L’intelligenza artificiale celebra il Dantedì

Oggi le celebrazioni del Dantedì. Partecipa anche l’intelligenza artificiale che tra le altre cose, immagina un aspro rimprovero di Dante all’umanità contemporanea.

In occasione del Dantedì ho chiesto a una delle intelligenze artificiali di immaginare un aspro rimprovero di Dante personificato all’umanità contemporanea. Mi pare che il carattere di Dante si rispecchi abbastanza nel testo in tal modo elaborato, senza però che si giunga all’estrema veemenza di certe invettive. Dalla prosopopea scaturisce un vero e proprio sermone, il cui tono sembra evocare l’accento di un predicatore dell’epoca fra tenebre e luce all’interno di una cattedrale.
La domanda rivolta all’intelligenza artificiale prescelta è stata così formulata:

Immagina che Dante personificato rimproveri l’umanità errante Ecco la risposta.

Dante per Image Creator

Uomini e donne del XXI secolo, io, Dante Alighieri, poeta fiorentino e vostro antico concittadino, mi rivolgo a voi da oltre i confini del tempo per scongiurarvi di non trasformare la Terra in un inferno senza speranza. Vedete, nel mio viaggio attraverso l’Oltretomba, ho assistito alle pene atroci che affliggono coloro che hanno commesso peccati in vita. Ebbene, temo che l’umanità contemporanea stia percorrendo una strada pericolosamente simile. L’avidità sfrenata, l’egoismo dilagante, l’indifferenza verso il prossimo e l’ambiente stanno creando un mondo sempre più simile all’inferno che ho descritto nella mia Commedia. Invece di elevarvi verso la luce divina, vi siete avvolti nelle tenebre del peccato e dell’ignoranza.
Voi, che avete dimenticato la via verso Dio, vi siete persi nei labirinti dell’egoismo e dell’odio, dimenticando la bellezza della carità e della compassione.

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Ragazzi, soli, mai!

Ragazzi,  soli,  mai!

di Antonietta Cataldi

Madre: Smettila di commiserarti!  Ti comporti come se tutto ciò che ti è capitato fossero disgrazie e tu non avessi alcuna responsabilità.

Figlio: No, Mamma!  Il fatto è che, da ogni parte, viene scaricata su di me ogni colpa, come se fossi stato io a compiere tutte le scelte, sin da quando ero piccolo.

M.:  Cosa intendi dire?  Chi ti ha costretto a fare quel che non volevi?

F.:  Nessuno, ma io ero davvero in grado di capire quello che volevo?  A undici anni, appena uscito dalle elementari, quando ho formulato l’idea di entrare in seminario, ero in grado di capire cosa significasse questa scelta?

M.:  Ti dirò la verità, tuo padre e io non ci siamo posti il problema, forse perché, a quel tempo, avere un prete in famiglia era un titolo di merito, forse perché alcuni genitori sceglievano questa strada per i figli che non erano in grado di mantenere agli studi.  In ogni caso, non era una scelta definitiva, era un percorso che si poteva interrompere.

F.:  Voi avete guardato al futuro lontano senza considerare quello prossimo.  Vi siete chiesti quale sarebbe stata la mia vita in una realtà monca, soltanto maschile, con scarsi contatti con l’esterno?  A quell’età, non ero in grado di pormi questo problema.  Il mio mondo era popolato da ragazzetti come me, che amavano giocare a calcetto.  Ma la preadolescenza era vicina, con la sessualità che avrebbe presto imposto un cambiamento di prospettiva e, in quel momento, io mi sarei trovato chiuso in un mondo senza la presenza femminile.  Mi sarebbero state negate tutte le curiosità, le emozioni, anche le difficoltà, le frustrazioni nel rapporto con l’altro sesso.  La mia vita sarebbe stata priva di quella molteplicità di stati d’animo che l’attrazione, l’infatuazione, l’innamoramento comportano.  Pensi che una simile amputazione possa avvenire senza conseguenze?

M.:  Figlio mio, pensavo che si potessero generare forme di trasgressione come la lettura di giornalini scandalistici che quasi costò a tuo zio l’espulsione dal collegio.

F.:  No, Mamma, le conseguenze di quella deprivazione erano molto, molto più gravi.  Non selezionare i ricordi.  Pensa a ciò che ti raccontò tuo marito, che pure era già al ginnasio all’epoca dei fatti: tra i ragazzi c’era l’abitudine di accarezzare quelli con i glutei più rotondi!

M.:  E’ vero, ma poi tuo padre ha avuto una vita sessuale normale e io ne sono testimone.

F.:  Forse perché, dopo due anni, minacciò di scappare dal collegio se non lo avessero fatto uscire e, comunque, portò a lungo i segni di quelle esperienze.

M.:  In concreto, secondo te, cosa avremmo dovuto fare?

F.:  Quello che tu stessa mi hai detto che fece tuo padre con te.  Mi hai raccontato due episodi. Il primo è di quando eri ancora alle elementari e la suora che ti dava lezioni di pianoforte gli comunicò che intendevi farti suora.  Lei ti regalò un libro su Santa Chiara e lui non proferì parola, né in quel momento né in seguito.

M.:  Era un uomo saggio, capiva bene che la mia giovane età impediva che si potesse dare un valore permanente a quella mia supposta aspirazione.  In effetti, ero semplicemente attratta dalla veste monacale e dal mistero che sentivo aleggiare nella vita del convento.

F.:  E quando, a quindici anni, gli comunicasti che volevi fare l’attrice?  

M.:  Ancora una volta, mio padre fu abilissimo: mi disse che non sarebbe stato un problema ma che prima dovevo finire la scuola.

F.:  Lo vedi?  Non ti presentò difficoltà ma prese tempo per dare a te stessa il modo di maturare una decisione, tant’è che, dopo la maturità, eri proiettata verso altri obiettivi.  Perché non faceste così con me, consigliandomi di proseguire la scuola pubblica per entrare poi in un seminario maggiore?  A diciotto anni sarei stato molto più consapevole, avrei saputo agire e reagire adeguatamente nelle varie situazioni.  Avrei saputo respingere gesti mai immaginati e rifiutare approcci non desiderati, perché avrei capito e riconosciuto la differenza rispetto alle tenerezze e alle effusioni che avrebbero popolato i miei sogni e regalato magia alla mia realtà.  Avrei capito che i compagni di seminario non erano comparabili con le amiche di scuola.  Invece l’impossibilità del confronto ha finito col rendere accettabili comportamenti di coetanei e superiori che mai lo sarebbero stati in condizioni normali.  Io non sono gay, Mamma!

M.:  Sono stata miope e superficiale, figlio mio: mi dispiace non avere colto in tempo le implicazioni della tua situazione e tratto le conseguenze.  Non mi ero resa conto del motivo per cui addossavi a me e a tuo padre parte della responsabilità per la tua condizione e non avevo decifrato il dolore e il disagio che ti porti dentro.  Solo ora immagino la riluttanza a cedere a desideri che non erano i tuoi, ad abituarti a sollecitazioni non richieste e che, anche per chi le forniva, erano soltanto un ripiego, un surrogato, come il caffè di cicoria che si beveva durante la guerra, come l’omosessualità in carcere.  Se soltanto ci avessi pensato per tempo!  Sento parlare di una potente lobby gay in Vaticano e mi rattrista pensare che tu, per un’unica ragione, il fatto di essere in procinto di diventare prete, possa essere inquadrato tra i colpevoli mentre sei una vittima.  Perché intendiamoci: se si è omosessuali, il problema è costituito dalla mancata astinenza, ma se non lo si è, a questo si aggiunge anche l’aver agito controvoglia o l’avere addirittura semplicemente subito.

F.:  Sono vittima ma anche colpevole per non avere avuto il coraggio di ribellarmi, fin dall’inizio.

M.:  Ma se tu stesso hai detto che non conoscevi altra realtà!  A quell’età, poi, quando non si è ancora definita la propria identità, non si capisce nemmeno bene cosa si vuole e cosa non si vuole e, in ogni caso, non si può rifiutare ciò che non si riconosce, a parte il fatto che ti devi essere trovato in una condizione di impotenza se non addirittura di sudditanza.  Da quando ho percepito il tuo problema, mi sono impegnata a studiare …

F.:  Ecco, lo sapevo, tu trasformi sempre tutto in una occasione di studio, quasi che così si risolvano le questioni.

M.:  E’ vero, figlio mio, che non si risolvono ma conoscere il passato ci offre spunti per decifrare il presente e per individuare spiragli che indichino possibili vie d’uscita, perché – credimi – la storia dell’umanità ha delle costanti che ci possono sorprendere.  Pensi forse che il ricevere attenzioni sessuali indesiderate o, peggio, subire atti omosessuali sia una particolarità del nostro tempo?  La costante è che gli esseri umani riescono ad abituarsi quasi a tutto, specie quando le regole sono dettate, se non da dominatori, dalle convenzioni o dalle tradizioni.  Credi davvero che tutti i giovani gradissero il ruolo passivo che, nelle società tribali, toccava loro nella relazione, anche sessuale, con cui si concretizzava parte del rito di iniziazione che segnava il passaggio all’età adulta, quando era ammesso solo il ruolo attivo, quello che caratterizza il rapporto con la donna?

F.:  Certo che no e sicuramente non lo gradivano tutti i ragazzi tra i dodici e i quattordici-quindici anni che, ad Atene, si ritrovavano soggetti passivi, pur “all’interno di un legame affettivo duraturo”.  Ne sono testimonianza “le affermazioni di autori come Platone, Senofonte e lo pseudo Luciano, quando parlano del disgusto dei giovani amati, dell’umiliazione e del rancore che essi provavano verso gli amanti dopo il rapporto”[1].

M.:  Vedo che hai letto il saggio di Cantarella. 

F.:  Illuminante.  Così ho capito il perché di quei rapporti che alcuni semplicemente accettavano mentre altri, come Aristotele, rimpiangevano: “il ricordo del piacere provato provoca il desiderio di rinnovare il congiungimento che vi si accompagnava”. Non c’era possibilità di scelta, secondo le proprie inclinazioni; erano una “necessità sociale”[2] legata al fatto che, al centro dell’organizzazione della comunità non c’era il rapporto uomo-donna ma il rapporto tra uomini. Cantarella spiega: “il rapporto eterosessuale dava la vita fisica; la funzione di dare vita nel gruppo al maschio adulto, la funzione di creare l’uomo come individuo sociale spettava invece al rapporto omosessuale, che come sappiamo si stabiliva a questo scopo, quasi istituzionalmente, tra un adulto e un ragazzo. Ma questo rapporto doveva durare solo per un periodo di tempo ben delimitato.  Una volta raggiunta la maturità, infatti, il ragazzo doveva abbandonare il ruolo passivo (sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista sessuale) e assumere un ruolo duplicemente attivo: quello eterosessuale del marito, e quello omosessuale dell’amante, educatore di un ragazzo amato»”[3].

M.:  Vedi, figlio mio, che c’è una ragione per tutto?  E’ perché c’era un tempo per tutto, anche per “assumere il ruolo virile con una donna, nel matrimonio”.  A questo proposito, c’è una indicazione molto significativa nell’Iliade, quando Teti si rivolge al figlio, disperato per la morte di Patroclo: “Accanto ad Achille sedette l’augusta sua madre, / lo carezzò con la mano e chiamandolo a nome gli disse: / «Figlio mio, fino a quando gemendo e soffrendo dolori / ti roderai il cuore, del tutto oblioso del cibo, / del letto?  Eppure è bello congiungersi con una donna / in amore»”[4].  E’ l’immagine di una madre affettuosa che esorta il figlio a superare quello stadio, ad andare oltre il “cameratismo di guerrieri” e “a compiere finalmente il suo dovere sociale”[5].

F.:  A me il discorso di Teti sembra quello tipico del genitore che si cura meno dei problemi psicologici che dei problemi sociali.

M.:  Sento un tono di rimprovero nella tua voce.

F.:  Te ne meravigli?  E’ vero che Teti sta agendo su ordine di Giove, adirato per lo scempio che, da nove giorni, Achille sta facendo del corpo di Ettore, colpevole di avere ucciso Patroclo.  E’ vero altresì che è difficile il compito di convincere il figlio, caratterizzato dall’«ira funesta», a consegnare la salma a Priamo per la sepoltura.  E’ pur vero, tuttavia, che, nel suo discorso, Teti non sembra tenere in alcun conto l’intensità del rapporto che legava i due amici.  Noi sappiamo, infatti, che Achille, sperando di essere il solo tra i due a morire a Troia, confidava di poter assegnare a Patroclo il ruolo di tutore del proprio figlio.  E sappiamo anche quanto premuroso Patroclo fosse stato con Briseide quando era stata condotta schiava di guerra.  A lui, cadavere, la donna rivolge il proprio lamento, quasi possa sentirla: “tu no, non volevi / ch’io piangessi, ma sempre dicevi che resa m’avresti / d’Achille divino la sposa legittima e, a Ftia sulle navi / condotta, il banchetto nuziale tra i Mirmidoni avresti imbandito. / Perciò senza fine io ti piango morto, dolcissimo sempre!”[6].  A me sembra altissima la statura umana di questo eroe ucciso: non mi meraviglia che abbia suscitato tanto amore e non mi importa se il legame con Achille avesse o no una componente sessuale.  Era amore e tanto mi basta. Per me il problema sorge quando l’amore non c’è o non è reciproco. 

M.:  Capisco quello che intendi dire: i genitori, nel valutare la condizione dei propri figli, usano parametri che prescindono dal loro benessere presente e futuro.  Ad esempio, non tengono in conto se abbiano o no conosciuto una realtà prima di allontanarsene.  Forse hai ragione.  Il problema è che spesso è così difficile conoscervi!  Tu, per esempio, sei sicuro di esserti sforzato di farmi comprendere il tuo disagio, quando ha cominciato a prendere corpo?

F.:  Ecco, lo sapevo che, ancora una volta, la colpa era mia!  Proprio tu mi parli così, tu che hai sempre sostenuto che ti bastasse uno sguardo per capire se qualcosa non andava! Ma non mi vedevi, in quei brevi periodi che trascorrevo a casa?  Non ti rendevi conto di quanto poco sereno fossi? Sembra quasi che tu non mi abbia guardato come persona ma come un esserino da gestire nel modo migliore possibile, quello che potesse darti la massima tranquillità.  E dove maggiore tranquillità che in un seminario?

M.:  Dimentichi che sei stato tu a chiederlo?

F.:  No, ma tu e Papà siete stati pronti ad assecondarmi, come se la mia fosse la migliore delle scelte possibili, come una buona sorte.  Non mi avete posto nessun problema, non mi avete presentato nessuna difficoltà.  Non vi siete chiesti e non mi avete chiesto se ci fosse un qualcosa che mi sarebbe potuto mancare.

M.:  Tu avresti saputo rispondere?

F.:  Non credo, ma sarei stato costretto a riflettere.  Invece così mi sono trovato in un ambiente sconosciuto, al quale mi sono semplicemente dovuto adattare accettando relazioni che non avevo mai nemmeno immaginato.  Mentre rispondeva pienamente alle mie aspettative la realtà educativa, sono stati per me sorprendenti alcuni rapporti affettivi che ho via via individuato e che erano talvolta connotati da una fisicità che mi appariva morbosa e comunque sgradita.  Era come se invano fossero trascorsi millenni da quando, nella Grecia precittadina, “i ragazzi apprendevano le virtù che avrebbero fatto di loro degli adulti durante il periodo di segregazione, vivendo in compagnia di un uomo, al tempo stesso educatore e amante”, mentre a Sparta “i ragazzi, a dodici anni, erano affidati a degli amanti, scelti tra i migliori uomini in età adulta, e da questi imparavano a essere dei veri spartiati”[7].

M.:  Ma quanti di questi casi hai trovato in tutti questi anni?

F.:  Mamma, cosa dici?  Fai una questione di numeri? 

M.:  No, figlio mio, volevo solo dire che in ogni contesto ci sono le eccezioni, le famose “mele marce”, ma questo non consente di generalizzare; come dice il proverbio, di “buttare il bambino con l’acqua sporca”.  Nella vita mi è capitato di avere a che fare con un sacerdote che stimavo, al quale mi rivolgevo per le messe ai defunti, e che poi ha dato scandalo, sorpreso a compiere atti sessuali con un ragazzino.  Una storia squallida, che però non mi ha indotto a colpevolizzare tutto il clero.  Mi rendo conto di quanto sia difficile la rinunzia alla sessualità e come questa, in un contesto in cui non sia possibile la sua libera espressione, possa trovare vie improprie.  Mi viene in mente ciò che disse Gesù a conclusione di una discussione sul matrimonio e sul fatto che non convenisse sposarsi se non si poteva ripudiare la propria moglie: “vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli”[8].  Ora, un conto è “la teorizzazione della continenza come valore morale”, un altro è la pratica “dell’astinenza come stato di vita più alto e più vicino al Signore, come strumento per la conquista del premio nella vita eterna”[9].   Non è facile accettare l’idea della “superiorità del celibato volontario”[10], rifiutare la sessualità e rendersi eunuchi, specie per alcuni.  Ora ti dico una cosa che spero non ti scandalizzi.  E’ un pensiero rimasto confuso finché non ho letto questo passo di Mancuso: “Riferendosi all’espressione «il discepolo che egli amava», presente sei volte nel Vangelo di Giovanni, alcuni hanno ipotizzato una tendenza omosessuale di Gesù.  La realtà è che questa figura un po’ enigmatica del discepolo preferito è completamente assente nei Sinottici, ricorre solo nel Quarto vangelo e solo nella seconda parte, forse come proiezione del suo autore, e non ha nulla a che fare con la vita di Gesù quale emerge da tutte le altre fonti, ben più affidabili dal punto di vista storico.  Se quindi si vuole ritrovare nel «discepolo che egli amava» un segnale di tendenza omosessuale, essa riguarda non Gesù ma l’autore del Quarto vangelo”[11].  Non avevo mai pensato che Gesù fosse omosessuale semplicemente perché, in quanto Dio venuto in terra come “Figlio dell’Uomo”, cioè figlio dell’Essere Umano, nella mia mente non poteva avere altro ruolo che quello di fratello dell’umanità intera.  Avevo sempre pensato che l’espressione di Giovanni potesse essere una vanteria, come quella dei bambini quando sostengono “la mamma vuole più bene a me”.  In alternativa, l’espressione mi sembrava interpretabile come “il discepolo che lo amava”, lo amava più di tutti e pertanto era da lui ricambiato con la massima intensità.  L’ipotesi riportata da Mancuso mi ha fatto molto riflettere: se davvero Giovanni fosse stato gay, sarebbe stato bellissimo, perché vorrebbe dire che Gesù davvero lo amava particolarmente perché era il più fragile, quello che faceva più fatica a stargli accanto, a “rendersi eunuco per il regno dei cieli”.

F.:  Mamma, davvero non c’è limite alle tue elucubrazioni!  Però devo ammettere che la tua ipotesi mi intriga.  Amare qualcuno e stargli accanto sapendo bene di dover respingere qualunque impulso, di doversi negare qualunque aspettativa, è terribile: vuol dire amare fino al sacrificio.  Ora rivedo la mia esperienza con altri occhi ma non cambia la mia convinzione che il seminario minore sia un errore.

M.:  Ma, figlio mio, io ho sempre pensato che il seminario fosse, dopo la famiglia e forse più ancora che la famiglia, il luogo più protetto al mondo!

F.:  E non hai pensato che una realtà mutilata come quella potesse generare storture e potesse impedire a ciascuno di trovare la propria identità, anche sessuale? Tu non hai idea di come sia triste assistere alle manovre di preadolescenti che cercano di trovare uno sbocco alle loro pulsioni!

M.:  Vuoi forse dire che le cose andavano meglio nella Grecia dell’età classica, quando era previsto che il figlio, per il passaggio all’età adulta, venisse affidato a un adulto di valore, che avesse le qualità per fare di lui un degno esponente della propria comunità e che con lui avesse un rapporto esclusivo, anche di tipo sessuale? Andavano meglio quando i genitori, che non ponevano in discussione le convenzioni, si limitavano a proteggere i propri figli dai corteggiatori inadeguati facendoli, come  ad Atene,  “controllare dai pedagoghi”[12]?

F.:  Non dico che era meglio; dico che, già allora, c’erano leggi a protezione dei ragazzi, tese a evitare ai giovanissimi “le possibilità di frequentazioni e di incontri pericolosi” col rischio di diventare prede di avventurieri.  Per questo “era considerato infame intrattenere qualunque rapporto” con i minori di dodici anni ed era corposo l’elenco degli amanti di “cattiva qualità” cui era proibito frequentare il locale ginnasio: tra questi gli schiavi, i liberti, i prostituti, i commercianti, gli ubriachi e i pazzi[13].  Alcune cose, a mio giudizio, col tempo sono cambiate ma non tutte con effetti positivi.  Per esempio, “l’uomo romano era condannato alla virilità”[14].  Per questo, “a differenza dei greci, i romani non ritenevano che, per i ragazzi, essere soggetti passivi di un rapporto omosessuale fosse educativo. […] Sessualmente […] erano uomini, anche se solo in potenza: e come tali non dovevano mai essere sottomessi”. D’altra parte, mancando la “funzione pedagogica del rapporto, […] fondamentale in Grecia”, veniva meno ciò che dava una motivazione nobile al compito assegnato all’adulto, che pur godeva di una posizione di predominio.  Di conseguenza, nel mondo latino, dove “l’adolescenza era breve” tanto che, “a quattordici anni, un ragazzo era già considerato un adulto […] e poteva prendere moglie”[15], “con il giovinetto amato […] si viveva una vera storia d’amore: destinata peraltro a finire […] nel momento in cui l’amante compiva l’atto che per i romani altro non era, di regola, che un dovere sociale, e che segnava l’inizio di una nuova era della vita: il matrimonio”[16].  Questo scatenava i pappagalli stradali, le cui iniziative potevano diventare veri e propri “attentati all’onore” dei “ragazzi di nascita libera”.  I “giovani ingenui”, che non potevano uscire da soli, erano protetti dal pretore con la punizione di “chi sottraeva loro la scorta” giacché, “senza scorta, essi si presentavano, a chi li incontrava, come persone di facili costumi”[17].

M.:  In conclusione, vuoi dire che c’erano più tutele di oggi?  Di nessun rilievo è dunque il fatto che “quel che era riprovato era solo il fatto di amare un giovane libero e cittadino romano”, mentre restava escluso lo schiavo che “non apparteneva, come soggetto, al mondo della città” e che poteva dunque essere sodomizzato senza problemi giacché “subire il padrone era parte integrante del dovere di servirlo”[18]?

F.:  Questo è un altro discorso, Mamma.  Voglio semplicemente dire che, se certe cose accadono oggi, non si può liquidare la faccenda dando la colpa al fato.  A me sembra che le famiglie non si assumano appieno le proprie responsabilità, scaricandole sulla scuola o, più genericamente, sulla società.  Penso a quanto si è impoverito il novero delle doti richieste a un compagno di scuola per essere considerato degno di essere frequentato: basta che sia “di buona famiglia” e prenda bei voti.    Poco importa se manca di sensibilità ed è anche magari un po’ bullo; se ti capisce; se ha piacere di stare con te o lo fa solo per convenienza; soprattutto, se tu hai piacere di stare con lui.

M.:  Figlio mio, non hai idea di quanto sia difficile essere genitore.  Mio padre diceva sempre: “io faccio quello che posso; il resto, come Dio vuole”.  Io non so se ho fatto tutto quello che potevo.  Probabilmente no.  Certo mi sono posta il problema dell’identità sessuale ma non ho mai immaginato che potesse essere messa a repentaglio in un seminario.  Ho letto tanto, cominciando naturalmente con Platone e quella bellissima immagine che spesso viene citata solo per metà: “Tanto tempo fa la nostra forma non era come adesso, ma diversa. Per cominciare, i generi umani erano tre, non come oggi, due: maschio e femmina.  Allora se ne aggiungeva un terzo, partecipe d’entrambi i sessi. […] L’uomodonna esisteva come sesso a parte, allora”.  Mi è sembrata rivoluzionaria questa “lezione preliminare sulla fibra umana” perché supera la concezione binaria per cui, sin dalle origini, o si è maschi o si è femmine. Questi esseri sferici “erano mostri d’aggressività e di resistenza.  Pieni d’orgoglio assalirono le divinità. […] Zeus ebbe un lampo di genio. Disse: «[…] li spacco tutti in due, ad uno ad uno, così le loro forze caleranno».  […] Ora, dopo il dimezzamento della figura umana, ogni parte rimpiangeva quel suo doppio”. Qui finisce la parte più citata della storia.  La più interessante è, a mio giudizio, il seguito, in cui Platone fa una casistica di ciò che poteva accadere a ciascuno nella ricerca della metà mancante.

F.:  Lo so, ho studiato il Simposio: “Esistono uomini risultato della spaccatura di quel vivo nodo che, allora, si chiamava uomodonna: sono amatori della donna, questi, e la risma degli adulteri, quasi tutta, alligna qui; ed ecco anche le donne appassionate d’uomo, specialmente adultere, tutte dallo stesso ceppo”.  Questo è l’effetto   del ricongiungimento delle due parti del terzo sesso.  Nessun problema per gli altri due. Infatti, “donna nata da spaccatura di donna, non fa tanto caso all’uomo, quanto si orienta sulle altre donne: da qui le donne che vanno con le donne.  Chi è taglio di maschio, bracca il maschio”.

M.:  E contempla i vari stadi e le varie possibilità di interazione anche sessuale tra due metà con “radici maschili”, concludendo: “Qualcuno dice che sono scandalosi: è una calunnia.  Non compiono quell’atto per istinto osceno: anzi, è tutto cuore, fibra maschia, d’uomo vero, è l’attrazione, in loro, per natura affine. Documento sicuro di questo: solo questi, fattisi maturi, riescono uomini versati in politica”[19].  Io penso che dovrebbero leggere questo passo tutti coloro che nascono “taglio di maschio” e soprattutto coloro che li avversano, li denigrano, li dileggiano, li giudicano anormali. 

F.:  Io lascerei da parte il riferimento alla politica, visto il basso livello di considerazione di cui gode al giorno d’oggi.  Piuttosto confronterei il discorso di Platone con le informazioni che, da medico, già venticinque anni fa, ha offerto la monaca benedettina e teologa Teresa Forcades quando, parlando di gender, ha spiegato che esistono almeno tre dimensioni del sesso biologico: “Sul piano cromosomico (genetico) tutti sappiamo che esistono xx(femmina) e xy (maschio) e molti sono convinti che vi siano soltanto queste due possibilità, ma non è così. […] Oltre a xx e xy, che tutti conosciamo, esiste infatti anche xxy: in medicina si chiama «sindrome di Klinefelter».  Questa composizione genetica riguarda una persona ogni mille.  C’è poi anche un’altra possibilità: x0 («sindrome di Turner»). Questi due sessi genetici che ho nominato cosa sono: femmine o maschi?”[20]. Pensa a quanto è divenuto attuale questo discorso durante le ultime Olimpiadi …..

M.: …con osservazioni e commenti che denotavano estrema ignoranza e volgarità. A me, invece, viene in mente ciò che disse Calvino in una intervista nel 1980: “Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza.  Non potrei vivere senza una donna al mio fianco.  Sono solo un pezzo d’un essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante”[21].  Sembra Platone rivisitato ed è stupendo il modo in cui viene proposto il risultato del rapporto che si crea quando c’è vera intimità e appartenenza reciproca.  E’ l’effetto dell’amore vero e a me non interessa se si generi tra due persone dello stesso sesso o di sesso diverso e non m’importa nemmeno che sia eterno: mi basta che esista all’interno di una relazione.  Sono troppo vecchia per accettare rapporti basati solo su un’attrazione momentanea, su una voglia occasionale. Siamo persone; per me non esiste il “fare sesso”, non ha senso un amplesso equivalente al mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete, e trovo fulminante l’affermazione di Simone de Beauvoir riportata da Forcades: “rispetto alle esperienze sessuali riferite dalle giovani ragazze americane quindicenni sosteneva che avessero fatto più che altro «ginnastica pelvica»”[22].  Per me esiste solo il fare l’amore – come cantava Dalla – “ognuno come gli va”.  Mi rendo conto ora di non aver riflettuto sulla condizione di chi l’amore non lo può fare e se ne deve privare senza nemmeno averlo conosciuto.  Ci penso e me ne rammarico profondamente.

F.:  Peccato che avere studiato tanto ti sia servito tanto poco, come madre!

M.:  E’ vero.  Il fatto è che, per tanti anni, convinta che, per gli esseri umani, il sesso, non essendo legato alla procreazione, dunque alla conservazione della specie, sia o debba essere semplicemente un piacere, ho trovato normale poterne fare a meno, come col desiderio di cioccolata, cui si rinuncia in tempo di fioretti. Non solo. Non mi sono posta il problema di tutte le persone per cui si tratta di un impulso irrefrenabile, che non possono essere condannate a una vita da eunuchi. Dopo tutto, Gesù stesso parla del “rendersi tali”, cioè di una decisione di cui non può farsi carico un ragazzino.

F.:  E ora che l’hai capito?

M.:  Ora sono per l’abolizione dei seminari minorili.  Ti dirò di più, sarei per la chiusura dei seminari in generale, così da permettere a tutti di conoscere la vita.  Farei esistere solo Facoltà universitarie di Teologia analoghe alle altre Facoltà, cioè programmate con un corso base triennale e successivi corsi biennali specialistici, a seconda della branca di studio prescelta.  Sarebbero tutte aperte a uomini e donne, sposati e non, che, a seguito di concorsi, potrebbero avere accesso all’insegnamento o ad altre professioni. L’unico corso specialistico riservato agli uomini non sposati sarebbe quello di formazione alla vita ecclesiastica. Così dovrebbe essere fino a quando la Chiesa cattolica non si sentirà pronta per il sacerdozio femminile. In ogni caso, si tratterebbe di una scelta della quale un adulto sarebbe consapevole; soprattutto, una scelta della quale nessuno se non l’interessato potrebbe o dovrebbe sentirsi responsabile.

F.:  Questa, secondo te, sarebbe la soluzione di tutti i problemi?

M.:  Certo che no, ma toglierebbe spazio alla segregazione che ne causa tanti, su cui i più preferiscono tacere.  Per questo ho trovato coraggioso, anche se dirompente, e non mi ha scandalizzata affatto il termine “frociaggine” utilizzato da Bergoglio, che considero un grande Papa.  Lui si riferiva a quelle pratiche che poi diventano costume e non cessano con l’età né col mutamento delle condizioni. E’ un termine indubbiamente forte ma che richiama esclusivamente il fare sesso, non riguarda l’amore, che è un sentimento dolce, capace di illuminare un momento di vicinanza fisica tra due persone, uomini o donne che siano. Bisogna guardare in faccia la realtà, affrontarla e non fare come si è fatto per troppo tempo.

F.:  Beh, mi complimento.  Ne hai fatti di progressi!

M.: So di meritare il tuo sarcasmo; tu però non ti rendi conto del clima in cui sono cresciuta. Non so se ti ho mai detto quello che mi raccontava mio padre: quando lui era ragazzo, in paese tutti sapevano che un certo prete aveva una compagna, peraltro accettata in famiglia, e addirittura potevano vederne uno che si caricava una ragazza sulla canna della bicicletta, la portava in campagna e poi la riportava con grande disinvoltura. Mi spiegò che per tutti era normale distinguere tra ciò che l’individuo faceva in quanto uomo e la sua funzione di sacerdote sull’altare. Sdoppiamento? Sì. Ipocrisia? Forse.  Realismo? Certo.

F.:  Un po’ tardi, non ti pare, per raccontarmi queste cose? Non mi hai dato la possibilità di pensarci su.  Mi sarei posto il problema della castità.

 M.:  Perdonami. In tanti anni ho assistito a innumerevoli conferenze sull’educazione dei figli ma il tema della castità non è stato affrontato mai. Ricordo le posizioni più diverse, da quella che sostanzialmente richiamava la famosa canzone popolare napoletana, secondo la quale «mazz’ e panell’ fann ‘e figli bell’; panell’ senza mazz’ fann e’ figl pazz’», a quella di ispirazione bucolica che richiamava la consuetudine contadina di affiancare a un alberello ancora instabile un piccolo tronco che lo sostenga e lo aiuti a crescere diritto.  La posizione più interessante mi è sembrata quella di uno psicologo che prendeva ad esempio se stesso nel rapporto col proprio cane che, inizialmente, quando erano in giro per strada, scappava costringendolo a lunghi inseguimenti.  Quando aveva cambiato strategia e aveva smesso di rincorrerlo, si era accorto che l’animale fuggiva ma poi si fermava dietro l’angolo.  Il figlio si aspetta che il genitore lo segua, anche quando sembra sfidarlo.

F.:  Appunto, Mamma, il genitore deve accettare sfide, correre rischi, non prendere a scatola chiusa soluzioni rassicuranti.

M.:  Pensa che io mi ero posta un unico problema, quello del matrimonio dei preti, perché nell’anno che ho trascorso negli Stati Uniti ho avuto occasione di conoscere due figlie di pastori protestanti, entrambe compagne di scuola.  Erano agli antipodi: una quasi una suorina; l’altra del tutto fuori norma, sbandata, non di rado ubriaca.  Probabilmente mi sono capitati esempi sbagliati.  Certo è che, da allora, penso che avere un genitore ecclesiastico debba essere opprimente, quasi come lo era per me sentirmi dire che non potevo fare varie cose perché mio padre “portava le stellette”, cioè era un militare.

F.:  Dunque niente prole, niente matrimonio.  Come se ne esce?

M.:  In primo luogo, come ti dicevo, eliminando la possibilità di entrare in seminario se non si è maggiorenni.

F.:  E poi?

M.:  E poi, se ancora di seminari parliamo, dando ampia possibilità di ripensamenti e verifiche.  Non ci devono essere condizionamenti morali.  Pensa che un anno, nel liceo che dirigevo, è venuto un ragazzo proveniente da un seminario.  I suoi occhi erano smarriti quando è arrivato e non mi pare lo fossero di meno quando è andato via, dopo il pur brillante scrutinio finale.  Era stato troppo breve il lasso di tempo che si era concesso per capire, per scegliere e forse non lo aveva aiutato la presenza di amici, che c’erano e che presumo si fossero impegnati a fargli conoscere una vita diversa.  Credo che decisioni di questo genere richiedano riflessione, silenzio e una lenta   maturazione.

F.:  E allora?

M.:  Ora tocca a te.

F.:  Ho deciso: vengo via dal seminario ma non torno a casa.

M.:  E dove vai?!

F.:  Ancora non so. Ho bisogno di cambiare aria. Voglio andare in una città, finire il liceo e poi frequentare l’università.

M.:  Potresti andare dai tuoi cugini. Sarebbero felici di ospitarti.

F.:  Mamma, per favore, ho riflettuto su questa possibilità ma non sarete voi genitori a decidere.  Se questa lunga esperienza mi ha insegnato qualcosa è che non bisogna delegare le proprie scelte ad altri, nemmeno a chi ci ama moltissimo.  D’ora in poi, farò quello che mi sembrerà giusto e, se sbaglierò, pagherò.  Tanto il prezzo non potrà mai essere più alto di quello pagato finora.

M.:  Figlio mio, io ho semplicemente formulato un’ipotesi, peraltro seguendo la tua indicazione.  Ti prego, non estromettermi dalla tua vita.  Sarebbe una punizione tremenda.

F.:  Non ho nessuna intenzione di estrometterti, in primo luogo perché non voglio e poi perché non potrei, dato che non sono ancora né maggiorenne   né finanziariamente autonomo. Ti chiedo solo di non starmi col fiato sul collo e di rispettare il mio bisogno di indipendenza. Dopo tutto, non è questo che vuol dire crescere, diventare adulto?  Dovresti esserne sollevata.  Invece ti vedo incupita. Vuoi forse suscitare in me nuovi sensi di colpa?

M.:  No, per carità!

F.:  E allora smetti di preoccuparti per me.

M.:  Non ci riesco.  Non so cosa darei per garantirti, per il futuro, la serenità che ti è mancata in passato e che ti manca ancora.  Mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile questo momento, ma ricordati che non sei e non sarai solo, mai. Abbi fiducia in te stesso e abbi fede: la tua vita è nelle mani del Signore e, come sappiamo, Dio, se ti vuole, ti trova.  Quanto a me, non dubitare: se e quando dovessi desiderare avermi accanto a te, in qualunque strada del mondo, ti basterà fermarti dietro l’angolo, ti raggiungerò.

[1] CANTARELLA Eva, Secondo natura.  La bisessualità nel mondo antico, Milano, Feltrinelli, 2021, pagg. 67 e 272-3.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, pag. 76.

[4] OMERO, Iliade –  Odissea , Roma, Newton Compton, 2021, Libro XXIV, vv. 126-131.

[5] CANTARELLA Eva, op. cit. , pagg. 19 e 25-6.

[6] Ibidem, Libro XIX, vv.328 e seguenti; v. 296-300-

[7]CANTARELLA Eva, op, cit., pagg. 21-2.

[8] Matteo 19, 12.

[9] CANTARELLA Eva, op. cit., pag 263.

[10] I VANGELI – Marco Matteo Luca Giovanni, a cura di Giancarlo Gaeta, Torino, Einaudi, 2006, pag. 923.

[11] Mancuso Vito, I quattro maestri, Milano, Garzanti, 2020, pag. 370.

[12] CANTARELLA Eva, op, cit.,pag. 39.

[13] Ibidem, pagg. 67 e 48-49.

[14] Ibidem, pag. 280.

[15] Ibidem, pagg. 276-7.

[16] Ibidem, pag. 163.

[17] Ibidem, pagg. 141 e 153-4.

[18] Ibidem, pagg. 138 e 131.

[19] PLATONE, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Milano, Mondadori, 2020, pagg. 71-3.

[20] FORCADES Teresa, Siamo tutti diversi! Per una teologia queer, Roma, Lit Edizioni, 2019, pagg. 117-8.

[21] CALVINO Italo, Gli amori difficili, Milano, Mondadori, pag. XL.

[22] FORCADES Teresa, op. cit., pag. 45.

La Divina Mimesis di Pasolini

Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Einaudi, 1975. Un tentativo  privilegiato di  ritornare al senso profondo del pensiero dantesco.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)
Questa recensione si colloca volutamente al di fuori del 25 marzo, data del cosiddetto Dantedì.
Ormai è una moda svuotare di significato il messaggio del sommo poeta,  svilendolo in un clima di mercificazione ed esibizionismo. Si pensi, ad esempio, al Dante presentato ai bambini come un personaggio a fumetti o di figurine, al perpetuarsi di narcisistiche conferenze su Dante, ai tanti adattamenti teatrali della Commedia. Sono altrettanti esempi di come Dante non dovrebbe essere celebrato. I veri dì di Dante sono quelli trascorsi da docenti e studenti nel corso di un intero anno scolastico a contatto con la sua poesia e il suo messaggio. Il Dantedì invece è una cerimonia che si esaurisce in se stessa.
La Divina Mimesis  di Pasolini è un tentativo  privilegiato di  ritornare al senso profondo del pensiero dantesco.
Dante si prefisse lo scopo di guidare il genere umano alla beatitudine.  La Commedia è animata da un moto ascensionale verso il paradiso cristiano. Questa possibilità di redenzione da ciò che impedisce di essere felici può essere recepita da credenti e non credenti. Per entrambi si tratta di verificare nel corso delle proprie storiche esistenze se e come diventi possibile redimersi. Pasolini si accinse a una simile verifica con un racconto che poi non ebbe sviluppo. Dell’ambiziosa e disperata impresa restano soltanto due canti completi, non in versi,  in prosa; appunti e frammenti per i canti III, IV e, con un salto, VII; due note dell’autore. In una sua nota l’editore informa sul lavoro fatto per riordinare gli appunti sparsi lasciati da Pasolini.
I frammenti dell’opera in fieri reperiti ed editi mostrano quanto l’idea dell’imitazione dantesca  fosse tormentata.
Idea tormentata a partire dalle varianti del titolo: “Frammenti infernali”; “Memorie barbariche”; “La teoria”; “La divina teoria”; “La divina realtà”. Su uno dei fogli dattiloscritti figura anche il titolo “Paradiso”. Inferno, barbarie, paradiso: queste parole sono indizi della ricerca operata da Pasolini su se stesso e sulla realtà del suo tempo a partire dalla meditazione esistenziale di Dante. Ricerca che lo portava a scoprire quanto profondamente fosse insito nella coscienza del sommo  poeta il legame fra la sorte dell’umanità e l’impegno  politico. Dall’intera opera dantesca egli sentiva provenire una lezione valida in ogni tempo, lezione secondo la quale i più nobili ideali debbono essere messi alla prova sul piano politico, essendo chiamato ciascuno, anche se sentendosi dominato dallo sconforto, a dar prova di responsabilità e di impegno civile e umano.
Per Pasolini si trattava dunque di verificare la possibilità di realizzare un ideale salvifico nell’assetto politico della realtà contemporanea.
Pasolini intraprende il suo viaggio a quarant’anni, nella realtà della “Selva” del 1963, in una oscurità che è anche luce. È una mattinata di aprile, o forse maggio, nel suo ricordo confuso. La realtà è una realtà borghese. In  essa “l’unico dato buono” sono gli operai. Ogni tanto vengono riecheggiati e insieme trasformati dei versi danteschi. Ad esempio, mentre Dante scrive a proposito della selva: “Io non so ben ridir com’io v’entrai” (Inferno, I, 10), Pasolini a proposito della sua esperienza scrive: “Ah, non so dire, bene, quando è incominciata: forse da sempre”. Come Dante, si imbatte nella Lonza, nel Leone, nella Lupa, che gli impediscono di andare verso l’alto; ma mentre rovina giù, gli appare un’ombra, che si identifica con il suo io sdoppiato. Il Virgilio di Dante con enfasi dice “Poeta fui”, invece l’io speculare di Pasolini, come a voler sancire la morte di ogni speranza di cambiare il mondo con la poesia, antepone  il verbo al sostantivo:
“Fui poeta, – aggiunse, rapido, quasi ora volesse dettare la sua lapide – cantai la divisione nella coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita. E, nel dolore della distruzione misto alla speranza della fondazione, esaurisce oscuramente il suo mandato …”
L’incontro con se stesso come guida avviene in un clima di iniziale scoramento.
La guida, che avrebbe potuto essere Gramsci, o Rimbaud, o Charlot, scrive Pasolini, è invece “un piccolo poeta civile degli anni Cinquanta […] incapace di aiutare se stesso, figurarsi un altro”. La bestia che più gli fa paura è la Lupa. Dante con la Lonza identifica la lussuria e con la Lupa l’avarizia. Pasolini fonde avarizia e lussuria nella sola figura della Lupa. Ossessionato dal sesso, immagina che al posto del Veltro come salvatore avvenga l’avvento di un vizioso capitalista:
“Questo qui […] non sarà padrone di fabbriche o di catene di giornali, non possiederà feudi nel Sud, ma sue ricchezze saranno spirito aziendale, capitale cartaceo, e patria plurinazionale. Ah, ah, ah! Sarà lui la salvezza del mondo: che non si rigenererà affatto con le morti assurdamente eroiche a cui è delegata l’umile gioventù di sempre […]”
Nel secondo canto Pasolini rielabora sempre in chiave moderna la tematica dell’esitazione di Dante, che confessa a Virgilio di non sentirsi degno di intraprendere il viaggio nell’aldilà.
Questo potrebbe essere definito il canto dei fiori. Prendendo spunto dai “fioretti” piegati dal gelo notturno e risorti al calore dei raggi del sole, immagine con cui Dante, rincuorato da Virgilio, si sente il cuore invaso dal “buono ardire” di seguirlo nell’oltretomba, Pasolini si decide a seguire se stesso come un “fiorellino”  nel suo inferno sulla Terra:
“Anch’io, come un fiore – pensavo – niente altro che un fiore non coltivato, obbedisco alla necessità che mi vuole preso dalla lietezza  che succede allo scoraggiamento. Poi certo verrà ancora qualcosa che mi offenderà e mi massacrerà: ma anche per me, come per i fiori delle altre primavere, il passato si confonde con il presente, e un prato è qui, e, insieme, nel cosmo!”
Negli appunti e frammenti per il terzo canto Pasolini si rifà ai versi danteschi in cui tumultuano “diverse lingue” e “orribili favelle”.
Ed eccolo l’inferno sulla Terra. È la “Città” – una città come tante altre nel mondo. “Dialetti, o gerghi, parlate di poveri o di ricchi[…]”: sono i  linguaggi che vi si odono, tali da “rivelare subito socialmente i parlanti” ma “sotto un aspetto asociale, spaventoso”. Costoro corrispondono agli ignavi. Hanno scelto di “essere come tutti”, senza trovarsi però  in “una condizione di reale innocenza”. Ad essi si contrappongono altri che, pur essendo come tutti, non hanno peccato di ignavia, ma hanno combattuto per la libertà: i partigiani.
Negli appunti e frammenti per il quarto canto Pasolini chiede perdono al lettore.
La richiesta di perdono è dovuta alla sproporzione fra ciò che il nuovo Dante vorrebbe e ciò che riesce a dire. Eppure lui non ha potuto fare a meno di esprimersi. Infatti il sapere a un certo punto esige di essere manifestato. Nel silenzio si realizza soltanto “il nostro intimo conformismo”, del quale non ci interessiamo per il motivo che può essere così esplicitato:
“Odiamo il conformismo degli altri perché è questo che ci trattiene dall’interessarci al nostro. Ognuno di noi odia nell’altro come in un lager il proprio destino. Non sopportiamo che gli altri abbiano una vita e delle abitudini sotto un altro cielo. Vorremmo sempre che qualcosa di esterno, come per esempio un terremoto, un bombardamento, una rivoluzione, rompesse le abitudini dei milioni di piccoli borghesi che ci circondano. Per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe […] L’Inferno che mi son messo in testa di descrivere è stato semplicemente già descritto da Hitler. È attraverso la sua politica che l’Irrealtà si è veramente mostrata in tutta la sua luce. È da essa che i borghesi hanno tratto vero scandalo, o, mi vergogno a dirlo, hanno vissuto la vera contraddizione della loro vita.”
Poi Pasolini si rifà al nobile castello degli spiriti magni. Raffigura una schiera di poeti nel giardino di un villa a qualche chilometro da Praga. Sono poeti boemi o slovacchi. In Italia in un luogo analogo i poeti italiani avrebbero le sembianze volgari di piccoli borghesi e apparirebbero come una sorta di impiegati.
Pasolini continua quindi la sua analisi della società. Una società in cui “non c’è alcuna soluzione di continuità tra suddito e padrone, tra lavoratore e capitalista”. Una società in cui l’essere umano è ridotto alla dimensione di “acquirente”, eccezion fatta nel caso del poeta,  per il quale è impossibile “avere una figura economica”.
Negli appunti e frammenti per il VII canto ritorna la tematica del conformismo.
È questa la tematica che a Pasolini preme esprimere: il conformismo. Perciò egli salta il quinto e sesto canto, canti di Paolo e Francesca e delle vicende di Firenze. Nel canto settimo dell’inferno dantesco sono puniti avari e prodighi, iracondi e accidiosi. Nel canto settimo dell’inferno pasoliniano i piccoli borghesi scontano questo “peccato”: “seppero come non essere conformisti, e lo furono”. La narrazione prosegue con le Demonie, una “polizia infernale femminile”, costretta a far passare il viandante sdoppiato oltre una sbarra  che lo separa da una grande folla. In essa vi è un grande numero di donne, nelle quali “il conformismo ha sempre una certa grandezza”, come una vera e propria  “religione”. Invece i maschi si sono macchiati di “peccati così orrendi come quelli commessi dalla borghesia in questo secolo, per difendere il proprio diritto a odiare la grandezza”. E in proposito vengono evocati Buchenwald e Dachau, Auschwitz e Mauthausen. Poi il viaggio prosegue verso la “Zona dei Riduttivi” e il “Settore autonomo Raziocinanti: Irrazionali e Razionali”.
Qui l’ambiziosa e disperata impresa di Pasolini si interrompe.
Quanto l’impresa fosse ambiziosa e disperata lo si può comprendere ancor meglio sulla base delle due note in cui Pasolini illustra il suo progetto. Libro da scrivere a strati, ciascuno dei quali datato come un diario. Opera sempre in fieri, “un misto di cose fatte e di cose da farsi – di pagine rifinite e di pagine in abbozzo, o solo intenzionali”.  La lingua dell’Inferno sarà “l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi e allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia”. Invece per  i Due Paradisi da progettare e costruire occorrerà un italiano “come lingua nazionale parlata, fondata non più sull’italiano letterario né sull’italiano strumentale dialettizzato, come lingua franca degli scambi commerciali e della prima industrializzazione – ma sull’italiano, parlato nel Nord, come lingua franca della seconda industrializzazione”.
Considerando la severa critica della realtà nella Divina Mimesi, ci chiediamo se e come una dimensione paradisiaca  avrebbe potuto essere rappresentata da Pasolini.
Siamo di fronte a un’opera difficile da recensire.
Perché dunque recensire La Divina Mimesis? Nessuna recensione rende giustizia a un’opera letteraria. Se ha un valore, lo ha nella misura in cui la fa conoscere e spinge a leggerla. Però recensire la Divina Mimesis  non può avere soltanto lo scopo di far sentire il bisogno di immergersi nella sua straordinaria prosa lirica. Una prosa lirica che resta fra le più alte espressioni letterarie del Novecento. Al di là di questa auspicabile esperienza di lettura vi è una presa di coscienza dell’oltraggio perpetrato con le odierne celebrazioni della Commedia come un’opera a sé stante, staccata dal Convivio, dalla Monarchia,  dal De vulgari eloquentia, dalla cultura classica e cristiano-medioevale. Pasolini ci aiuta a comprendere il vero valore dell’opera di Dante. Ostacoli a comprenderlo sono il pervicace retaggio di un Benedetto Croce, intento con supponenza a distinguere poesia e non poesia, e il clima festaiolo di riduzione dell’opera dantesca a pretesto per ogni sterile divagazione.
Il vero valore di Dante non si colloca sul versante meramente estetico.
Il valore di Dante, valore ben riconosciuto da Pasolini, è l’impulso all’azione come  essenza e scopo della Commedia. Un nostro poeta ha parlato della “forza incoativa” delle concatenate terzine  dantesche. Questa “forza incoativa”, vale a dire energia che si rinnova di continuo senza mai affievolirsi, è non solo lirica, ma anche e soprattutto etica nella sua religiosità. Dante ci chiama a una trasformazione. Vuole essere letto affinché ci assumiamo il compito di trasformare noi stessi e il mondo in vista dell’universale felicità nel mondo terreno prima ancora di poter godere di una beatitudine ultraterrena. Consideriamo, ad esempio, questi versi:
“Quali  i fioretti, dal notturno gelochinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,si drizzan tutti aperti in loro stelo,tal mi fec’io di mia virtude stanca,e tanto buono ardire al cor mi corsech’i’cominciai come persona franca […] (Inferno, II, 127-132)
Dante, rincuorato da Virgilio, che gli ha spiegato come il suo viaggio nell’aldilà sia voluto dal cielo, comincia a dichiararsi pronto all’impresa. Sul piano estetico apprezziamo elementi come  la similitudine dei fiorellini che la luce del sole fa risorgere; il ritmo dell’endecasillabo e tanto buono ardire al cor mi corse che con gli accenti sulla sesta e sulla decima, invece che su quarta, ottava e decima, meglio si attaglia alla rapidità della presa di coraggio; le risonanze interne delle parole cor – corse; ma questa resa lirica è voluta per mettere in risalto il “buono ardire”, l’essere disposto all’azione, la volontà di affrontare ogni cimento con un’attitudine fortemente razionale.
Chi recepisce oggi questo messaggio?
È la domanda che Pasolini si è posto e alla quale ha cercato di rispondere con La Divina Mimesis, prendendo posizione contro i moderni ignavi, pur dubitando di un possibile riscatto dell’umanità dalla sua irresponsabilità. L’umanità è chiamata comunque a scuotersi dall’inerzia, poiché in questo inferno terreno resta pur sempre il dovere dell’impegno contro il conformismo. Cercare di cambiare in meglio un  mondo degradato è il compito che ci compete. Ognuno è tenuto a trovare in se stesso il suo Virgilio. Ce lo insegna Dante e ce lo ricorda Pasolini.
        

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