Lettura espressiva e comprensione

Una lezione al parco per fare attività didattica e riflettere insieme sul significato delle emozioni, sviluppando la lettura espressiva e la comprensione.

Il tempo vola e senza che ce ne accorgiamo siamo arrivati a metà settembre! Ma possiamo godere ancora di alcune giornata extra di tiepido sole e organizzare quindi una lezione al parco, per sviluppare lettura espressiva e comprensione.

La lettura consigliata è “Il postino delle bambole”, tratto da Kafka e la bambola viaggiatrice di Jordi Sierra i Fabra, Salani 2016.

Si tratta di un brano che riporta un aneddoto legato agli ultimi anni della vita di Franz Kafka.

Durante una delle sue solite passeggiate al parco, l’anziano e burbero scrittore nota una bambina tutta sola che piange. Si avvicina, non senza timore, e scopre che la piccolina ha perso la sua bambola. Spinto dal desiderio

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L’angoscia, certo, ma anche un lato solare, un figlio mai conosciuto e molti struggenti amori. E tuttavia una sola fedeltà: alla letteratura

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Da lui emanava una potenza insolita che non ho più incontrata. Non pronunciava mai una parola insignificante… Nonostante la timidezza, era considerato da persone eminenti un essere eccezionale”. Così tramanda Max Brod, autore di una prima biografia di Kafka e suo grande amico. Kafka invece la vedeva diversamente. Questo l’autoritratto che delineò in una lettera (mai spedita fortunatamente) al futuro suocero, padre della fidanzata Felice Bauer, la destinataria di lettere straordinarie, considerate parte dell’opera e fondamentali per capirne la personalità: “Sono un uomo chiuso, taciturno, poco socievole, malcontento, senza che ciò costituisca per me un’infelicità, perché è soltanto il riflesso della meta. Tutto ciò che non è letteratura mi annoia e provoca il mio odio, perché mi disturba o mi è d’inciampo”. Per cui giustamente conclude che Felice “con me dovrà essere infelice”. Non che non aver spedito la lettera avrebbe salvato quel fidanzamento. Franz non era fatto per il matrimonio e di fedeltà ne conosceva una sola, alla letteratura appunto.Le donne però s’innamoravano di lui, della sua fragilità e della sua bellezza scarna, dei suoi occhi chiari, della sua imprendibilità anche, probabilmente. E non solo le donne. Ne erano affascinati i colleghi intellettuali perché, come scrive Milan Kundera in Praga, poesia che scompare, pubblicato ora da Adelphi, quella città già negli anni Venti “fu uno dei centri più dinamici del pensiero e della sensibilità moderni”. Vi si muovevano personalità come Franz Werfel, Egon Erwin Kisch, Jaroslav Hasek, Vladimir Holan, cui sarebbe seguito negli anni Trenta il Circolo linguistico che inventò lo strutturalismo. E poi c’era il musicista Leós Janácek, fervente militante antiaustriaco, “insieme a Kafka, la più grande personalità dell’arte moderna del suo paese”, scrive Kundera che ricorda come lo stesso Brod condusse “a favore di questo compositore screditato e geniale, una battaglia così appassionata e importante che Kafka non ha esitato a paragonarla a quella degli intellettuali francesi per Dreyfus”.Ma non è per questo che Kafka esercita nel tempo un fascino intramontabile e potente, e neppure probabilmente – sempre citando Kundera – perché fu “il primo a realizzare la fusione alchemica di sogno e realtà (non ancora postulata dai surrealisti), a creare un universo autonomo dove il reale sembra fantastico e dove il fantastico smaschera il reale”. Non è per questo che il suo nome è diventato un formidabile aggettivo e parlano di “situazione kafkiana” anche quelli che non l’hanno mai letto, ma che sanno per sentito dire delle sue perenni indecisioni sentimentali e delle tribolazioni come impiegato di un Istituto di assicurazioni. Nessuno, nemmeno Proust si direbbe, è entrato così fortemente nella fantasia e nel linguaggio delle persone. Con la parola kafkiano s’intende un sentimento di minaccia indecifrabile, un senso enigmatico di disagio nello stare al mondo, e di pericolo. Il 3 giugno si celebra il centenario della morte e non si contano gli omaggi, le trasmissioni radiotelevisive a lui dedicate, gli articoli commemorativi, convegni e nuovi libri che escono sulla sua figura.

L’editore Clichy si è affidato per raccontare il grande praghese ai geniali fumetti dell’illustratore viennese Nicolas Mahler con A tutto Kafka: dai difficili rapporti con il padre, a quelli annoiati con l’ebraismo (“Che cosa ho in comune con gli ebrei? Neppure con me stesso ho quasi nulla in comune”); da quelli ottimi con il canottaggio (possedeva un sandolino con cui andava su e giù per la Moldava) a quelli complicati con le donne: “Siamo entrambi sposati” scrive a uno dei suoi grandi amori, la giornalista Milena Jesenská, per dimostrarle l’impraticabilità della relazione, “tu a Vienna, io a Praga con l’angoscia, e non solo tu, ma anch’io, trasciniamo invano il nostro matrimonio”. Fino all’ultima opera, Il digiunatore, della quale per la prima volta non è insoddisfatto (la definisce “sopportabile”).Il Saggiatore ha portato invece in libreria (oltre alla riproposta delle opere in nuove traduzioni) Gli anni della consapevolezza, dal 1915 al 1924, terzo volume della biografia monumentale – e splendida nella scrittura – di Reiner Stach nella traduzione del filologo (e kafkologo) Mauro Nervi. Gli altri volumi sono I primi anni e Gli anni delle decisioni. Sembra incredibile che una vita breve come quella che toccò a Kafka, nato a Praga il 3 luglio 1883, morto quarantunenne in una casa di cura a Kierling (Vienna) il 3 giugno del 1924, una vita scarna di avvenimenti e dove la tisi venne a bloccare non solo i propositi matrimoniali, del resto coltivati controvoglia, ma anche i viaggi che avrebbe intrapreso con gioia, sembra incredibile che Stach abbia trovato tanto materiale per i suoi tre corposissimi volumi. Ma è una biografia che non si limita a raccontare i fatti e a compulsare documenti. E’ appassionante perché riesce a interpretare e approfondire anche la più piccola traccia, ipotizza e trae conseguenze insieme al lettore, scopre in una cartolina, cui altri magari non hanno dato la minima importanza, la chiave per decrittare comportamenti. Sorprende, semmai, che Stach non faccia parola del fantomatico figlio di Franz, di cui lui probabilmente non seppe mai nulla, vissuto solo sette anni, dal 1914 al 1921, che lo scrittore avrebbe avuto da uno dei suoi grandi amori naufragati, Grete Bloch, finita poi in un lager nazista come altre donne ebree della sua vita, da Milena alle sorelle.

Eppure Roberto Calasso, grande cultore del praghese, in una pagina di Memè Scianca (Adelphi) ne ha rivelato, per conoscenza diretta, la reale esistenza. Frau Bloch, infatti, era stata amica dei genitori di Calasso e della sua madrina e a loro aveva confidato la segreta, dolorosa maternità, oltre ad avergli affidato una valigetta piena di lettere di Kafka, prima di andare a morire in una camera a gas.E’ stato Felix Guattari nelle brevi riflessioni di Sessantacinque sogni di Franz Kafka e altri scritti (Orthotes) a parlare di “effetto Kafka”, per spiegare “questo fenomeno probabilmente unico, quanto a intensità e persistenza, nella storia della letteratura moderna”. Dice il filosofo francese: “L’effetto enigmatico, l’ambiguità permanente generata dai testi di Kafka dipende, secondo me, dal fatto che essi scatenano nel lettore, parallelamente al loro livello di discorso letterario manifesto, un lavoro di processo primario attraverso il quale riescono a esprimersi le potenzialità inconsce di tutta un’epoca. Di qui la necessità, per rendere conto di questa dinamica, di non isolare i dati letterari da quelli biografici e storici”. E in effetti, quando si parla dello scrittore, non si può evitare di parlare dell’uomo. Per esempio le Lettere (a Felice e a Milena e ad altre), non sono solo “il suo primo grande capolavoro”, secondo Guattari, ma la reale “presa di possesso epistolare di una donna che inizialmente è quasi sconosciuta e che si finisce per sedurre e imprigionare a distanza, fino a turbarla gravemente”. E che la vita sia in lui inseparabile dalla letteratura lo confermano Marco Rispoli e Luca Zenobi nell’introduzione a Un altro scrivere, epistolario di Kafka e Max Brod, riproposto ora da Neri Pozza: “La tendenza a fare di ogni lettera l’occasione per creare un brano letterario, attraverso un processo in cui ogni cosa, ogni esperienza – e da questo non sono esclusi il proprio corpo e la propria persona – diventa segno e metafora”. Kafka ne era perfettamente consapevole. In quella famosa lettera a Felice scrisse (perché non ci fossero dubbi?): “Io sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro”. Ancora un ritratto viene da Isaac B. Singer nel racconto Un amico di Kafka (Adelphi) quando fa dire al protagonista: “Desiderava ardentemente l’amore e lo fuggiva. Scriveva una frase e subito la cancellava …voleva essere ebreo, ma non sapeva come si faceva. Voleva vivere, ma non sapeva come fare nemmeno quello”.A indagare  l’enigma che l’autore del Processo continua a rappresentare, ci sono adesso anche i nuovi libri di due narratori italiani, Mauro Covacich, triestino del 1965, e Giorgio Fontana, lombardo del 1981. Covacich nel suo Kafka (La Nave di Teseo) stabilisce un vero corpo a corpo, appassionato e impetuoso, con chi già a vent’anni sosteneva: “Abbiamo bisogno di libri che ci travolgano come una disgrazia… un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi”. Come non condividere? Illustra Covacich: “La vera sincerità non è raccontare una cosa aderente ai fatti, la vera sincerità, quando scrivi, è mettersi in gioco, sempre, fino all’ultimo giorno, totalmente”.

E anche: “L’opera d’arte non è un fatto, meno che meno un oggetto (un libro), l’opera d’arte è un processo. E’ il risultato di una ricerca personale e solitaria, che tuttavia prende senso solo dall’ascolto di un popolo, sia esso di topi o di umani, poco importa”, e il riferimento è allo straordinario racconto finale Josefine, la cantante, o il popolo dei topi, incarnazione della figura di un’artista, della sua voce sgraziata che pure riesce ad ammaliare. E perché ammalia quel suo “fischiettare”, in fondo identico al fischiettare di tanti altri topi? Qual è la magia dell’arte? Resta un mistero “quella grande impressione che ella lascia in chi la ode cantare”, scrive Franz. Ed è un mistero che Josefine, come qualsiasi artista, tenga tanto a essere apprezzata e poi sia “lei stessa a sottrarsi al canto e a distruggere il potere che si era conquistata sugli animi”. Ma il suo dovere l’ha fatto: ha dato voce a un popolo, all’inconscio agitarsi di pensieri e paure che non arrivavano a essere dette. Ora può tornare nell’ombra, e persino essere dimenticata. E’ un destino che Kafka sente suo, anche se lui non sarà dimenticato.E non lo sarà finché avremo voglia di leggerlo, non perché si deve, ma per “posare la testa sul suo petto”. Splendida immagine che lo stesso Franz usò a proposito di Strindberg e che Giorgio Fontana evoca nelle prime pagine del suo Kafka. Un mondo di verità (Sellerio). Ancora una volta torna l’idea forte della verità interiore che è l’unica cosa che valga la pena di comunicare. In una lettera a Brod leggiamo: “Forse c’è anche un altro modo di scrivere, io conosco solo questo, nella notte, ogni volta che la paura non mi fa dormire, conosco solo questo”. Eppure Fontana ci mette in guardia: non crediamo solo a questa cupezza. C’è un Kafka leggero e spiritoso, comico (quasi) sempre, anche se in modo amaro. C’è addirittura un Kafka solare, dice Fontana (e ha ragione), quello sapeva scherzare e si divertiva a fare il gioco delle ombre cinesi con le mani e che una volta regalò a una governante per il compleanno un ombrello avendo prima appeso alla punta di ogni stanga una caramella, quello che una volta incontrò in un parco una bambina in lacrime perché aveva perso la bambola e s’inventò che quella bambola era solo andata a vedere un po’ di mondo: gli aveva appena scritto una lettera! E da quel giorno per tre settimane Franz scrisse le lettere della bambola che consolarono la bambina. E c’è il Kafka innamorato che, prima di darsela a gambe, si rotola nell’erba con Jesenská e le scrive la celebre frase (rielaborata poi da David Grossman come titolo di un suo romanzo): “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”. 

Ma Fontana più che gli amori di Franz (anche quelli) ne ripercorre l’opera, dall’uomo che si ritrova scarafaggio, chiamiamolo così, nella Metamorfosi, ai tre romanzi incompiuti, Il disperso, Il processo, Il castello, ad alcuni racconti memorabili, Nella colonia penale, Il messaggio dell’imperatore, Un medico di campagna, La condanna… Lo rilegge anche attraverso le parole di altri, da Kundera a Günther Anders a Walter Benjamin, per arrivare poi soprattutto lui pure a un personale corpo a corpo, perché non è possibile essere uno scrittore contemporaneo senza aver fatto questo affondo, ilare e doloroso, nella vertiginosa scrittura kafkiana. K. è infatti uno di quei narratori che divide il tempo in due: “il tempo prima e il tempo dopo di lui” ed è impensabile raccogliere oggi il testimone della scrittura senza misurarsi con l’“assalto al limite” che era per lui la letteratura (lo disse nei Diari). Può sorprendere che quei diari, nel 1921, come si legge in un’altra biografia critica, Kafka. Una battaglia per l’esistenza di Klaus Wagenbach (Il Saggiatore), Franz decise di consegnarli a Milena, pur avendo già rotto il rapporto d’amore. Ma la stimava moltissimo, tanto che le aveva già dato i manoscritti del Disperso e della Lettera al padre. E questo è un dettaglio che modifica l’idea dei suoi rapporti soltanto disastrosi con le donne. Nei mesi finali della sua esistenza riuscì a stabilire una relazione di convivenza con l’ultimo amore, Dora Diamant. Con la sorella Ottla, più giovane di lui di nove anni, ebbe un rapporto di reciproca complicità. Nel marzo del 1924, le sue condizioni erano peggiorate, e la rigida scelta di una dieta vegetariana non aiutava. Stava scrivendo il racconto di Josefine, colei che vuole essere cancellata. Franz vuole essere cancellato. Si sente uno scrittore fallito, uno che ha lasciato tutto in sospeso. In aprile viene trasportato in sanatorio. Gli sono vicini Dora e l’amico medico e scrittore Robert Klopstock. Max Brod va spesso a trovarlo e a lui chiede di distruggere ogni riga non ancora pubblicata. Glielo ripete anche per lettera: “Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si trova nel mio lascito, diari, manoscritti, lettere, di altri e mie, disegni ecc., bruciarlo interamente e senza leggerlo, come anche tutti gli scritti e i disegni che tu, o altri a cui tu dovessi chiederlo a nome mio, possedete”. Nessuno lo ha fatto. Per fortuna.

Cento anni senza Kafka, ma pieni del suo realismo comico

Il padre, l’autorità, lo straniero, la prigione… Eppure non era solo “lo scrittore della colpa e del vuoto”. Un’altra chiave di lettura 

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“Una mia grande frustrazione quando cerco di leggere Kafka con gli studenti è che è impossibile far loro capire che Kafka è comico. Né tantomeno apprezzare il modo in cui questa comicità è intimamente legata alla potenza dei suoi racconti”. Questo diceva David Foster Wallace nello scritto dall’autoironico titolo: Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente (1999). Wallace sosteneva che gran parte dell’umorismo di Kafka non è affatto sottile, o meglio è antisottile: “La comicità di Kafka dipende da una sorta di letterarizzazione radicale di verità solitamente trattate come metafore. (…) E’ sempre anche tragica, e questa tragicità è sempre anche una gioia immensa e riverente. (…) Il suo in definitiva è un umorismo religioso eroicamente sano”. La conclusione di Wallace è che le storie di Kafka sono una specie di porta che si apre verso l’esterno: e questo è il comico. Del resto Philip Roth progettava di portare Il castello di Kafka sullo schermo, interpretato da Groucho Marx. Aveva ragione: sarebbe stata la trasposizione giusta.

Questa della comicità è la chiave con la quale leggo anch’io Kafka, perché, d’istinto, così lo lessi la prima volta, rimanendone io stesso sorpreso, all’età di quattordici anni. Ricordo che mia madre, che mi aveva passato un po’ scettica la sua copia dei racconti con la copertina nera e la muraglia cinese in rosso stampata sopra, rimase assai perplessa, e forse anche un po’ preoccupata, quando mi sentì sghignazzare durante la lettura della Metamorfosi. Le mie successive, e più sistematiche, letture di Kafka mi confermarono in questa impressione. Anche perché, negli anni Ottanta, i miei frequenti soggiorni nell’Europa centrale mi fecero sentire che il mondo rappresentato da Kafka si era fatto, in quelle realtà, con gli anni, sempre più tragicomico. L’incubo grottesco del cosiddetto “socialismo reale”, grazie a lui, appariva chiaramente comico. Per molti dei miei amici a Varsavia e Praga, Kafka costituiva una lucida chiave di lettura della realtà e la proposta di un salutare e resistenziale sghignazzamento. E infatti i suoi libri erano introvabili e, in Unione Sovietica addirittura proibiti. 

Il 27 e 28 maggio del 1963, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Kafka, si tenne a Liblice, vicino a Praga, un poco ortodosso convegno di studi sulla sua opera che vide come protagonisti alcuni di quelli che sarebbero stati animatori della Primavera di Praga, e poi costretti all’esilio dopo l’invasione dei carri armati russi (Cfr. AA VV, Franz Kafka. La vita e l’opera negli studi marxisti degli anni ‘60, a c. di Saverio Vertone, De Donato, Bari 1966). 

Come ha giustamente scritto in seguito Milan Kundera:  “Credo che il modo, non soltanto mio, ma dei cechi in generale, di capire Kafka è sicuramente diverso da quello vostro. Per noi Kafka è uno scrittore realistico perché la sua è una visione lucida della realtà. Nessuno di noi legge i suoi libri come se fossero delle allegorie. Inoltre siamo molto più sensibili al suo humour. La specificità dello humour di Kafka è che una certa comicità accompagna l’uomo in tutte le sue azioni”. 

Kafka “umorista realistico”? Ricordo che il dolce professore di Letteratura ungherese all’Università di Firenze e scrittore di teatro, Miklos Hubaj, raccontò una volta che, dopo il fallimento della rivolta di Budapest del 1956, molti intellettuali furono prelevati da casa dalla polizia, bendati e portati in camion in un viaggio di diverse ore, durante le quali tutti erano convinti che, alla fine, li avrebbe attesi la fucilazione. Quando i camion si fermarono, li fecero scendere e tolsero loro le bende, si trovarono di fronte un paesaggio montano (erano in Romania) sovrastato da un enorme castello-prigione. Fu allora che il filosofo Georgy Lukàcs disse a voce alta, provocando una liberatoria risata di tutti: “Ho sempre sostenuto che Kafka era uno scrittore astratto e piccolo borghese. Ora ho capito che era un grande scrittore realista!”.

E ricordo anche che quando, nel febbraio del 1988, vidi al Thèatre du Gymnase di Parigi, lo splendido adattamento e messa in scena del regista inglese Steven Berkoff, de La metamorfosi di Kafka, con Roman Polanski nel ruolo principale di Gregorio Samsa, Polanski, sostenne di scorgere da sempre nell’opera dello scrittore praghese una vena neanche tanto nascosta di comicità. E aggiunse: “Questa comicità sfugge completamente a uno spettatore non est europeo, abituato, o forse condannato, dalla scuola e da svariati libri, a considerare Kafka esclusivamente come lo scrittore della colpa e del vuoto”. 

Ma c’è un breve racconto di Kafka, intitolato Un vecchio foglio (Ein altes Blatt), originariamente scritto e pubblicato nel 1917, che, soprattutto di questi tempi, ha qualcosa di inquietante e niente affatto comico. Kafka lo compose nel pieno della guerra che stava portando al definitivo dissolversi dell’impero austro-ungarico, in una Praga paralizzata dalla fame e dalla mancanza di carbone. Però, in una lettera al suo editore Kurt Wolff (datata 7 luglio 1917), Kafka scrisse: “In questo inverno tutto mi è stato un poco più facile. Le invio qualcosa fra gli scritti utilizzabili nati in questo periodo, 13 prose. L’insieme è assai lontano da ciò che in realtà voglio”. Queste prose confluiranno nella raccolta Un medico di campagna (Ein Landartz), pubblicata probabilmente nel 1920.

L’inizio del racconto è un’amara denuncia della situazione politica da parte dell’io narrante, un calzolaio con bottega nella piazza dove si affaccia il Palazzo dell’imperatore: “Sembra che molto sia stato trascurato nella difesa della nostra patria. Finora non ce ne siamo curati e ci siamo dedicati al nostro lavoro; ma gli eventi degli ultimi tempi ci preoccupano” (uso la traduzione di Andreina Lavagetto nel volume Franz Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Feltrinelli 1991, pp. 158-160). 

La piazza, improvvisamente e incomprensibilmente, è stata occupata da una folla di nomadi provenienti dal nord. Si sono accampati lì, fanno rumore e sporcano. Con loro non si può parlare perché non conoscono la “nostra lingua”. E la loro non si può dire che sia una lingua: “Fra loro si intendono come fanno i corvi. In continuazione si sente questo gridare di corvi. Il nostro modo di vivere e le nostre consuetudini sono loro altrettanto incomprensibili quanto indifferenti (…). Spesso fanno smorfie: allora gli si rovesciano gli occhi e gli esce la schiuma dalla bocca, ma con questo non vogliono dire nulla né incutere spavento; lo fanno perché è il loro modo di fare. Quello che gli serve, se lo prendono”. 

Un po’ alla volta gli stranieri prendono, incontrastati, il controllo della città. ll senso di impotenza dinanzi alla loro occupazione, e alla necessità di nutrirli per tenerli buoni, cresce col procedere del racconto, fino all’episodio dell’assalto al bue vivo del macellaio che viene sbranato e divorato crudo, mentre l’Imperatore, forse, guarda mestamente dalla finestra del suo palazzo. Il finale del racconto rimane aperto, ma contiene una sorta di amara presa di coscienza della classe media: “‘Cosa accadrà?’ ci chiediamo tutti. (…) A noi artigiani e commercianti è affidata la salvezza della patria; ma noi non siamo all’altezza di un simile compito; né mai ce ne siamo vantati. Si tratta di un malinteso; e questo malinteso è la nostra rovina”.  

Così, cento anni fa, Kafka descrisse perfettamente la paura dello straniero, la sua trasfigurazione in un mostro (al quale non si riconosce nemmeno il diritto ad avere una lingua umana) e il disagio e la frustrazione dei bottegai dinanzi alla latitanza dello Stato. L’uomo medio (rappresentato qui dal calzolaio e dal macellaio) soffre l’impotenza muta dell’Imperatore e desidera l’“uomo forte” che lo difenda dagli estranei e riporti la “normalità”. Il silenzio dell’Imperatore e del potere che lascia a sé stessi i cittadini, è la manifestazione e la conseguenza di ciò che, alcuni decenni prima, con l’avvento della società di massa, è accaduto quando è andata in frantumi l’autorità dei padri. 

La raccolta di racconti, che contiene Un vecchio foglio, doveva, nei desideri di Kafka, essere dedicata a suo padre. Ma, proprio nell’autunno del 1919, Kafka scrisse una Lettera al padre (Brief an den Vater,  trad. it. F. Kafka, Lettera al padre, Feltrinelli, 1991, pp.75-95.) che, com’è immaginabile, non venne mai consegnata al destinatario. Si tratta di un testo bellissimo e prezioso per capire come fossero i “padri patriarcali” e la crisi di un certo tipo di autorità che garantiva una certa coesione sociale. Kafka, inizialmente, descrive il padre come una specie di dio, che lo sovrasta anche dal punto di vista fisico, e gliene dà ripetutamente atto: “Tu eri per me la misura di tutte le cose”; “era già sufficiente a schiacciarmi la tua sola immagine fisica”; “come padre sei troppo forte per me”; “mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze”. La diversità tra di loro è la fonte del dolore (“eravamo così pericolosi l’uno per l’altro”) e di una situazione insostenibile (“la sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in gran parte dalla tua influenza”). 

Però quell’autorità, fortunatamente!, non regge più al confronto con il mondo moderno, dove un figlio, avendo la possibilità economica di studiare, si emancipa e non riesce più (nonostante gli voglia bene) a sottostare a un’autorità eccessiva e indiscutibile (“ai miei occhi hai l’aspetto enigmatico dei tiranni”). La vergogna e le umiliazioni diventano insopportabili per un figlio ormai adulto e persino la paura della violenza fisica irrilevante: “Le continue minacce produssero una sorta di indifferenza; e la certezza di non essere picchiati era diventata, col tempo, più sicura”. Caduta la maschera di un’autorità arcaica e insostenibile, agli occhi del figlio appare una figura meschina (come lo sono sempre i dittatori quando vengono detronizzati): “Cominciai ben presto a osservare e a rilevare in te alcuni lati ridicoli, li elencavo e li esasperavo”. 

Il vecchio potere e la tradizionale autorità paterna appaiono ancronistici e grotteschi, ma provocano, nel vuoto che lasciano, un profondo disagio: “Avevo perso la fiducia in me stesso sostituendola con un immenso senso di colpa”. Franz Kafka vive l’inizio di un tragicomico periodo d’incertezza e immaturità che non è ancora finito. Il suo calzolaio ha paura di tutto ciò che è diverso, lo sente come una minaccia, prova fastidio per la confusione, che accresce la sua insicurezza e il suo impotente senso di colpa: sogna il ristabilimento dell’ordine e la cacciata degli stranieri, senza saperne il prezzo. C’è ancora un malinteso sul male del mondo. 

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