John F. Kennedy lasciò un segno indelebile nella storia degli Stati Uniti: un ritratto del personaggio attraverso l’articolo “Il volto giovane dell’America” di Irene Merli tratto dagli archivi di Focus Storia.
Salto generazionale. L’8 novembre 1960 il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy, a soli 43 anni, vinse le elezioni americane battendo Richard Nixon, vicepresidente uscente. Alla Casa Bianca arrivava il più giovane presidente della storia degli Stati Uniti. E il primo cattolico, di origine irlandese. Ai tempi, un fatto che doveva sembrare incredibile in un Paese a larga maggioranza protestante, in cui il monopolio politico era sempre stato nelle mani della parte wasp (white anglo saxon protestant) della nazione. Si trattava di un salto generazionale ed epocale. Senza quello strappo, un afroamericano – Barack Obama – non avrebbe potuto vincere la corsa presidenziale, 48 anni dopo.
OTTIMISMO. JFK si impose per un soffio (49,72% dei voti contro il 49,55% di Nixon), ma per gli Stati Uniti fu una svolta profonda: il Paese fece un balzo in avanti, svecchiò la sua immagine, il suo linguaggio, trovò un’icona meravigliosamente telegenica (il duello Kennedy-Nixon fu il primo a svolgersi in tivù) e inaugurò un mito che resiste ancora, la visione di un mondo giusto, in pace, prospero, pieno di speranza, di un leader che aveva una dote rara come l’oro: sapeva infondere ottimismo. E l’America ne aveva bisogno.
NUOVA FRONTIERA. JFK fece appello a un’intera generazione, all’America giovane del 1960, con una retorica enfatica e travolgente, per attuare il suo progetto di Nuova Frontiera: una sfida alla quale tutti erano chiamati a dare il proprio contributo. “Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”: con queste celebri parole concluse il suo discorso di insediamento, il 20 gennaio 1961, dopo aver prestato giuramento come 35° presidente degli Stati Uniti.
«La Nuova Frontiera di cui Kennedy parlava si attagliava felicemente alle aspettative dell’America di allora», spiega Paolo Colombo, docente di Storia delle istituzioni politiche e di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano. «Era un mix di infinite componenti di un mondo in arrivo, fatto di nuove libertà, possibilità culturali, benessere da diffondere, scienza e tecnologia che avrebbero subìto un balzo fino alla conquista della luna. Aldilà di tutto non si può negare che JFK avesse capacità di visione e un’oratoria straordinaria».
PUNTI DEBOLI. A pochi mesi dall’inizio del mandato, JFK si trovò una grossa patata bollente tra le mani: l’affare della Baia dei Porci, il fallito tentativo della Cia di rovesciare il governo filorusso di Fidel Castro, voluto dal predecessore Eisenhower in piena Guerra fredda.
Kennedy non fermò, né smentì quella opaca operazione: anzi l’autorizzò. «È proprio nella politica estera che un presidente fatica di più a discostarsi da quanto deciso dai predecessori, perché la ragion di Stato è radicata e a lungo termine», spiega Mauro Canali, docente emerito di Storia contemporanea all’Università di Camerino e membro del comitato scientifico di Rai Storia. «Kennedy avrebbe voluto aprire un dialogo con l’Unione Sovietica, ma con questa vicenda partì male».
La crisi dei missili. Non parliamo poi di quando un satellite americano rilevò una base missilistica in costruzione a Cuba. JFK ordinò il blocco navale, mentre la flotta russa si dirigeva verso l’isola di Fidel. Per 13 giorni il mondo visse il più grave rischio di guerra nucleare di sempre. A cedere fu Krusciov, che al rifiuto di Kennedy di togliere il blocco ordinò alle navi sovietiche di tornare indietro.
Dialogo. Ma paradossalmente la grande paura dell’apocalisse atomica – e la voglia di pace che avevano sia JFK sia Krusciov (che aveva avviato la destalinizzazione) – fecero in modo che l’apertura tra le due superpotenze potesse concretizzarsi. «A fronte di reciproche rassicurazioni», continua Canali, «i sovietici garantirono di non usare mai più Cuba come base missilistica; Kennedy da parte sua garantì che non ci sarebbero più stati tentativi americani di rovesciare il governo castrista e, più segretamente, smantellò alcune basi missilistiche in Italia, Germania e Turchia».
In conclusione, JFK aveva mostrato i muscoli, perché non avrebbe potuto fare diversamente, ma allo stesso tempo aprì al dialogo e lasciò questa eredità dietro di sé. Eisenhower, invece, il presidente generale, era stato sempre sordo all’argomento e aveva autorizzato gli eccessi del maccartismo per sconfiggere il “pericolo rosso”. Metodi da cui Kennedy nei suoi meno di mille giorni di presidenza prese le distanze.
IN VIETNAM. Qualcosa di analogo accadde sul fronte asiatico, ma con esiti diversi. Eisenhower aveva mandato centinaia di consiglieri militari in Vietnam, ex colonia francese, per arginare i Vietcong filocomunisti e la Cina di Mao che premeva dal Nord. Kennedy qui rimase nel solco del suo predecessore. Anzi, aumentò di molto la presenza americana nel Vietnam del Sud (mandò altre 16mila unità), nel tentativo di dissuadere i Vietcong a invadere l’altra parte del Paese.
Dopo la sua morte, il suo vicepresidente e successore Lyndon Johnson trasformerà l’appoggio militare in intervento diretto.
PER I DIRITTI CIVILI. Fu dunque la politica interna il campo d’azione della Nuova Frontiera. JFK era un eroe di guerra, era stato ferito nel Pacifico. Perciò era credibile quando diceva che ogni cittadino era chiamato a mettersi in gioco per il proprio Paese. E quando si trattò di difendere i diritti degli afroamericani, non esitò a mandare l’esercito contro la guardia nazionale per garantire ai ragazzi neri di andare a scuola o sui bus, negli Stati razzisti del Sud. Si batté per riformare le leggi sui diritti civili, ignorate dai governatori e vanificate da provvedimenti locali che le rendevano inapplicabili. Nominare a capo della Giustizia americana suo fratello Bob fu un’aperta dichiarazione d’intenti: otto anni più giovane di John, Bob era l’intellettuale di famiglia e un paladino degli ultimi e degli emarginati.
CORSA ALLO SPAZIO. La presidenza Kennedy cambiò la storia americana anche da un altro punto di vista, spesso dimenticato: l’enorme spinta che diede alla ricerca aerospaziale. Il 12 settembre 1962, JFK dichiarò che entro il decennio un americano sarebbe andato sulla Luna e sarebbe tornato sano e salvo. «Quando pronunciò quel discorso, Gagarin aveva compiuto da oltre un anno il suo storico volo spaziale intorno alla Terra, mentre la ricerca americana arrancava», dice Mauro Canali. «Fu lui che decise di stanziare per la Nasa il 4% del budget federale, una cifra enorme, che fece una gigantesca differenza nella competitività americana».
Criticato. Subì contestazioni, gli diedero del millantatore, dell’incosciente, in tanti criticarono la montagna di denaro pubblico dirottata da altri obiettivi verso la Nasa. Ma nel 1969, dopo anni di primati spaziali sovietici, il primo uomo a camminare sulla Luna fu uno statunitense, che insieme ai due compagni tornò sano e salvo sulla Terra. JFK era già morto da sei anni (assassinato), ma quel successo era anche suo. Non a caso, il centro di lancio della Nasa, a Cape Canaveral (Florida) si chiama John F. Kennedy Space Center. «Se si poteva eleggere un cattolico di origine irlandese, qualsiasi cosa poteva accadere», conclude Paolo Colombo.
L’eredità. Il bel presidente con il physique du rôle adatto all’epoca televisiva, che aveva sposato la moglie perfetta, fotografato con la splendida famiglia e il dorato entourage nella loro villa di Hyannis Port o con i figli che giocavano nello Studio Ovale, non era un santo né un politico perfetto.
Ma lasciò un segno nella storia americana come pochi altri. E un vuoto che nessuno è ancora riuscito a colmare.
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L’uomo che ci ha dato la Luna