Contrastare bullismo e cyberbullismo costruendo spazi di relazione


Negli ultimi anni, ogni volta che un episodio di bullismo scuote l’opinione pubblica, la risposta istituzionale sembra seguire un copione ripetitivo: inasprimento delle regole, richiami alla disciplina, campagne spot che parlano di “tolleranza zero”. Le Nuove Indicazioni Nazionali 2025 non fanno eccezione. Anche qui il lessico del controllo prevale su quello della relazione: si parla di “prevenzione dei comportamenti devianti”, di “responsabilità individuale” e di “rispetto delle regole”, ma quasi mai di empatia, ascolto o cura. È un segnale preoccupante. Perché il bullismo, dentro e fuori dalla rete, non è solo una questione di comportamento: è il sintomo di un malessere relazionale e culturale che la scuola può affrontare solo se torna a essere una comunità educante, non un apparato disciplinare.

 

I dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito (Indagine 2024) indicano che il 22% degli studenti italiani tra gli 11 e i 17 anni ha subito episodi di bullismo, e il 12% è stato vittima di cyberbullismo. Le forme più diffuse sono l’esclusione dal gruppo, la diffusione di immagini offensive e la derisione pubblica attraverso chat e social network. Ma il dato più allarmante riguarda la normalizzazione: oltre un terzo dei ragazzi dichiara di aver assistito ad atti di prevaricazione senza intervenire. È qui che la scuola deve tornare protagonista, non con sanzioni più dure, ma con una pedagogia della presenza.

 

Ogni gesto di bullismo nasce da una frattura nella relazione: la perdita di empatia, la difficoltà di riconoscere l’altro come persona. Per questo, la risposta non può essere solo normativa. Punire non educa. Educare, invece, significa restituire senso alle relazioni spezzate, costruire contesti in cui chi sbaglia possa comprendere e riparare, e chi subisce possa ritrovare fiducia. In questa prospettiva, i percorsi di giustizia riparativa e le pratiche di mediazione scolastica rappresentano un’alternativa reale. Diversi istituti, soprattutto nella secondaria di primo grado, hanno avviato progetti in cui gli studenti imparano a gestire i conflitti attraverso il dialogo guidato: non per trovare colpevoli, ma per ricostruire legami. È un cambio di paradigma che sposta l’attenzione dal reato alla relazione.

Innovazioni nei Programmi Educativi

Sul piano pedagogico, la prevenzione del bullismo passa attraverso la costruzione di una cultura affettiva condivisa. Le scuole che funzionano non sono quelle che vietano, ma quelle che insegnano a stare insieme. Le ricerche condotte dall’Università Cattolica di Milano (Centro di Ricerca sul Cyberbullismo, 2023) mostrano che i percorsi più efficaci sono quelli che coinvolgono tutta la comunità scolastica: docenti, studenti, famiglie, personale ATA. Dove la scuola lavora in rete, il bullismo cala drasticamente. L’approccio “whole school” raccomandato anche dal Consiglio d’Europa (2024) non è uno slogan: significa che la prevenzione deve entrare in ogni aspetto della vita scolastica — dal linguaggio quotidiano alle modalità di valutazione, dall’uso dei social scolastici alle pratiche di inclusione.

 

Il cyberbullismo, poi, aggiunge una complessità ulteriore. La rete amplifica le parole e ne cancella il contesto, trasformando uno scherzo in persecuzione. Le nuove generazioni vivono la dimensione digitale come spazio identitario: punire il loro uso dei social con divieti assoluti significa colpire la loro forma di esistenza pubblica. È più efficace, invece, educarli a riconoscere i meccanismi della comunicazione online. In molte scuole secondarie italiane, i docenti stanno sperimentando laboratori di cittadinanza digitale in cui gli studenti analizzano commenti d’odio, fake news e meccanismi di reputazione online, scoprendo come si costruisce (e si distrugge) un’immagine in rete. Quando i ragazzi comprendono il potere delle parole digitali, il loro comportamento cambia più di quanto cambierebbe dopo una sospensione.

 

Un’altra leva potente è la peer education, l’educazione tra pari. Gli studenti ascoltano e imitano più facilmente i coetanei che gli adulti. In molte scuole, piccoli gruppi di “studenti facilitatori” vengono formati per intervenire in situazioni di isolamento o conflitto, diventando punti di riferimento per i compagni. È una strategia semplice ma rivoluzionaria: restituisce protagonismo ai giovani, rompe la logica verticale e trasforma la classe in una rete di cura reciproca. Il MIUR stesso, nelle Linee guida per la prevenzione del bullismo e del cyberbullismo (2023), riconosce la peer education come una delle pratiche più efficaci, ma nella realtà resta ancora troppo episodica, confinata ai progetti PON o PNRR.

Innovazioni nei Programmi Educativi

Accanto alle pratiche relazionali, la prevenzione richiede anche spazi di parola. Troppo spesso le scuole italiane non hanno luoghi dedicati all’ascolto, né figure stabili di riferimento. Gli sportelli psicologici introdotti con i fondi straordinari post-pandemia hanno mostrato la loro utilità, ma sono rimasti iniziative temporanee. Eppure, ascoltare è la prima forma di prevenzione. Un ragazzo che sente di poter parlare difficilmente sceglierà la violenza come linguaggio. Occorre immaginare una scuola con veri presìdi di benessere relazionale, in cui gli studenti possano chiedere aiuto senza paura e i docenti possano confrontarsi su come gestire dinamiche di gruppo complesse. Il bullismo si combatte prima che esploda, e questo significa riconoscerne i segnali: isolamento, linguaggio aggressivo, silenzi.

 

Il PNRR, nella Missione 4, prevede azioni di potenziamento dell’inclusione e della partecipazione studentesca, ma senza una visione etica condivisa rischiano di restare procedure. Serve un impegno politico e pedagogico più profondo: rimettere la relazione al centro. In questo senso, il contrasto al bullismo è una cartina di tornasole della qualità educativa di un Paese. Dove la scuola è fredda, competitiva e performativa, il bullismo cresce. Dove invece si coltiva la fiducia, l’ascolto e la cooperazione, scompare quasi da solo.

 

C’è una frase di Daniel Siegel, neuropsichiatra e studioso dell’empatia, che andrebbe scritta all’ingresso di ogni scuola: “Le relazioni sicure sono la base del cervello che apprende.” È una sintesi perfetta di ciò che oggi dovremmo ricordare: non si previene la violenza educando alla paura, ma educando alla connessione. I ragazzi non hanno bisogno di più controllo, ma di più adulti presenti, capaci di dare nome alle emozioni, di riparare quando serve, di mostrare che la gentilezza è una forza.

 

In fondo, la vera risposta al bullismo è culturale. Non si tratta di estirpare il male, ma di trasformarlo in consapevolezza. La scuola ha il potere — e la responsabilità — di costruire un altro modo di stare insieme: più lento, più attento, più umano. E se le Nuove Indicazioni 2025 preferiscono parlare di disciplina, i docenti possono scegliere di parlare di cura. È in questa discrepanza che si gioca oggi la libertà educativa: nella capacità di trasformare la norma in relazione, il divieto in dialogo, la punizione in opportunità di crescita.

La scuola che sa fare questo non elimina solo il bullismo. Lo disinnesca alla radice, perché forma persone capaci di riconoscere l’altro non come nemico, ma come parte di sé.

Articoli Correlati

Commenti

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000