Uno studio pubblicato su PLOS One ha analizzato per la prima volta la capacità di tessuti naturali, sintetici e misti di biodegradarsi nell’oceano, e i risultati sono stati sorprendenti: mentre quelli naturali e di cellulosa si sono dissolti nel giro di un mese, quelli sintetici – compresi quelli fatti della cosiddetta bioplastica come l’acido polilattico (PLA) – non si sono decomposti nemmeno dopo aver passato oltre un anno in acqua.
«I risultati evidenziano l’importanza di eseguire test standardizzati in grado di verificare se i materiali venduti come compostabili o biodegradabili lo siano davvero nell’ambiente naturale, e non solo in un contesto industriale», sottolinea Sarah-Jeanne Royer, coordinatrice dello studio.
Inquinamento da (bio)plastica. Si stima che al giorno d’oggi circa il 62 per cento dei tessuti (ovvero 68 milioni di tonnellate) sia di plastica o misto plastica, materiale che rimane nell’ambiente per decenni o anche secoli – senza contare che i tessuti sintetici contribuiscono all’inquinamento anche attraverso la dispersione di microfibre durante i lavaggi in lavatrice.
La bioplastica è un materiale prodotto a partire da risorse naturali come l’amido di mais o la canna da zucchero, venduta come potenziale soluzione all’inquinamento da plastica: il PLA, spesso etichettato come biodegradabile e compostabile, ne è la forma più diffusa.
Lo studio. Nel loro esperimento gli studiosi hanno analizzato dieci diversi tipi di tessuto, tra cui quelli in cellulosa a base di legno (come il lyocell o la viscosa), in cellulosa naturale (cotone), in bioplastica, in plastica a base di petrolio (polietilene tereftalato e polipropilene) e tessuti misti.
I tessuti sono stati sommersi nella superficie dell’acqua e a dieci metri di profondità dell’oceano, e gli studiosi li hanno esaminati ogni sette giorni. L’intero esperimento è durato 428 giorni.
Di “bio” c’è poco. Mentre i tessuti naturali e quelli in cellulosa si sono disintegrati più volte ogni 30-35 giorni, quelli a base di petrolio e quelli bio sono rimasti intatti fino alla fine dell’esperimento. Le fibre naturali si sono assottigliate con il tempo, mentre il diametro di quelle di plastica è rimasto invariato; anche l’impronta chimica ha subìto dei notevoli cambiamenti nei materiali in cellulosa, mentre non è mutata affatto in quelli sintetici.
Gli autori sottolineano che la bioplastica − venduta come materiale ecologico − e la plastica a base di petrolio rappresentano un’importante fonte di inquinamento, e bisognerebbe esplorare più a fondo il modo in cui questi materiali si comportano una volta dispersi nell’ambiente naturale.
«Il PLA, che si pensa sia biodegradabile perché ha il prefisso “bio”, non lo è affatto», sottolinea Dimitri Deheyn, uno degli autori.
E QUINDI? Quello che possiamo fare, nel mentre, è comprare meno vestiti (evitando il più possibile il fast fashion), optando per tessuti di miglior qualità e in materiali naturali, o scegliendo indumenti di seconda mano che favoriscano l’economia circolare.