Sul Crocifisso

Sul Crocifisso

di Gabriele Boselli

La recente enigmatica se non ambigua sentenza della Cassazione concede da un lato l’apertura al mistero, all’infinito così come intravedibili attraverso la storia dell’uomo; ma può essere agitata anche come autorizzazione all’intolleranza verso il simbolo essenziale della nostra civiltà.

Non penso si possa aprire all’intolleranza per il nostro simbolo cardinale. Per due millenni si sono incardinati nel Crocifisso tutti i saperi d’Occidente e ancora costituisce la struttura sintattica profonda (syn-taxis, vettrice d’orientamento all’Intero) del nostro in-tendere il visibile e l’invisibile. 

Essenza della laicità

 In un’aula coesistono e con varia intensità convivono diverse fedi e non fedi e diverse disponibilità ad …

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Laicità e identità religiosa nella scuola multiculturale

Laicità e identità religiosa nella scuola multiculturale

di Gianluca Dradi

Le forti polemiche suscitate dalla decisione del consiglio di istituto di una scuola di Pioltello, di disporre un giorno di sospensione delle attività didattiche in occasione dell’ultimo giorno del Ramadan, offre il pretesto per una riflessione sul tema dello spazio che può essere riservato alle espressioni religiose all’interno della scuola pubblica, in un contesto ormai sempre più multiculturale.

Preliminarmente appare opportuno, sulla vicenda specifica, e per quanto si può ricavare dalle informazioni acquisibili attraverso gli organi di stampa, riconoscere la legittimità formale dell’operato della scuola che si è limitata a deliberare, ai sensi dell’art. 5 del DPR 275/1999, un adattamento del calendario scolastico, prevedendo un giorno di sospensione, da recuperare, in occasione della fine del Ramadan, atteso che il 40 % dei propri alunni sarebbe verosimilmente rimasto assente da scuola.

La norma citata viene applicata dalla generalità delle istituzioni scolastiche proprio in occasione dei “ponti” tra una festività e l’altra, considerando inutile tenere aperta la scuola quando appare verosimile che la maggioranza degli studenti rimarrebbe assente, nonché per venire incontro alle esigenze del personale residente fuori sede.

Precisato quindi che la decisione della scuola di Pioltello non è sorretta da una motivazione di contenuto religioso, ma si preoccupa semplicemente di essere inclusiva rispetto ad una rilevante quota della propria popolazione studentesca, l’episodio consente di proporre una riflessione sulle varie tipologie di manifestazioni religiose nella scuola: apposizione del crocifisso, presenza di alunne col velo islamico, benedizioni pasquali, apprestamento di presepi ecc.… E nel conseguente dibattito che nasce a seguito delle espressioni del sacro dentro un’istituzione pubblica ispirata al principio della laicità.

La laicità quale principio supremo dell’ordinamento

La Corte Costituzionale ha avuto plurime occasioni per precisare il concetto di laicità. Si segnala, in particolare, la sentenza n. 203 del 1989, nella quale la Corte afferma che gli articoli 2,3,7,8,19 e 20 della Costituzione concorrono a strutturare il principio supremo della laicità che caratterizza la nostra forma-Stato.

Tale principio si declina come equidistanza rispetto alle diverse confessioni religiose e non confessionalità dell’azione pubblica.

Ma, precisa la Corte, il principio di laicità non risponde ad un concetto ideologizzato ed astratto di estraneità rispetto alle istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini, implicando, invece, la «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni», e, come precisato dalla Corte Cost. nelle sentenze n. 67/2017 e n. 254/2019, la «tutela del pluralismo a sostegno della massima espressione della libertà di tutti».

In altri termini, il concetto di laicità fatto proprio dalla nostra Costituzione non è sinonimo di chiusura di fronte al fenomeno religioso, ma significa apertura all’inclusione dei diversi orientamenti religiosi, nonché riconoscimento del loro valore in quanto tratto distintivo dell’identità personale e per il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società.

L’uguaglianza dei cittadini e delle confessioni religiose davanti alla legge, può avvenire verso il basso o verso l’alto: nel primo caso, neutralizzando lo spazio pubblico rispetto al fenomeno religioso, nel secondo caso, invece, riconoscendo il valore delle diverse identità di fede e tutelando il loro diritto di esprimersi.

Come esempio di questo secondo modo di intendere il concetto si può citare la sentenza 440/1995 della Corte Cost. che, nel dichiarare l’incostituzionalità parziale del reato di bestemmia[1], precisa che «la scelta attuale del legislatore di punire la bestemmia, una volta depurata del suo riferimento ad una sola fede religiosa, non è dunque di per sé in contrasto con i principi costituzionali, tutelando in modo non discriminatorio un bene che è comune a tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse».

La laicità che riconosce il valore pubblico del fattore religioso significa quindi equidistanza dalle diverse confessioni, ma al tempo stesso tutela di tutti i valori religiosi.

Così concepita diviene anche un utile strumento di governance di una società complessa, multietnica e multiculturale, in quanto mezzo di dialogo che consente il confronto tra diverse visioni e valori su un piano di parità.

Come affermato da Pastore[2], infatti, «le società multiculturali (…) hanno bisogno di uno stato imparziale (e non neutrale, nel senso di indifferente), dove le molteplici identità possano rivelarsi, riconoscersi reciprocamente ed essere trattate con eguale considerazione e rispetto».

L’esperienza del sacro nelle istituzioni scolastiche

In una società che si definiva secolarizzata, sta invece emergendo con forza il tema del sacro e la richiesta di riconoscimento delle proprie identità culturali e valoriali da parte delle comunità immigrate e, come reazione, da parte di gruppi autoctoni che sentono minacciati i propri valori.

La scuola è il luogo per eccellenza in cui una società pluralista deve trovare il modo di incontrarsi e non scontrarsi. Perché è caratterizzata da un modello educativo e formativo «fondato sui valori dell’inclusività, dell’interculturalità, della democrazia e della non discriminazione», come recita l’art. 2 del D.lgs. 64/2017. Perché è «una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni» (art. 1 DPR 249/1998), dunque il luogo di formazione della cittadinanza, che ha nel suo DNA la funzione di tenere insieme il mondo civile, educandolo ed istruendolo.

E dentro la scuola queste istanze di affermazione delle identità religiose si esprimono in vari modi.

Alcuni, come l’indossare il velo islamico, piuttosto che la kippà ebraica o il clergyman del sacerdote che insegna religione, non dovrebbero suscitare dubbi sulla loro ammissibilità, in quanto chiara espressione sia del diritto all’identità personale sia della libertà religiosa (ed appare ingiustificato imporre ad un credente di lasciare la sua fede fuori dall’aula). In proposito, seppure riferito al caso dell’annullamento di un’ordinanza sindacale che vietava il burqa, il Consiglio di Stato, con sent. n. 3076/2008, ha dichiarato che il nostro ordinamento consente che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali.

Un altro esempio è quello delle scuole che, in occasione delle festività natalizie, hanno la tradizione di allestire il presepe: in questo caso penso che il comportamento di quelle istituzioni scolastiche che decidono di modificare le loro prassi al fine di non discriminare altre religioni sia una forma di ipercorrettismo: il presepe, infatti, non è un simbolo religioso, perché, seppur originato dalle tradizioni proprie del cristianesimo, ha essenzialmente una valenza storico-culturale, al pari delle tante opere del nostro ricco patrimonio artistico che raffigurano soggetti e temi religiosi.

Venendo invece ai simboli o riti religiosi, un caso ricorrente è quello delle benedizioni pasquali. Sulla questione è utile fare riferimento alla pronuncia del Consiglio di Stato, sent. n. 1388/2017, che ha sancito il principio secondo cui «Gli organi scolastici quali il Consiglio di Circolo e il Consiglio di Istituto sono legittimati ad autorizzare lo svolgimento di “benedizioni pasquali” o di altri atti di culto all’interno degli edifici scolastici pubblici quale forma di attività complementare alla didattica. […] Né all’ammissibilità delle pratiche di culto osta la circostanza che le stesse, essendo espressione di uno specifico credo religioso, ben difficilmente potranno essere condivise dalla totalità degli studenti, giacché è compito della scuola riconoscere e valorizzare i diversi orientamenti confessionali ed ideologici, creando un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto».

Come si può notare, la Corte, nel riconoscere dentro la scuola -alla condizione che ciò avvenga in orario extrascolastico e con partecipazione facoltativa- la possibilità di “cittadinanza” del rito della benedizione, fa riferimento al diritto di tutti gli appartenenti alle diverse confessioni religiose, con la conseguenza che analogo diritto di cittadinanza avrebbero anche riti di altre confessioni.

Del resto, pochi rammentano che l’art. 311 del testo unico delle leggi sull’istruzione (D.lgs. 297/1994) dispone che (sottolineatura aggiunta) «l’insegnamento religioso ed ogni eventuale pratica religiosa, nelle classi in cui sono presenti alunni che hanno dichiarato di non avvalersene [di insegnamenti religiosi], non abbiano luogo in occasione dell’insegnamento di altre materie, né secondo orari che abbiano per i detti alunni effetti comunque discriminanti». Quindi la norma ammette i riti a certe condizioni.

Altro caso, che in qualche misura richiama l’episodio dell’istituto comprensivo di Pioltello, è quello della sospensione delle lezioni in occasione di festività religiose diverse dalla cattolica.

Qui basti ricordare che ciò già avviene da molti anni, nei comuni piemontesi in cui esistono le comunità valdesi, in occasione del 17 Febbraio[3].

Inoltre appare significativo come il Governo italiano si sia difeso nella famosa causa Lautsi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per come riportato nel seguente passaggio della motivazione della sentenza CEDU, Grande Chambre, Lautsi c. Italie (n° 30814/06), 18 marzo 2011 (sottolineatura aggiunta): «selon les indications du Gouvernement, l’Italie ouvre parallèlement l’espace scolaire à d’autres religions. Le Gouvernement indique ainsi notamment que le port par les élèves du voile islamique et d’autres symboles et tenues vestimentaires à connotation religieuse n’est pas prohibé, des aménagements sont prévus pour faciliter la conciliation de la scolarisation et des pratiques religieuses non majoritaires, le début et la fin du Ramadan sont “souvent fêtés“ dans les écoles et un enseignement religieux facultatif peut être mis en place dans les établissement pour “toutes confessions religieuses reconnues“ (§ 74)[4]».

Si può concludere la casistica con il tema dell’apposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e come esso sia stato risolto dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, con sent. n. 24414/2021.

Il caso specifico originava da un conflitto tra gli studenti di una classe, che chiedevano il crocifisso, ed un docente che vi si opponeva in nome della laicità “alla francese” (nel senso dell’assoluta neutralità dello spazio pubblico), sentendosi coartato nella sua libertà di insegnamento dalla presenza del simbolo religioso.

La suprema Corte, in primo luogo, rammenta che la fonte normativa che prevede che tra gli arredi delle aule scolastiche sia ricompreso il crocifisso (art. 118 del R.D. 965/1924) deve essere interpretata in senso conforme alla Costituzione: nel contesto nel quale quella norma fu emanata, la religione cattolica era la religione di stato e questo spiegava il carattere obbligatorio dell’esposizione del crocifisso. Dopo la promulgazione della Costituzione e la revisione dei patti lateranensi, avvenuta nel 1984, l’esposizione autoritativa del crocifisso non è più ammissibile perché incompatibile con la distinzione degli ordini dello Stato e delle confessioni religiose.

Il crocifisso di Stato nelle scuole pubbliche, spiega sempre la Corte, entra in conflitto anche con un altro corollario della laicità: l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni, indipendentemente da valutazioni di carattere numerico, non essendo più consentita una discriminazione basata sul maggiore o minore numero degli appartenenti all’una o all’altra di esse. Ed entra in conflitto con il pluralismo religioso come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori.

Ma l’illegittimità dell’obbligo di esposizione non si traduce automaticamente nel divieto di affissione: «la disposizione regolamentare non può più essere letta come implicante l’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole, ma va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità».

La Corte offre dunque un’interpretazione evolutiva che tramuta l’obbligo di esposizione del crocifisso in una facoltà, affidandone la decisione alle singole comunità scolastiche.

Detta altrimenti: la parete dell’aula nasce bianca, ma può anche non restare spoglia ed accogliere la presenza di simboli religiosi per soddisfare un bisogno degli studenti.

Il tema del possibile conflitto va risolto caso per caso, alla luce delle concrete esigenze, nei singoli istituti scolastici, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso possibile.

In tale modo il simbolo del cristianesimo, inserito in un contesto aperto alla presenza di simboli di altre religioni o di altre culture propri dei membri della comunità scolastica e quindi alla plurale ricchezza dei contributi offerti, concorre a delineare uno spazio pubblico condiviso, caratterizzato da una molteplicità di ragioni dialoganti e ispirato a una neutralità accogliente delle identità.

Il ruolo dell’autonomia scolastica

Le decisioni in materia di simboli e riti religiosi nella scuola laica e multiculturale è opportuno e necessario siano assunte dalle istituzioni scolastiche e non affidate ad autorità esterne.

Già il Consiglio di Stato, con sent. n. 1388/2017, ricordava come l’art. 4 DPR 275/1999[5], «ammette esplicitamente, con l’espressione “riconoscono e valorizzano le diversità”, tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione».

Afferma inoltre la citata sentenza della Cassazione che l’autonomia, oggi riconosciuta anche a livello costituzionale dall’art. 117, significa inserire dentro il pubblico quei margini di flessibilità e di adattabilità ai diversi contesti che l’uniformità normativa non garantisce.

Ne deriva che spetta agli organi collegiali scolastici, che di quell’autonomia sono i registi, la competenza in ordine a scelte che investono la creazione di un ambiente condiviso nel quale si svolgono le relazioni tra docenti, alunni e famiglie, come pure l’eventuale gestione dei conflitti che ne possano derivare.

Si può concludere con la seguente citazione della Corte: «la strada da percorrere […] è quella dell’accomodamento ragionevole [che] è il luogo del confronto: non c’è spazio per fondamentalismi, per dogmatismi o per posizioni pretensive intransigenti che debbano valere in ogni caso nella loro pienezza irrelata.

L’accomodamento ragionevole è basato sulla capacità di ascolto e sul linguaggio del bilanciamento e della flessibilità. Valorizza le differenze attraverso l’avvicinamento reciproco orientato all’integrazione tra le diverse culture. La dimensione che lo caratterizza è quella dello stare insieme, improntata ad una logica dell’et et, non dell’aut aut.

Seguendo questa prospettiva, le soluzioni vanno ricercate in concreto, non sulla linea di chiusure e di contrapposizioni, ma attraverso un dialogo costruttivo in vista di un equo contemperamento delle convinzioni religiose e culturali presenti nella comunità scolastica, dove la plurale e paritaria coesistenza di laici e credenti, cattolici o appartenenti ad altre confessioni, è un valore inderogabile».

Ovviamente, affinché questa autorevole indicazione sia concretamente perseguibile, è richiesto a tutti i componenti della comunità scolastica un atteggiamento di disponibilità e tolleranza rispetto alle posizioni culturali espresse dagli altri. In presenza di soggetti che brandiscono “valori non negoziabili”, il principio della ragionevolezza e della ricerca del più ampio consenso possibile, finirà altrimenti per tradursi, inevitabilmente, nel classico principio maggioritario per l’assunzione delle decisioni.

[1] reato previsto dall’art. 724 C.P. nei confronti di chi inveisce “contro la Divinità o i simboli o le persone venerati nella religione di stato”; la incostituzionalità è stata dichiarata per il riferimento esclusivo ai simboli/persone venerate dalla religione cattolica.

[2] B. Pastore, Società multiculturale e laicità, in R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, 2004

[3] Il 17 Febbraio 1848 Re Carlo Alberto concesse i diritti civili e politici ai sudditi valdesi.

[4] secondo le indicazioni del Governo, l’Italia apre lo spazio scolastico anche alle altre religioni. Il Governo indica quindi in particolare che non è vietato indossare da parte degli studenti il ​​velo islamico e altri simboli e indumenti con connotazioni religiose, sono previste misure per facilitare la conciliazione tra scolarizzazione e pratiche religiose non maggioritarie, l’inizio e la fine del Ramadan sono “celebrati spesso” nelle scuole e l’insegnamento religioso facoltativo può essere istituito negli istituti per “tutte le confessioni religiose riconosciute”.

[5] “Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo”

Storia romana per alunni del serale

Viste le lacune di molti e le difficoltà ad affrontare programmi completi con gli alunni del serale, ho pensato di sintetizzare in un unico file tutta la storia romana. Un’impresa ardua, ma ci ho provato! Molto spesso gli alunni dei percorsi serali sono persone che hanno frequentato i primi anni di scuola superiore e poi hanno interrotto gli studi; quando tornano a scuola sono passati anni, in alcuni casi anche decenni, per cui ricordarsi la storia antica è veramente difficile. Si trovano, così, a dover affrontare direttamente lo studio della storia medievale, se non addirittura quella contemporanea, senza ricordare o senza aver mai saputo nulla di quella precedente. Se consideriamo il fatto che la nostra storia è l’evoluzione di quella romana e che la nostra lingua e la nostra letteratura sono collegate alla latinità, allora è proprio un peccato restare con questo vuoto di conoscenza. Per questo motivo ho pensato di sintetizzare in poche pagine tutta la storia romana, sperando di lasciare qualche traccia in chi tempo per approfondire ne ha poco. Ovviamente è bene aiutare la comprensione del testo e accompagnare la lettura dello stesso con interruzioni verbali atte a puntualizzare ed esplicare argomenti accennati brevemente, in modo da fornire un quadro chiaro di oltre venti secoli di storia.

Tratti salienti di Storia Romana

La nascita di Roma fu la
conseguenza di un lungo processo, cui contribuirono non solo i latini, ma anche
molte altre popolazioni, tra cui gli etruschi, i sabini e i greci. Il
popolamento dell’Italia avviene attraverso varie sovrapposizioni di
popoli.

La fondazione di Roma è fissata
alla metà dell’VIII sec. a. C. , in quel periodo l’Italia
presenta una serie di popoli: etruschi, greci, fenici, umbri, siculi, sicani,
latini, ecc. E’ in un’ Italia dal popolamento eterogeneo, ma dominate da due
culture avanzate (etrusca e greca) che nasce Roma. Nei primi anni sono numerose
le lotte interne: Roma si espande sottomettendo i popoli che la contrastano,
primo tra tutti quello dei latini da cui i romani stessi discendono.

La leggenda della fondazione di Roma

Secondo la tradizione, Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. I romani, diventati i padroni del mondo, attribuivano alla loro città origini divine. Partendo da antiche leggende, il poeta Virgilio ( 70-19 a. C.) ne raccontò la storia nel poema Eneide. Enea, figlio di Venere, fuggito da Troia in fiamme col vecchio padre Anchise e il figlio Ascanio chiamato anche Iulo, giunse, guidato dagli dei, presso la foce del Tevere. Accolto dal re Latino, sposò la figlia mentre suo figlio Iulo fondava Albalonga (sui colli Albani, nel Lazio). Qui finisce l’Eneide, ma il racconto continua, tramandato da grandi storici di Roma (Tito Livio il più autorevole e il greco Dionigi di Alicarnasso), che hanno raccolto altre leggende. Passarono gli anni. Re di Albalonga divenne Numitore, ma il fratello Amulio lo spodestò e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa della dea Vesta rinunciando quindi al matrimonio. Tuttavia il dio Marte, invaghitosi di lei, si unì alla fanciulla e nacquero due figli, Romolo e Remo. Temendo di perdere il trono Amulio li fece mettere in una cesta e gettare nel Tevere, ma la cesta, protetta dagli dei, s’impigliò nei rami di un fico e una lupa li allattò, consentendo loro di sopravvivere.

In realtà, alcuni storici, sostengono che Romolo altri non fosse che un pastore a capo di un gruppo dedito al brigantaggio.

Dalla monarchia alla Repubblica a Roma

Dal latino Senatvs PopvlvsQve Romanvs – il Senato e il Popolo Romano = il Senato e il popolo, cioè le due classi dei patrizi e dei plebei che erano a fondamento dello Stato romano.

Durante il periodo monarchico l’organizzazione politica è basata sulla monarchia costituzionale elettiva: il potere diviso tra re, senato e comizi curiati (assemblee di cittadini romani). Romolo (romano) fu il primo dei 7 re di Roma, gli altri furono: Numa Pompilio (sabino), Tullo Ostilio (romano),  Anco Marzio (sabino), Tarquino Prisco (etrusco), Servio Tullio (etrusco), Tarquinio il Superbo (etrusco).

La cacciata dell’ultimo re espone Roma
alle mire dei popoli vicini, come Volsci, Sabini e la Confederazione latina.

La
rivolta dei patrizi, dei popoli italici, degli abitanti delle colonie della
Magna Grecia sono le ragioni che determinano l’avvento della repubblica.

I
romani si troveranno ad affrontare guerre contro i sanniti , guerre contro i
greci e contro i cartaginesi per governare in Italia, nell’Asia Minore e
nell’Africa del Nord.

Nell’VIII secolo la Grecia estendeva la sua
influenza nell’Italia meridionale; Magna Grecia viene denominata l’area
geografica colonizzata.

Dal 509 a.C. i patrizi decisero di
istituire un nuovo tipo di governo in cui le decisioni venissero prese non da
un re, ma da tutti gli abitanti di Roma: tale governo fu chiamato res
publica, ossia “cosa pubblica”. Al posto del re furono eletti due consoli,
che rimanevano in carica per un solo anno. Accanto a loro venivano eletti,
sempre ogni anno, altri magistrati che si occupavano di amministrare la città e
il suo territorio. In pratica però nei primi anni della repubblica il potere
rimase nelle mani dei patrizi, gli unici che potevano essere eletti consoli e
diventare magistrati o senatori. I plebei, ossia tutto il resto
della popolazione non appartenente alle famiglie dei patrizi, erano esclusi da
qualsiasi decisione politica.

I plebei volevano però partecipare alla vita
politica. Così nel 494 a.C. attuarono una sorta di sciopero: si riunirono su un
colle fuori dalle mura di Roma (secessione
sull’Aventino e sul monte Sacro), non svolgendo più alcun lavoro e non
partecipando al servizio militare. Sarebbero ritornati alla vita normale solo
se i patrizi avessero loro concesso di eleggere i propri rappresentanti
politici, i tribuni della plebe, e di riunirsi in assemblee formate
da soli plebei, i concili della plebe. I patrizi furono costretti ad
accettare le loro richieste. Dalla metà del V secolo i plebei ottennero altre
concessioni che permisero progressivamente la loro piena partecipazione alla
vita politica. Il conflitto tra patrizi e plebei finì nel 367 a.C.,
quando una legge stabilì che uno dei due consoli dovesse essere plebeo
(leggi licinie sestie). In questo
modo i plebei riuscirono ad avere libero accesso anche al Senato, dato che i
consoli, una volta terminato il loro anno di carica vi entravano di diritto.
Ricordiamo, però, che per accedere al consolato servivano mezzi economici che
solo una piccola parte della plebe possedeva.

Nel I  secolo
a.C. fu eletto console Gaio Mario, a
lui si oppose Silla, portavoce delle
idee della nobiltà.

La guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo avevano dimostrato che le istituzioni repubblicane (Senato, magistrature e comizi) avevano perso gran parte del loro valore e riuscivano a imporsi, sulla scena politica, generali che potevano contare sull’appoggio del proprio esercito. Morti Mario e Silla, infatti, fu la volta di altri tre generali: Marco Licinio Crasso, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare.

Fattosi valere come generale di Silla nella guerra
civile contro Mario, Pompeo venne eletto console nel 70 a.C. insieme con
Crasso.

Il Senato preoccupato che Pompeo, divenuto troppo
potente, seguisse i passi di Silla e instaurasse una dittatura, non volle
riconoscere i provvedimenti da lui presi in Oriente e rifiutò di concedere le
terre che aveva promesso come premio ai suoi soldati. Pompeo, per ottenere
quanto gli spettava, cercò quindi l’appoggio degli uomini allora più influenti
a Roma: Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare,
un patrizio che era diventato il capo dei popolari
(sostenendo gli interessi dei plebei per ottenere l’allargamento
delle basi del potere favorendo allo stesso tempo i grandi commercianti, i
finanzieri e i cavalieri; a questa fazione si opponevano gli ottimati, “i migliori”: ristretto
gruppo di famiglie che rappresentavano la nobilitas,
alla quale facevano parte le antiche famiglie patrizie e quelle plebee più in
vista. Pompeo sosteneva questa fazione).

Nel 60 a.C. i tre strinsero un patto privato, noto
con il nome di primo triumvirato, in quanto indicava l’unione di tre (tres) uomini (viri)
a capo del governo.

La
guerra civile tra Cesare e Pompeo

Nel 53 a.C. Crasso era morto e si era quindi rotto
il triumvirato. Cesare, finita la sua campagna militare in Gallia, voleva
tornare a Roma e candidarsi al consolato. Il Senato, temendo che
Cesare portasse al potere i popolari, preferì sostenere Pompeo e lo elesse
unico console. Ordinò poi a Cesare di fare rientro a Roma come privato
cittadino, sciogliendo il suo esercito. Cesare rifiutò. Nel 49 a.C. si diresse
verso Roma e a capo delle sue truppe attraversò il fiume Rubicone,
che segnava il confine del territorio sacro di Roma. Era una vera e propria
dichiarazione di guerra contro il Senato e Pompeo. Questi, consapevole della
forza di Cesare, preferì lasciare Roma e fuggire prima nel Sud Italia e di lì
in Oriente, per avere il tempo di radunare un esercito. Cesare lo raggiunse e
lo affrontò a Farsalo, in Grecia. I pompeiani furono sconfitti e
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne ucciso dal re Tolomeo XIII, che credeva così di farsi amico Cesare. Questi,
invece, lo punì per il suo atto, lo depose dal trono e consegnò il regno alla
sorella Cleopatra.

Nonostante la sua politica mirasse a non scontentare
nessuno, una parte della classe senatoria non accettò il suo enorme potere,
considerandolo un pericolo per la repubblica. Così alle Idi di marzo del 44 a.C.,
mentre entrava in Senato, Cesare fu ucciso a pugnalate da un gruppo di
senatori.

Nel calendario romano le Idi erano
il tredicesimo giorno di ogni mese, ad eccezione dei mesi di marzo, maggio,
luglio e ottobre nei quali cadevano il quindicesimo giorno.

I senatori che avevano ucciso Cesare avrebbero
voluto il ritorno della repubblica, ma troppe cose erano ormai
cambiate nella società e nell’organizzazione politica di Roma. Cesare aveva
nominato come erede nel suo testamento il figlio adottivo (nonché suo
pronipote) Gaio Ottavio. Questi prese il nome del padre Gaio Giulio
Cesare Ottaviano e, deciso prima di tutto a vendicare la morte del
padre, si alleò con Marco Antonio, luogotenente di Cesare, e con un
altro generale, Marco Emilio Lepido.  Nel 43 a.C. i tre formarono il secondo triumvirato.

Marco Antonio si innamorò di Cleopatra, la sposò e
instaurò una monarchia di tipo orientale. La popolazione romana e
il Senato iniziarono a temere che Antonio volesse costituire un regno
indipendente, sottraendo a Roma le province orientali. Ottaviano capì che era
il momento di rompere il triumvirato per ottenere tutto il potere e, messo da
parte Lepido, dichiarò Antonio nemico di Roma. Radunò quindi un esercito,
raggiunse l’Egitto e si scontrò con Antonio ad Azio, nel 31 a.C. L’esercito egiziano,
nonostante fosse più numeroso, venne sconfitto. Antonio e Cleopatra fuggirono,
ma, inseguiti da Ottaviano, si tolsero la vita. Ottaviano rimaneva ormai
l’unico incontrastato dominatore di Roma. Con Cleopatra finì l’ultima delle
grandi monarchie ellenistiche, nate dalla spartizione dell’immenso impero di
Alessandro Magno.

L’Impero
a Roma

Tredici anni dopo la morte di Cesare, Ottaviano si
ritrovava unico erede del potere del padre adottivo e doveva scegliere quale
tipo di governo instaurare a Roma: la dittatura l’avrebbe portato
all’insuccesso, così come era capitato a Cesare, e anche il modello di monarca
orientale pensato da Marco Antonio non era ben visto dai Romani. Capì che
l’unico modo per non fallire era riproporre un governo basato sulle vecchie
istituzioni repubblicane, in modo da ottenere il consenso di tutte le
classi sociali. Il primo titolo che si fece attribuire fu infatti quello
di restitutor rei publicae, colui che restaura la repubblica.
In realtà ripristinò i comizi e i concili della plebe che, come in età
repubblicana, eleggevano tutti i magistrati. Le magistrature, però, diventarono
solo delle cariche onorifiche e persero del tutto i loro
poteri, che passarono nelle mani di Ottaviano. La scelta politica di Ottaviano
metteva quindi definitivamente fine alla repubblica, ma, per come
veniva proposta, appariva ai Romani una completa restaurazione delle
istituzioni repubblicane. Nel 27 a.C. il Senato attribuì a Ottaviano il titolo
di Augusto (cioè “degno di venerazione”). Con Ottaviano
comincia di fatto l’epoca imperiale.

Ottaviano abbellì Roma con nuovi templi e monumenti.
Uno tra i più importanti fu sicuramente l’Ara pacis, l’Altare
della pace, che Ottaviano fece costruire proprio al centro del Campo di Marte,
la piazza dedicata al dio della guerra. Con quest’opera ben visibile a tutti i
cittadini, Augusto si presentava come l’iniziatore di una nuova era di
pace dopo tanti anni di guerre.

Il sistema politico creato da Augusto rimase
invariato fino all’inizio del III secolo. Questo lungo periodo di stabilità
assicurò a tutta la popolazione dell’Impero pace e benessere. Un aspetto che,
però, Ottaviano non aveva curato e che diventò spesso motivo di tensione e di
conflitto era la successione. Come scegliere il successore di un’eredità così
importante? Augusto aveva capito che la successione dinastica,
ossia l’eredità di padre in figlio o tra membri della stessa famiglia, sarebbe
stato l’unico modo per evitare forti contrasti e garantire stabilità. Così dopo
di lui si succedettero imperatori della sua stessa famiglia, la dinastia
giulio-claudia, fino al 68 d.C., quando Nerone, l’ultimo
imperatore della dinastia, morì. La successione dinastica non rimase però una
regola fissa. Dopo un’altra dinastia, la dinastia flavia (69-96),
in cui l’Impero passò dal padre Vespasiano ai suoi due
figli, Tito e Domiziano, venne inaugurato, sotto
la spinta del Senato, che sperava così di controllare maggiormente la scelta
degli imperatori, il sistema dell’eredità per adozione: ogni
imperatore prima di morire aveva il compito di scegliere (e quindi di
“adottare”) il suo successore.

Durante l’Impero di Vespasiano fu progettato e
costruito l’Anfiteatro Flavio,
inaugurato nell’80 dal figlio Tito. Questo grandioso monumento, noto con il
nome di Colosseo per le sue
dimensioni enormi, poteva contenere 50 000 spettatori. Era destinato a ospitare
spettacoli per il popolo, come le lotte tra i gladiatori e le battaglie navali,
per le quali si riempiva di acqua il centro dell’anfiteatro.

Successore di Vespasiano fu il figlio Tito che
governò soli tre anni (morì per una forte febbre) con la stessa moderazione del
padre e si trovò costretto a fronteggiare disastri naturali quali l’incendio di
Roma e l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei, Ercolano e
Stabia; domò una grave rivolta a Gerusalemme a seguito della
quale fu distrutto il tempio e iniziò la diaspora degli Ebrei. 

Alla fine del III secolo d.C., dopo un lungo periodo
di crisi, salì al potere Diocleziano, che cercò di porre lo stato
sotto il suo totale controllo.

Convinto che i cristiani
fossero un pericolo per il bene dello Stato, nel 303 scatenò contro di loro una
lunga e sanguinosa persecuzione: furono distrutti i templi,
confiscati i beni delle chiese, bruciati i libri sacri e molti subirono la
condanna a morte.

Nel 312, alla fine di  lotte sanguinose, prese il potere Costantino.
Il primo provvedimento del nuovo imperatore fu l’editto di Milano del 313 d.
C., conosciuto anche con il nome di editto di tolleranza,
perché concedeva ai cristiani la libertà di praticare la loro fede. Il
cristianesimo fu posto sullo stesso piano del paganesimo e di tutte le altre
religioni dell’Impero. Tuttavia Costantino favorì in ogni modo i cristiani:
concesse loro privilegi, diede ai vescovi incarichi importanti nella cura
dell’amministrazione e della giustizia, dichiarò la domenica giorno di festa
obbligatorio e fece costruire numerose chiese. L’imperatore si era reso conto
che il cristianesimo era ormai molto diffuso, soprattutto nelle città, e
pensava che la fede in un unico Dio e una religione di grande forza potessero
rendere lo Stato più forte e stabile. Grazie alla libertà di culto il cristianesimo
si diffuse anche in zone molto lontane dell’Impero.

Alla morte di Diocleziano, inizialmente, l’impero
aveva due padroni, Costantino in Occidente e Licinio
in Oriente. Costantino aveva ottenuto la vittoria decisiva contro il
rivale Massenzio alle porte di Roma nel 312 d. C. , anno in
cui fece costruire l’arco di Costantino per commemorare la vittoria. Nel 324
d. C. riuscì a unificare l’impero ed essere unico
imperatore. La capitale non fu portata a Roma, ma fu costruita una nuova città
chiamata Costantinopoli che divenne la capitale; politica,
cultura ed economia gravitarono così a Oriente.

Negli anni successivi alla morte di Costantino il
numero dei cristiani aumentò rapidamente finché il cristianesimo divenne
la religione più diffusa tra gli abitanti delle città:
ovunque, soprattutto nelle regioni orientali dell’Impero, si formarono comunità
cristiane molto ben organizzate sotto la guida di un vescovo. La vittoria
definitiva del cristianesimo arrivò nel 379 d.C., quando divenne
imperatore Teodosio. Egli pensava che il cristianesimo e i vescovi
fossero un valido sostegno per rafforzare la propria autorità; per questo
motivo, con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., stabilì che il cristianesimo
fosse la sola religione ammessa
nell’Impero: venivano così vietate tutte le altre religioni e gli antichi
riti pagani, definiti «insani e dementi». Era la fine del paganesimo.

La
divisione dell’Impero romano e il crollo dell’Impero romano d’Occidente

Alla morte di Teodosio, l’Impero romano fu diviso in
due: l’Impero romano d’Oriente e l’Impero romano d’Occidente. Soprattutto
quest’ultimo fu preso d’assalto dai popoli germanici (Franchi, Angli e Sassoni,
Vandali, Burgundi, Visigoti e Unni) che in alcune zone dell’Impero arrivarono a
formare dei veri e propri insediamenti.

Tra il 406 e il 407 d.C. numerose tribù
germaniche, spinte dal popolo degli Unni, varcarono il Reno e
si riversarono in Occidente alla ricerca di nuove terre da abitare. Ormai
caduto in una crisi profonda, l’Impero d’Occidente non si risollevò più.
Nel 476 il generale di stirpe germanica Odoacre,
comandante della guardia imperiale in Italia, fu acclamato re dai soldati e
depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. Questa data segna
il crollo definitivo dell’Impero romano d’Occidente. Le invasioni barbariche determinarono,
così, la fine dell’Impero romano d’Occidente!

Da questo momento iniziano a formarsi i regni
romano-barbarici.

In Italia il re
degli ostrogoti venne, con il sostegno dell’imperatore d’Oriente, a
scacciare Odoacre (493). Teodorico era cresciuto nella corte
romana ed era grande ammiratore della civiltà imperiale. Non volle che goti e
romani si mescolassero, proibendo i matrimoni misti, ed ebbe cura di far vivere
pacificamente i due popoli, ciascuno con le proprie leggi. Lasciò ai romani l’amministrazione del regno
e riservò ai goti la difesa militare. La sede del re
ostrogoto era Ravenna che si
arricchì di monumenti, tra cui il Mausoleo
(tomba di Teodorico) , oggi patrimonio
mondiale dell’Umanità.

Alla morte di Teodorico in Europa troviamo in Oriente l’imperatore Giustino.
Suo successore, nel 527 d. C., fu il nipote, di bassa estrazione sociale, Giustiniano.
Il suo sogno è la restaurazione imperiale. Tale obiettivo si scontra
inevitabilmente con i goti in Italia, al termine di un continuo susseguirsi di
battaglie che frastagliano l’intera Europa troveremo una Roma completamente
distrutta e spopolata.

Giustiniano non seppe comprendere come, da un punto
di vista economico, l’impero si reggesse sull’Asia e sul Medio-Oriente,
piuttosto che sull’Italia. Alla sua morte il regno era parecchio indebolito.

Lasciò ai posteri la più completa e coerente
raccolta di diritto romana, il Codice, che trovò nell’Impero
d’Oriente e nell’Italia meridionale (sottoposta ai bizantini) una chiara
affermazione.

L’Impero romano d’Occidente era oramai crollato
sotto le spinte dei barbari, quello d’Oriente – l’impero bizantino – rimaneva ricco e forte. Costantinopoli, la capitale,
era la città più ricca e grande del Mediterraneo.

Distacco
tra Oriente e Occidente

Culturalmente tra bizantini e romani c’era un’enorme
distacco: i bizantini parlavano e scrivevano in greco, lingua che
l’Europa occidentale aveva completamente dimenticato. Inoltre, i bizantini si
consideravano gli unici continuatori della civiltà romana.

In campo religioso, nell’VIII secolo, i
vescovi di Roma si opposero alla distruzione delle sacre icone (immagini
sacre solitamente dipinte su tavola), ordinata dagli imperatori di
Costantinopoli che consideravano superstizioso il culto delle immagini. Questo
è l’inizio della rottura che avverrà tra le due Chiese nell’XI secolo.

L’Impero romano d’Oriente, separatosi
dall’occidente dopo la morte di Teodosio I nel 395 d.c. dovrebbe segnare la
fine dell’impero “romano” per sostituirlo con il termine
“bizantino”, da Bisanzio, l’antico nome della capitale Costantinopoli,
oggi Istambul.

L’Impero
bizantino, tra molte lotte, terminò nel 1453 con la conquista di
Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani guidati da Maometto II. Non fu
solo un cambiamento di dominatori ma un cambiamento di civiltà, ovvero una
retrocessione di civiltà.

                                                                                                                                 Prof.ssa E. Gurrieri

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