60 anni fa l’uccisione di Jfk

Il 22 novembre di 60 anni fa, nella centralissima Dealey Plaza di Dallas negli Usa, moriva per colpi d’arma da fuoco, a soli 46 anni, il 35° presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. 

Il motivo e i mandati di quella uccisione sono ancora rimasta nelle nebbie dei dubbi più inspiegabili dell’intera storia americana.

Democratico, discendente di una ricca famiglia della borghesia americana, laurea ad Harvard e una carriera politica folgorante, John Kennedy fu assassinato mentre attraversava, sulla limousine presidenziale con la moglie Jacqueline accanto, una piazza gremita di sostenitori entusiasti. 

Gli spari e la moglie che si getta sul marito per tentare di rianimarlo. Quelle immagini raccapriccianti hanno marcato la memoria di intere generazioni. Erano anche gli anni della guerra fredda e del confronto serrato con l’Unione sovietica di Krusciov.

Fu catturato un presunto cecchino, Lee Harvey Oswald, attivista castrista ed ex marine, e accusato della

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29 maggio 1917: oggi nasceva JFK

John F. Kennedy lasciò un segno indelebile nella storia degli Stati Uniti: un ritratto del personaggio attraverso l’articolo “Il volto giovane dell’America” di Irene Merli tratto dagli archivi di Focus Storia.

Salto generazionale. L’8 novembre 1960 il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy, a soli 43 anni, vinse le elezioni americane battendo Richard Nixon, vicepresidente uscente. Alla Casa Bianca arrivava il più giovane presidente della storia degli Stati Uniti. E il primo cattolico, di origine irlandese. Ai tempi, un fatto che doveva sembrare incredibile in un Paese a larga maggioranza protestante, in cui il monopolio politico era sempre stato nelle mani della parte wasp (white anglo saxon protestant) della nazione. Si trattava di un salto generazionale ed epocale. Senza quello strappo, un afroamericano – Barack Obama – non avrebbe potuto vincere la corsa presidenziale, 48 anni dopo.

OTTIMISMO. JFK si impose per un soffio (49,72% dei voti contro il 49,55% di Nixon), ma per gli Stati Uniti fu una svolta profonda: il Paese fece un balzo in avanti, svecchiò la sua immagine, il suo linguaggio, trovò un’icona meravigliosamente telegenica (il duello Kennedy-Nixon fu il primo a svolgersi in tivù) e inaugurò un mito che resiste ancora, la visione di un mondo giusto, in pace, prospero, pieno di speranza, di un leader che aveva una dote rara come l’oro: sapeva infondere ottimismo. E l’America ne aveva bisogno.

NUOVA FRONTIERA. JFK fece appello a un’intera generazione, all’America giovane del 1960, con una retorica enfatica e travolgente, per attuare il suo progetto di Nuova Frontiera: una sfida alla quale tutti erano chiamati a dare il proprio contributo. “Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”: con queste celebri parole concluse il suo discorso di insediamento, il 20 gennaio 1961, dopo aver prestato giuramento come 35° presidente degli Stati Uniti.
«La Nuova Frontiera di cui Kennedy parlava si attagliava felicemente alle aspettative dell’America di allora», spiega Paolo Colombo, docente di Storia delle istituzioni politiche e di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano. «Era un mix di infinite componenti di un mondo in arrivo, fatto di nuove libertà, possibilità culturali, benessere da diffondere, scienza e tecnologia che avrebbero subìto un balzo fino alla conquista della luna. Aldilà di tutto non si può negare che JFK avesse capacità di visione e un’oratoria straordinaria».

PUNTI DEBOLI. A pochi mesi dall’inizio del mandato, JFK si trovò una grossa patata bollente tra le mani: l’affare della Baia dei Porci, il fallito tentativo della Cia di rovesciare il governo filorusso di Fidel Castro, voluto dal predecessore Eisenhower in piena Guerra fredda.

Kennedy non fermò, né smentì quella opaca operazione: anzi l’autorizzò. «È proprio nella politica estera che un presidente fatica di più a discostarsi da quanto deciso dai predecessori, perché la ragion di Stato è radicata e a lungo termine», spiega Mauro Canali, docente emerito di Storia contemporanea all’Università di Camerino e membro del comitato scientifico di Rai Storia. «Kennedy avrebbe voluto aprire un dialogo con l’Unione Sovietica, ma con questa vicenda partì male».

La crisi dei missili. Non parliamo poi di quando un satellite americano rilevò una base missilistica in costruzione a Cuba. JFK ordinò il blocco navale, mentre la flotta russa si dirigeva verso l’isola di Fidel. Per 13 giorni il mondo visse il più grave rischio di guerra nucleare di sempre. A cedere fu Krusciov, che al rifiuto di Kennedy di togliere il blocco ordinò alle navi sovietiche di tornare indietro.

Dialogo. Ma paradossalmente la grande paura dell’apocalisse atomica – e la voglia di pace che avevano sia JFK sia Krusciov (che aveva avviato la destalinizzazione) – fecero in modo che l’apertura tra le due superpotenze potesse concretizzarsi. «A fronte di reciproche rassicurazioni», continua Canali, «i sovietici garantirono di non usare mai più Cuba come base missilistica; Kennedy da parte sua garantì che non ci sarebbero più stati tentativi americani di rovesciare il governo castrista e, più segretamente, smantellò alcune basi missilistiche in Italia, Germania e Turchia».
In conclusione, JFK aveva mostrato i muscoli, perché non avrebbe potuto fare diversamente, ma allo stesso tempo aprì al dialogo e lasciò questa eredità dietro di sé. Eisenhower, invece, il presidente generale, era stato sempre sordo all’argomento e aveva autorizzato gli eccessi del maccartismo per sconfiggere il “pericolo rosso”. Metodi da cui Kennedy nei suoi meno di mille giorni di presidenza prese le distanze.

IN VIETNAM. Qualcosa di analogo accadde sul fronte asiatico, ma con esiti diversi. Eisenhower aveva mandato centinaia di consiglieri militari in Vietnam, ex colonia francese, per arginare i Vietcong filocomunisti e la Cina di Mao che premeva dal Nord. Kennedy qui rimase nel solco del suo predecessore. Anzi, aumentò di molto la presenza americana nel Vietnam del Sud (mandò altre 16mila unità), nel tentativo di dissuadere i Vietcong a invadere l’altra parte del Paese.

Dopo la sua morte, il suo vicepresidente e successore Lyndon Johnson trasformerà l’appoggio militare in intervento diretto.

PER I DIRITTI CIVILI. Fu dunque la politica interna il campo d’azione della Nuova Frontiera. JFK era un eroe di guerra, era stato ferito nel Pacifico. Perciò era credibile quando diceva che ogni cittadino era chiamato a mettersi in gioco per il proprio Paese. E quando si trattò di difendere i diritti degli afroamericani, non esitò a mandare l’esercito contro la guardia nazionale per garantire ai ragazzi neri di andare a scuola o sui bus, negli Stati razzisti del Sud. Si batté per riformare le leggi sui diritti civili, ignorate dai governatori e vanificate da provvedimenti locali che le rendevano inapplicabili. Nominare a capo della Giustizia americana suo fratello Bob fu un’aperta dichiarazione d’intenti: otto anni più giovane di John, Bob era l’intellettuale di famiglia e un paladino degli ultimi e degli emarginati.

CORSA ALLO SPAZIO. La presidenza Kennedy cambiò la storia americana anche da un altro punto di vista, spesso dimenticato: l’enorme spinta che diede alla ricerca aerospaziale. Il 12 settembre 1962, JFK dichiarò che entro il decennio un americano sarebbe andato sulla Luna e sarebbe tornato sano e salvo. «Quando pronunciò quel discorso, Gagarin aveva compiuto da oltre un anno il suo storico volo spaziale intorno alla Terra, mentre la ricerca americana arrancava», dice Mauro Canali. «Fu lui che decise di stanziare per la Nasa il 4% del budget federale, una cifra enorme, che fece una gigantesca differenza nella competitività americana».

Criticato. Subì contestazioni, gli diedero del millantatore, dell’incosciente, in tanti criticarono la montagna di denaro pubblico dirottata da altri obiettivi verso la Nasa. Ma nel 1969, dopo anni di primati spaziali sovietici, il primo uomo a camminare sulla Luna fu uno statunitense, che insieme ai due compagni tornò sano e salvo sulla Terra. JFK era già morto da sei anni (assassinato), ma quel successo era anche suo. Non a caso, il centro di lancio della Nasa, a Cape Canaveral (Florida) si chiama John F. Kennedy Space Center. «Se si poteva eleggere un cattolico di origine irlandese, qualsiasi cosa poteva accadere», conclude Paolo Colombo.

L’eredità. Il bel presidente con il physique du rôle adatto all’epoca televisiva, che aveva sposato la moglie perfetta, fotografato con la splendida famiglia e il dorato entourage nella loro villa di Hyannis Port o con i figli che giocavano nello Studio Ovale, non era un santo né un politico perfetto.

Ma lasciò un segno nella storia americana come pochi altri. E un vuoto che nessuno è ancora riuscito a colmare.

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L’uomo che ci ha dato la Luna

Gli attentati ai presidenti Usa, prima di Trump

L’ex presidente Usa Donald Trump è sopravvissuto a un attentato durante un comizio elettorale in Pensylvania, Colpito all’orecchio da un cecchino si è subito rialzato. Ma non è certo il primo candidato alla Casa Bianca a subire un attentato: tra complotti, attentati,omicidi e maledizioni gli inquilini dello Studio Ovale non hanno mai avuto vita facile. Ripercorriamo la storia dei presidenti degli Stati Uniti feriti o uccisi attraverso l’articolo “Presidenti nel mirino” di Stefano Graziosi, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Il primo: Abraham Lincoln

Il 14 aprile del 1865, Abraham Lincoln, primo presidente repubblicano, subì un attentato in un teatro da parte del sudista John Wilkes Booth, alla fine della Guerra di Secessione. L’omicidio si rivelò concepito in modo da vendicare il Sud sconfitto: la morte di Lincoln ebbe gravi conseguenze politiche, originando una crisi istituzionale, dopo che il suo vice, il democratico Andrew Johnson, arrivò alla presidenza. Lincoln aveva scelto Johnson come vice proprio in un’ottica di pacificazione e inclusione verso i territori meridionali. Questo determinò un forte astio del Congresso (in mano ai repubblicani radicali) verso il nuovo presidente. Astio che, nel 1868, sfociò in un processo di impeachment nei suoi confronti.

Vendetta o complotto? James Garfield

Conquistata per pochi voti nel 1880, la presidenza del repubblicano James Garfield (1831-1881) fu una delle più brevi della Storia. Il 2 luglio del 1881, mentre si apprestava a prendere un treno alla stazione di Washington, fu infatti ferito da un colpo di revolver. Il presidente morì due mesi più tardi, in seguito a una lunga agonia. Si dice che si sarebbe potuto salvare se i medici avessero usato strumenti sterilizzati: la sua morte infatti fu dovuta principalmente a un’infezione.
Su quello che fu il movente dell’assassino, Charles Guiteau, si è detto un po’ di tutto. Sembra fosse convinto che Garfield avesse vinto le elezioni grazie a un suo discorso. Per questo, riteneva di dover essere adeguatamente ricompensato, almeno con una nomina ad ambasciatore. Nomina che il segretario di Stato James Blaine non gli concesse. Per questo Guiteau avrebbe deciso di vendicarsi, uccidendo il presidente. Crimine per cui fu punito con l’impiccagione. Ma anche all’epoca non mancarono tesi complottiste che individuavano nel vice di James Garfield, Chester Arthur, il vero mandante dell’attentato.

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10 cose che (forse) non sai sulle elezioni Usa

William McKinley: imprudenza fatale

Eletto per la prima volta nel 1896, il repubblicano William McKinley (1843-1901) portò avanti un programma economico di stampo protezionista e una politica estera espansionistica. Per la prima volta, gli Stati Uniti abbandonavano l’isolazionismo della vecchia dottrina Monroe (che sanciva la volontà degli Usa di non intromettersi nelle dispute internazionali), assumendo un atteggiamento “aggressivo” verso l’esterno.

In questo senso, il presidente guidò una guerra contro la Spagna che portò sotto l’influenza statunitense Porto Rico, le Filippine, Guam e Cuba.
McKinley fu rieletto nel 1900, ma grazie alla sua popolarità era sempre stato restio ad avvalersi dei servizi di sicurezza, così il 6 settembre dell’anno successivo, durante una visita a Buffalo, fu ucciso dall’anarchico Leon Czolgosz, punito poi con la sedia elettrica. L’improvvisa morte di McKinley catapultò alla presidenza il suo vice, Teddy Roosevelt che non aveva mai stimato granché il presidente, e che era stato messo alla vicepresidenza proprio dai vertici del Partito Repubblicano nell’intento di arginarne l’esuberanza politica. Le cose non andarono secondo i loro piani: perché iniziò, con lui, una delle presidenze più incisive della Storia americana.

J. F. Kennedy e la pista mafiosa

Nel 1963, il presidente Kennedy si trovava in una situazione difficile. Non godeva di grande popolarità, molte promesse erano state disattese e, nel Partito Democratico, iniziavano a esserci dubbi su una sua rielezione. Il 22 novembre di quell’anno, a Dallas, venne ucciso a colpi di fucile mentre si trovava a bordo della limousine del corteo presidenziale. A sparare fu Lee Harvey Oswald: operaio di simpatie sovietiche, fu arrestato nel giro di poche ore, per poi finire a sua volta ucciso, due giorni dopo, per mano di Jack Ruby. L’America era sotto shock: l’assassinio era avvenuto in diretta televisiva ed erano 62 anni che un presidente americano non veniva ucciso.Il successore, Lyndon Johnson, incaricò il capo della Corte Suprema, Earl Warren, di guidare una commissione di inchiesta, per fare luce sull’accaduto. Ma le polemiche non si placarono: molti non erano d’accordo sulle conclusioni della Commissione Warren, secondo cui Oswald avrebbe agito da solo. Nel 1976 la Camera dei Rappresentanti formò una nuova commissione in cui si stabilì che Oswald avesse agito nel contesto di una macchinazione più ampia. Anche i file declassificati nel 2017 dal presidente Donald Trump non hanno aggiunto molti tasselli al puzzle, eccetto il fatto che l’Fbi sarebbe stato allertato sulla possibilità che Oswald venisse ucciso dopo l’arresto, avvertimento stranamente ignorato.
Misteri e incongruenze non hanno fatto che alimentare le più disparate teorie complottistiche. Tra le più note la pista mafiosa. Il padre di JFK, Joe, era molto legato al gangster Sam Giancana. Anzi, secondo alcuni, JFK sarebbe riuscito a vincere le elezioni nel 1960 proprio grazie ai rapporti con la mafia, che gli avrebbe garantito l’appoggio di uno Stato decisivo come l’Illinois.

Tuttavia, in seguito, la malavita americana non avrebbe gradito le pressioni del fratello di JFK, Bob, ministro della Giustizia. Secondo altri, invece, dietro l’omicidio ci sarebbe addirittura il vicepresidente Lyndon Johnson: un machiavellico golpista, pronto a tutto pur di arrivare allo scranno presidenziale.

Gli altri attentati: una poltrona che scotta

Altri protagonisti della politica americana alla presidenza non ci arrivarono mai. Il fratello di JFK, Bob, si candidò alla nomination democratica nel 1968: vista la sua popolarità, era probabile che sarebbe stato lui a sfidare il repubblicano Richard Nixon nella corsa per la Casa Bianca, ma le cose andarono diversamente.
Il 5 giugno di quell’anno, dopo aver vinto le primarie in California, Bob venne freddato a colpi di revolver dall’immigrato giordano-palestinese, Sirhan Sirhan, mentre si trovava nell’Hotel Ambassador di Los Angeles. La motivazione addotta dall’assassino fu quella di voler punire il senatore per il suo appoggio a Israele nella Guerra dei sei giorni. Non mancò la tesi di un complotto, tirando in ballo una oscura manovra della Cia.
Quattro anni dopo, fu il segregazionista George Wallace, candidato alle elezioni di quell’anno, a subire un attentato che lo costrinse per sempre su una sedia a rotelle. Anche Ronald Reagan (eletto nel 1980), subì un attentato nel 1981.

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