Inclusione o conformità? La sfida delle nuove Indicazioni 2025

Le Nuove Indicazioni 2025 rischiano invece di irrigidire le pratiche didattiche, riportando la scuola dentro una cornice prescrittiva e gerarchica. Nella loro retorica dell’“ordine educativo”, si intravede un sospetto verso tutto ciò che è fluido, aperto, non classificabile. L’interculturalità diventa una voce tra le altre, depotenziata del suo significato trasformativo. Eppure, l’UNESCO e l’ONU – nelle loro raccomandazioni 2023–2024 sull’educazione inclusiva – sottolineano come il futuro dell’istruzione debba fondarsi sulla diversità come risorsa cognitiva e sociale. Educare in una prospettiva interculturale non significa organizzare una “settimana delle culture”, ma costruire ogni giorno una grammatica dell’incontro: scegliere testi che rappresentino pluralità di voci, discutere le immagini stereotipate nei libri di testo, dare spazio alle narrazioni personali come forma di conoscenza.

Molti docenti, anche senza cornici ministeriali esplicite, stanno già praticando questa pedagogia dell’incontro. Ci sono scuole che creano “biblioteche viventi”, dove gli studenti diventano “libri umani” e raccontano la propria storia; classi che organizzano laboratori di traduzione tra lingue e dialetti; insegnanti che costruiscono lezioni partendo dalle differenze come punto di forza. È in questi microcontesti che l’inclusione rimane viva: non perché imposta, ma perché riconosciuta come condizione del pensare insieme. Sono esperienze che incarnano ciò che l’UNESCO chiama inclusive humanism: una pedagogia che non si limita a tollerare, ma a costruire comunità.

La sfida per i docenti oggi è duplice. Da un lato, continuare a fare scuola nel solco dell’inclusione autentica, nonostante la direzione ministeriale sembri guardare altrove. Dall’altro, mantenere uno sguardo critico e competente sulle parole che vengono imposte dall’alto. Inclusione non può essere sinonimo di conformità, né identità di chiusura. Ogni insegnante, nel proprio quotidiano, ha la possibilità di restituire significato pedagogico a termini che rischiano di svuotarsi nel linguaggio burocratico. L’intercultura non si fa per decreto: si fa nello spazio concreto della classe, quando si dà voce a chi non è mai stato ascoltato, quando si sposta lo sguardo dal centro ai margini, quando si permette a ciascuno di raccontare il proprio mondo.

Per farlo, occorrono strumenti, ma anche coraggio. La progettazione per competenze, il cooperative learning, la scrittura collettiva e le pratiche di peer education restano leve potenti per costruire partecipazione. In un contesto politico che enfatizza la gerarchia e la selezione, queste metodologie rappresentano – anche simbolicamente – una forma di resistenza gentile. Un gruppo di docenti che lavora in cerchio, che ascolta, che negozia significati, produce una cultura diversa: inclusiva non per dovere, ma per scelta. E questo, oggi, è un atto pedagogico profondamente politico.

Sul piano istituzionale, il PNRR continua a finanziare azioni per la “scuola inclusiva e digitale”, ma spesso la retorica dell’innovazione tecnologica si scontra con la realtà di classi sovraffollate, carenza di personale di sostegno e formazione disomogenea. Le nuove Indicazioni non affrontano questi nodi strutturali: parlano di principi, ma non di risorse. È una distanza che gli insegnanti percepiscono chiaramente. Non si può chiedere alla scuola di includere senza fornirle gli strumenti per farlo. Né si può invocare la cultura della valutazione e dell’eccellenza senza riconoscere il valore di chi parte da condizioni di svantaggio.

La scuola pubblica, per sua natura, non è mai stata un luogo neutrale. È il primo spazio politico che una persona incontra, il laboratorio in cui si impara a stare nel mondo. Se oggi la normativa tende a chiudere, il compito dei docenti è tenere aperto. Non per disobbedienza, ma per fedeltà alla missione educativa più profonda: garantire a ogni bambina e bambino, a ogni ragazzo e ragazza, la possibilità di essere visti, riconosciuti e accompagnati. Fare inclusione, in questa stagione storica, significa soprattutto non cedere alla semplificazione. Continuare a credere che l’educazione sia un dialogo, non una linea retta.

Le Nuove Indicazioni 2025 potranno anche cambiare il linguaggio della scuola, ma non la sua anima. Finché ci saranno insegnanti capaci di ascoltare, di intrecciare storie e di dare parola alla differenza, l’inclusione continuerà a essere non uno slogan, ma una pratica viva. Una scuola inclusiva non è quella che proclama la propria apertura, ma quella che ogni giorno, silenziosamente, costruisce un noi più grande.

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