tra due persone, uomini o donne che siano. Bisogna guardare in faccia la realtà, affrontarla e non fare come si è fatto per troppo tempo.

F.:  Beh, mi complimento.  Ne hai fatti di progressi!

M.: So di meritare il tuo sarcasmo; tu però non ti rendi conto del clima in cui sono cresciuta. Non so se ti ho mai detto quello che mi raccontava mio padre: quando lui era ragazzo, in paese tutti sapevano che un certo prete aveva una compagna, peraltro accettata in famiglia, e addirittura potevano vederne uno che si caricava una ragazza sulla canna della bicicletta, la portava in campagna e poi la riportava con grande disinvoltura. Mi spiegò che per tutti era normale distinguere tra ciò che l’individuo faceva in quanto uomo e la sua funzione di sacerdote sull’altare. Sdoppiamento? Sì. Ipocrisia? Forse.  Realismo? Certo.

F.:  Un po’ tardi, non ti pare, per raccontarmi queste cose? Non mi hai dato la possibilità di pensarci su.  Mi sarei posto il problema della castità.

 M.:  Perdonami. In tanti anni ho assistito a innumerevoli conferenze sull’educazione dei figli ma il tema della castità non è stato affrontato mai. Ricordo le posizioni più diverse, da quella che sostanzialmente richiamava la famosa canzone popolare napoletana, secondo la quale «mazz’ e panell’ fann ‘e figli bell’; panell’ senza mazz’ fann e’ figl pazz’», a quella di ispirazione bucolica che richiamava la consuetudine contadina di affiancare a un alberello ancora instabile un piccolo tronco che lo sostenga e lo aiuti a crescere diritto.  La posizione più interessante mi è sembrata quella di uno psicologo che prendeva ad esempio se stesso nel rapporto col proprio cane che, inizialmente, quando erano in giro per strada, scappava costringendolo a lunghi inseguimenti.  Quando aveva cambiato strategia e aveva smesso di rincorrerlo, si era accorto che l’animale fuggiva ma poi si fermava dietro l’angolo.  Il figlio si aspetta che il genitore lo segua, anche quando sembra sfidarlo.

F.:  Appunto, Mamma, il genitore deve accettare sfide, correre rischi, non prendere a scatola chiusa soluzioni rassicuranti.

M.:  Pensa che io mi ero posta un unico problema, quello del matrimonio dei preti, perché nell’anno che ho trascorso negli Stati Uniti ho avuto occasione di conoscere due figlie di pastori protestanti, entrambe compagne di scuola.  Erano agli antipodi: una quasi una suorina; l’altra del tutto fuori norma, sbandata, non di rado ubriaca.  Probabilmente mi sono capitati esempi sbagliati.  Certo è che, da allora, penso che avere un genitore ecclesiastico debba essere opprimente, quasi come lo era per me sentirmi dire che non potevo fare varie cose perché mio padre “portava le stellette”, cioè era un militare.

F.:  Dunque niente prole, niente matrimonio.  Come se ne esce?

M.:  In primo luogo, come ti dicevo, eliminando la possibilità di entrare in seminario se non si è maggiorenni.

F.:  E poi?

M.:  E poi, se ancora di seminari parliamo, dando ampia possibilità di ripensamenti e verifiche.  Non ci devono essere condizionamenti morali.  Pensa che un anno, nel liceo che dirigevo, è venuto un ragazzo proveniente da un seminario.  I suoi occhi erano smarriti quando è arrivato e non mi pare lo fossero di meno quando è andato via, dopo il pur brillante scrutinio finale.  Era stato troppo breve il lasso di tempo che si era concesso per capire, per scegliere e forse non lo aveva aiutato la presenza di amici, che c’erano e che presumo si fossero impegnati a fargli conoscere una vita diversa.  Credo che decisioni di questo genere richiedano riflessione, silenzio e una lenta   maturazione.

F.:  E allora?

M.:  Ora tocca a te.

F.:  Ho deciso: vengo via dal seminario ma non torno a casa.

M.:  E dove vai?!

F.:  Ancora non so. Ho bisogno di cambiare aria. Voglio andare in una città, finire il liceo e poi frequentare l’università.

M.:  Potresti andare dai tuoi cugini. Sarebbero felici di ospitarti.

F.:  Mamma, per favore, ho riflettuto su questa possibilità ma non sarete voi genitori a decidere.  Se questa lunga esperienza mi ha insegnato qualcosa è che non bisogna delegare le proprie scelte ad altri, nemmeno a chi ci ama moltissimo.  D’ora in poi, farò quello che mi sembrerà giusto e, se sbaglierò, pagherò.  Tanto il prezzo non potrà mai essere più alto di quello pagato finora.

M.:  Figlio mio, io ho semplicemente formulato un’ipotesi, peraltro seguendo la tua indicazione.  Ti prego, non estromettermi dalla tua vita.  Sarebbe una punizione tremenda.

F.:  Non ho nessuna intenzione di estrometterti, in primo luogo perché non voglio e poi perché non potrei, dato che non sono ancora né maggiorenne   né finanziariamente autonomo. Ti chiedo solo di non starmi col fiato sul collo e di rispettare il mio bisogno di indipendenza. Dopo tutto, non è questo che vuol dire crescere, diventare adulto?  Dovresti esserne sollevata.  Invece ti vedo incupita. Vuoi forse suscitare in me nuovi sensi di colpa?

M.:  No, per carità!

F.:  E allora smetti di preoccuparti per me.

M.:  Non ci riesco.  Non so cosa darei per garantirti, per il futuro, la serenità che ti è mancata in passato e che ti manca ancora.  Mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile questo momento, ma ricordati che non sei e non sarai solo, mai. Abbi fiducia in te stesso e abbi fede: la tua vita è nelle mani del Signore e, come sappiamo, Dio, se ti vuole, ti trova.  Quanto a me, non dubitare: se e quando dovessi desiderare avermi accanto a te, in qualunque strada del mondo, ti basterà fermarti dietro l’angolo, ti raggiungerò.

[1] CANTARELLA Eva, Secondo natura.  La bisessualità nel mondo antico, Milano, Feltrinelli, 2021, pagg. 67 e 272-3.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, pag. 76.

[4] OMERO, Iliade –  Odissea , Roma, Newton Compton, 2021, Libro XXIV, vv. 126-131.

[5] CANTARELLA Eva, op. cit. , pagg. 19 e 25-6.

[6] Ibidem, Libro XIX, vv.328 e seguenti; v. 296-300-

[7]CANTARELLA Eva, op, cit., pagg. 21-2.

[8] Matteo 19, 12.

[9] CANTARELLA Eva, op. cit., pag 263.

[10] I VANGELI – Marco Matteo Luca Giovanni, a cura di Giancarlo Gaeta, Torino, Einaudi, 2006, pag. 923.

[11] Mancuso Vito, I quattro maestri, Milano, Garzanti, 2020, pag. 370.

[12] CANTARELLA Eva, op, cit.,pag. 39.

[13] Ibidem, pagg. 67 e 48-49.

[14] Ibidem, pag. 280.

[15] Ibidem, pagg. 276-7.

[16] Ibidem, pag. 163.

[17] Ibidem, pagg. 141 e 153-4.

[18] Ibidem, pagg. 138 e 131.

[19] PLATONE, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Milano, Mondadori, 2020, pagg. 71-3.

[20] FORCADES Teresa, Siamo tutti diversi! Per una teologia queer, Roma, Lit Edizioni, 2019, pagg. 117-8.

[21] CALVINO Italo, Gli amori difficili, Milano, Mondadori, pag. XL.

[22] FORCADES Teresa, op. cit., pag. 45.

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000