I tre mesi di vacanze dei docenti spesso ci sono (e sono anche di più) e se continuiamo a negarlo facciamo il gioco dei detrattori
Davvero non se ne può più: alcune pagine Facebook riproducono continuamente post e articoli sui tre mesi di vacanze dei docenti, che sarebbero troppi e che corrisponderebbero ad una interruzione dal lavoro che gli altri mestieri neppure si sognano. Dall’altra parte abbiamo la miriade di commenti indignati, di docenti che a gran voce rispondo: “Ma quali tre mesi?”, “E gli esami?”, “Io ho avuto il collegio il 30 di giungo!”, “Sono stata con la preside fino al 26 luglio!” (tutti commenti reali, copiati e incollati qui).
Forse, davvero, è ora di finirla con questa nenia, sia perché non ci porta da nessuna parte, sia perché negare l’evidenza non giova affatto a chi lo fa, e men che meno accresce la stima di chi guarda dall’esterno.
Chiariamo subito il punto in questione: i tre mesi di vacanza, nella maggior parte dei casi, ci sono, eccome. Anzi, se aggiungiamo le interruzioni di Pasqua e Natale, li superiamo abbondantemente.
Se il CCNL prevede un numero di ferie effettive pari a 32+4 giorni, di fatto, nella prassi, le cose stanno diversamente, perché non si lavora anche nei giorni non coperti dal periodo delle ferie: non ci sono lezioni (se non i corsi di recupero per alcuni), non ci sono, spesso, iniziative di formazione serie. Insomma, in teoria si sta in servizio, in pratica si sta a casa. E negarlo è senz’altro poco onesto.
Non serve tirare in ballo gli Esami di Maturità, o quelli a conclusione del I ciclo di istruzione, perché sappiamo benissimo (ma facciamo finta di non saperlo) che riguardano una percentuale modesta di docenti. Vuol dire che per le insegnanti della primaria e per quelli della secondaria che non sono coinvolti negli esami, la scuola (nella stragrande maggioranza dei casi) può dirsi conclusa al termine degli scrutini. Con le lezioni che terminano entro il 10 giungo, e con gli scrutini subito a seguire, già dal 12 giugno per molti iniziano le vacanze. Chi scrive conosce amici e colleghi che sono al mare dal 15 giungo.
Evitiamo pure la ridicolezza di nasconderci dietro il collegio, o massimo i due collegi, che dividono l’ultimo scrutinio dal 30 di giungo. Si tratta di 4-6 ore di presenza e non credo possa definirsi lavorare il presentarsi a scuola il 28 giugno dopo 15 giorni dall’ultimo consiglio di classe.
Il collegio di riapertura, poi, c’è in genere all’inizio di settembre. A me quest’anno toccherà il primo, ad un mio amico il 5 settembre. Nella secondaria di II grado possono esserci gli esami di recupero, circa due-tre mattinate, ma questo non accade nella primaria e nella secondaria di I grado. Le lezioni ricominciano il 12, o il 15.
Si tratta dunque di tre mesi di vacanza? Spesso sì, quindi, e si arriva a tre mesi e mezzo con le interruzioni di Natale (tra 10 e 15 gg) e di Pasqua (tra 5 e 7).
Tuttavia, restare fossilizzati su una simile questione svilisce il dibattito sulla scuola e sulla professione docente, che dovrebbe essere altro e più elevato.
Finché noi docenti asseconderemo questa questione, persino negando ciò che è evidente a tutti, non solo faremo i giochi dei detrattori del nostro mestiere, ma eviteremo anche di affrontare temi di gran lunga più importanti e decisivi.
Ad esempio, non diciamo quasi mai che i giorni di interruzione delle lezioni sono meno della media europea: i francesi, ad esempio (ma vale lo stesso per molti altri), non interrompono le lezioni per tre mesi di fila, ma lo fanno più volte nel corso dell’anno scolastico. Insomma, i giorni sono gli stessi, ma distribuiti diversamente all’interno dell’anno solare.
E vogliamo parlare una buona volta di aspetti qualitativi legati alla professione docente, e non solo quantitativi? Vogliamo parlare di risultati, evidenti e misurabili, oltre al semplice tempo impiegato in classe? Il mondo del lavoro va in questa direzione, non a caso in molti Paesi (persino in Giappone!) si è disponibili a decurtare la questione “tempo” a vantaggio del risultato (si pensi alla settimana di 4 giorni lavorativi proposta in molte aziende nipponiche).
Il discorso produttività, invece, riguarda la nostra scuola solo di striscio. Ci fa paura la valutazione, a vari livelli (si veda la repulsione, spesso solo pretestuosa, per le prove INVALSI, certo migliorabili ma indispensabili nella scuola dell’autonomia), e ci dà fastidio quando ci viene chiesto conto di ciò che facciamo.
Si tratta di una tendenza tipicamente italiana e di pochi altri (forse anche greca, ma certo mediterranea), che tende alla retorica idealista e accantona la prassi, il risultato, l’efficacia e l’efficienza (sebbene si tratti di principi richiamati di continuo nelle leggi e nei documenti).
I problemi dei docenti sono altri: la mortificazione stipendiale, l’orario di lavoro sommerso, l’importanza misconosciuta del ruolo sociale che ricopre, la sua preparazione, il controllo sui risultati, l’efficacia nella selezione e nel reclutamento.
Eppure, ma questo lo dicono ormai quasi tutti, in Italia abbiamo preferito la peggiore delle formule possibili: lo Stato dice ai docenti: “Io non vi rompo le scatole. Non vi controllo, non misuro la vostra efficienza, non vi valuto una volta assunti, non controllo se in classe lavorate o oziate; non faccio serie selezioni, ma di tanto in tanto vi faccio entrare a scaglioni con imbarazzanti sanatorie. In cambio, però, vi relego agli ultimi posti nella scala del prestigio sociale legato alla vostra professione, e vi pago da fame“.
Basti pensare che una banconista del CONAD (con tutto il dovuto rispetto), che ha a che fare con prosciutti e formaggi, percepisce più di una maestra della scuola dell’infanzia che ha a che fare con bambini!
E i docenti (capaci di indignarsi solo sui social) vissero tutti malpagati, scontenti, e impegnati a negare i tre mesi di vacanza sotto i post di Orizzonte Scuola.
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