Avere cura: il benessere psicologico come responsabilità educativa


Negli ultimi anni, la scuola italiana si è trovata a convivere con un dato sempre più evidente: il disagio psicologico tra bambini e adolescenti non è più un’eccezione, ma un elemento strutturale della quotidianità educativa. Le rilevazioni dell’Istituto Superiore di Sanità (2024) mostrano un aumento significativo dei disturbi d’ansia, dell’isolamento relazionale e dei casi di depressione giovanile, aggravati dalla pandemia, dalla precarietà sociale e da un contesto mediatico che amplifica l’iperconnessione e la competizione. In questo scenario, parlare di benessere psicologico a scuola non è un tema “extra”, ma una questione pedagogica urgente.

Eppure, le Nuove Indicazioni 2025 sembrano ignorare la portata di questo fenomeno. Nel testo, la parola “benessere” appare appena una volta, marginale, associata all’idea di disciplina e “ordine educativo”. Una visione riduttiva, che rischia di trasformare la cura in controllo e la relazione in norma. È un segnale di arretramento rispetto alla pedagogia contemporanea, che riconosce la dimensione emotiva come parte integrante dell’apprendimento.

 

Gli insegnanti lo sanno bene: non si può insegnare a chi non sta bene. L’apprendimento è un processo emotivo prima che cognitivo, e le neuroscienze educative lo confermano da anni. Tuttavia, la scuola italiana fatica ancora a fare spazio al benessere come dimensione professionale, non solo individuale. I docenti, spesso lasciati soli di fronte al disagio, si trovano a essere allo stesso tempo mediatori, consiglieri e, in casi estremi, figure di riferimento affettivo. L’assenza di un sistema strutturato di supporto psicologico nelle scuole (nonostante le sperimentazioni del PNRR e dei fondi straordinari post-pandemia) ha reso evidente quanto il benessere non possa essere delegato alla buona volontà dei singoli.

 

Il benessere, tuttavia, non coincide con l’assenza di conflitto o fatica. Educare al benessere significa insegnare a riconoscere, gestire e trasformare le emozioni, non a eliminarle. Come ricorda l’OMS nella definizione aggiornata del 2023, la salute mentale non è uno stato statico di equilibrio, ma la capacità di affrontare la complessità della vita con resilienza, significato e connessione. Per questo, il benessere psicologico deve diventare un obiettivo trasversale del curriculum, intrecciandosi con l’educazione civica, l’educazione affettiva e le competenze di vita. È una questione di equità: solo studenti emotivamente sostenuti possono sviluppare autonomia, spirito critico e partecipazione.

 

Nella scuola secondaria, il bisogno di sostegno emotivo si manifesta in forme sempre più esplicite: calo motivazionale, ansia da prestazione, difficoltà relazionali, autolesionismo digitale. Gli studenti chiedono ascolto, non giudizio. Per questo molti docenti stanno sperimentando forme di didattica empatica: il “circle time emotivo” per dare voce alle tensioni della classe; i check-in emotivi all’inizio delle lezioni per capire come si sentono i ragazzi; la scrittura riflessiva come spazio per esprimere vissuti interiori senza valutarli. Queste pratiche non sono “soft skills”, ma strategie di sopravvivenza educativa. Aiutano a creare clima di fiducia, a ridurre l’aggressività latente, a rendere possibile l’apprendimento.

Innovazioni nei Programmi Educativi

Il nodo, però, non riguarda solo gli studenti. Il benessere dei docenti è la condizione preliminare per qualsiasi politica scolastica sensata. L’indagine OCSE TALIS 2024 ha evidenziato che oltre il 60% degli insegnanti italiani dichiara di sentirsi “emotivamente esausto”. L’aumento del carico burocratico, la frammentazione dei rapporti con le famiglie e la precarietà contrattuale generano una stanchezza profonda, spesso invisibile. Parlare di benessere psicologico nella scuola senza includere i docenti significa amputare il discorso. È necessario un piano strutturale di cura anche per chi educa: spazi di ascolto psicologico, ore dedicate alla supervisione pedagogica, reti di supporto tra pari. Alcuni Paesi europei, come la Finlandia o i Paesi Bassi, prevedono ore di formazione specifica sul self-care e sulla gestione dello stress relazionale. L’Italia, per ora, delega tutto all’eroismo individuale.

 

In assenza di una politica chiara, molte scuole stanno inventando da sé percorsi di cura collettiva. Alcuni istituti comprensivi hanno attivato “sportelli di ascolto integrati”, gestiti da psicologi scolastici e referenti interni formati; altri hanno istituito “giornate del benessere” in cui docenti e studenti condividono attività espressive, artistiche e corporee, spesso coordinate con enti del territorio. Queste esperienze, pur frammentarie, mostrano che la comunità educante può diventare un presidio di salute mentale, se riconosce la vulnerabilità come risorsa e non come debolezza.

 

Il PNRR e la Missione 4 offrono alcune opportunità per inserire il benessere tra le priorità formative, soprattutto nei moduli dedicati all’inclusione e all’orientamento. Ma serve una visione più ampia: una scuola che si definisca davvero “formativa” non può ignorare la dimensione affettiva, la cura, la lentezza, l’ascolto. In questo senso, il benessere psicologico non è un tema sanitario, ma politico: riguarda la qualità delle relazioni che la scuola decide di costruire. Ogni volta che un docente rinuncia a un compito per dedicare tempo a una conversazione autentica, sta insegnando empatia. Ogni volta che una classe impara a gestire un conflitto senza umiliazione, sta costruendo cittadinanza emotiva.

 

L’educazione socio-emotiva, già riconosciuta a livello internazionale come competenza chiave (OCSE, Social and Emotional Learning Framework, 2023), resta marginale nelle linee guida italiane. Eppure, è la base per affrontare i grandi temi contemporanei: la violenza online, il bullismo, la fragilità affettiva, la paura del futuro. In molte scuole secondarie italiane, gli insegnanti stanno introducendo percorsi di mindfulness, laboratori di teatro educativo, musica relazionale o filosofia del benessere. Si tratta di pratiche che restituiscono alla scuola la sua funzione originaria: essere un luogo in cui si cresce insieme, non solo si istruisce.

 

La sfida dei prossimi anni sarà quella di costruire una cultura scolastica del benessere che non si limiti a gestire le emergenze, ma promuova la prevenzione. Per farlo, occorre intrecciare sguardi: quello della psicologia, della pedagogia, dell’arte, del corpo, del tempo. Il benessere non è un progetto da aggiungere al PTOF: è il tessuto stesso che tiene in vita la scuola. Ogni gesto, ogni parola, ogni scelta didattica può essere generativa o distruttiva. E questa consapevolezza, più di ogni norma, è ciò che fa la differenza.

 

In fondo, la scuola che cura non è quella che promette felicità, ma quella che riconosce la fragilità come condizione umana. In un tempo che misura tutto in risultati e performance, prendersi cura diventa un atto controcorrente. È questo il nuovo compito etico degli insegnanti: custodire la dimensione umana dell’apprendimento, anche quando le politiche la dimenticano. Perché non c’è sapere che valga la pena se non serve a vivere meglio, insieme.

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