S. Fiorella, L’Orabuca

Raccontare in parole la scuola: L’Orabuca di Savino Fiorella

di Renato Candia

       L’ambiente e il tempo che scandiscono i cicli scolastici appartengono alla memoria di tutti. Raccontarne gli aspetti più caratterizzanti o prenderne spunto per parlare di contesti più ampi che vivono attorno alla scuola, come possono essere per esempio gli spazi delle comunità sociali che esprimono un tempo storico ben preciso, un clima culturale fortemente connotato, la narrazione di personaggi-tipo che rappresentino una certa quotidianità del vivere, tutto questo è lavoro del narratore, che quegli ambienti conosce perché li ha frequentati o perché se ne è documentato.

La letteratura che parla di scuola, oggi, sta diventando piuttosto ricca di esempi significativi ma trova anche matrici non lontane capaci di raccontare per modelli come la Scuola italiana si sia evoluta nella percezione dei costumi e dei rapporti sociali, almeno a partire dal secondo dopoguerra.

 

Un primo modello è la scuola raccontata come micro-luogo sociale dentro cui si muovono personaggi tra il privato delle loro vite personali e il pubblico della propria professione. In questi romanzi c’è una scuola come sfondo privilegiato di un contesto sociale, dove agiscono personaggi che parlano di loro stessi, che esprimono la loro personale e complessa umanità e i modi delle loro relazioni con i coetanei, con la loro storia e con il loro tempo, così come fanno gli esempi che seguono. 

Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, (1962): il maestro Mombelli opera nella Vigevano degli anni del boom economico. Tuttavia il contesto sociale, le sfrenate ambizioni dalla moglie, una scuola sbatacchiata tra insegnanti demotivati e più o meno consapevolmente frustrati e genitori arricchiti dediti all’ostentazione di uno sfarzo frettolosamente acquisito, lo rendono sempre più un umiliato e un offeso, spaesato dentro uno spazio de-idealizzato dove anche le illusioni sono menzogne: “Lei in noi non deve vedere il superiore, ma il collaboratore. Noi siamo i collaboratori dei Maestri”, lo rimbrotta poco amichevolmente il Direttore didattico durante una visita alla sua classe.

Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, (1964): il professore Marcello Bianchi è incaricato dell’insegnamento di storia e filosofia in un liceo cittadino dell’Italia degli anni ’50. Qualche genitore si lamenta col Preside per un suo personale atteggiamento considerato un po’ troppo orientato politicamente: “…ed allora le raccomando di attenersi sempre, rigidamente, ai programmi ministeriali” lo ammonisce il Preside, facendosi promettere di non far più preoccupare certi genitori che potrebbero reagire con modi più decisi e scomodi.

Su questo modello, in attualizzata reciprocità con l’evoluzione dei tempi, altri lavori letterari significativi sono, per esempio, Virgilio Budini, La scuola si diverte, (1967); Gianni Celati, Comiche, (1971); Lidia Ravera – Marco Lombardo Radice, Porci con le ali (1976); Domenico Starnone, Ex cattedra, (1996); Gianantonio Stella, Il maestro magro (2005); Edoardo Albinati, La scuola cattolica (2017); Matteo Bussola, Sono puri i loro sogni (2017).

Un secondo modello riferisce invece di una visione più volutamente realistica, quasi diaristica, che parla della scuola vista dal di dentro, che vuole documentare una condizione, una quotidianità attraverso il punto di vista di una esperienza diretta, che vede in primo piano i protagonisti degli eventi che abitano giornalmente la scuola stessa.

Leonardo Sciascia, Cronache scolastiche, in Le Parrocchie di Regalpietra (1956). Il maestro Leonardo Sciascia descrive la sua esperienza nella scuola di un paese siciliano a metà degli anni ’50 del secolo scorso, dove regnano ancora fame, povertà e miseria sociale: “Qualche volta viene anche l’ispettore. (…). Quei trenta miei ragazzi sporchi e arruffati, che non sentono nemmeno la soggezione della sua presenza, e continuano a mormorare e a litigare tra loro, evidentemente non gli vanno giù”. Sulla stessa linea altre narrazioni come: Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, (1968); Paola Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, 2004; Marco Lodoli, Il rosso e il blu (2009); Vanessa Ambrosecchio, Tutto un rimbalzar di neuroni, 2021; Alessandro Gazzoli, Estranei (2024)

C’è poi una narrazione che si colloca in forma visionaria tra illusione e disillusione, tra la ragione (di ciò che vorrebbe essere) e il rimpianto (di ciò che avrebbe voluto essere e ciò che realmente è, o quanto meno appare), tra le aspettative di vita e il disincanto del presente. Si tratta del racconto di insegnanti che nella professione portano ancora dentro una buona parte della condizione (mai del tutto superata) dello studente che sono stati, che vivono in una costante ansia (tutta scolastica) di omologazione/spersonalizzazione di sé, che vivono le contraddizioni del mondo della scuola nel timore che si consolidino in loro come definitivo e insanabile dramma esistenziale.

Questo modello di narrazione consente agli autori di mettersi in gioco con ironia, con sarcasmo (a volte anche violento), di utilizzare frequentemente un linguaggio caratterizzato da immediatezza e velocità, a volte anche stralunato e surreale, da un periodare contemporaneo e quotidiano, spesso molto stretto, breve, diretto e infarcito di frequenti intercalari che richiamano i contesti di vita dei loro studenti piuttosto che quelli più misurati dell’ambiente professionale dell’educatore. Si tratta di lavori come quello di Maurizio Salabelle (Il maestro Atomi, 2004), di Christian Raimo (Tranquillo prof., la richiamo io, 2015), di Marco Lodoli (Il preside, 2020). E volendo di questi trovare qualche riferimento viene forse in mente il Luigi Meneghello di Libera nos a Malo (1963) proprio per quella forma diretta e per quel ritmo di raccontare l’azione di un particolare tempo delle nostre vite: quello del ragazzo che sta provando a diventare uomo.

Un esempio che raccoglie assieme un po’ tutte queste considerazioni è il recente romanzo di Savino Fiorella L’orabuca (Bari, 2024), nel quale l’autore, attraverso i vari capitoli del libro, dipana tutta una serie di ricche istantanee delle varie fasi della vita e della carriera di un insegnante nella scuola d’oggi, attraverso incontri e personaggi diversi: il precario, il supplente temporaneo, il neo-assunto già pentito, il pendolare sbattuto in 24 ore dal mare del Sud alla neve del Nord, il carismatico professore di filosofia che cita Zeman, il preside senza empatia, la bidella che chiosa giudizi cinici con la scopa in mano, la giovane collega bella ma depressa, fino alla ricerca di un anziano mentore che spieghi le ragioni del fare questo mestiere e al funerale del collega morto a due anni dal pensionamento (e di cui le poche parole rimaste alla vedova sono: ‘Non aveva che la scuola…’).

Il titolo del romanzo prende spunto dall’idea di partenza dell’autore, ovvero che la scuola sia talmente oberata di vincoli e di orpelli che ne snaturano il senso, le potenzialità, la qualità e il valore della missione al punto da inquadrare inesorabilmente i suoi operatori dentro spazi privi di libertà e di umanità. Egli così tesse un elogio dell’ora-buca (tecnicamente il tempo morto dell’insegnante tra la fine di un’ora di lezione e l’attesa di quella che deve seguire e che non sempre è immediatamente successiva). È nell’ora-buca che gli insegnanti sono realmente liberi di essere se stessi, di ispirarsi, fuori dalle fatiche di classi distratte e irritanti e lontano dalla ripetitività mortificante di programmi e discipline: l’orabuca solleva tutti dall’obbligo di ritornare dentro le aule a fare la guardia agli alunni, e invita ad un altrove di pensieri e di coscienza.

Il rischio (il problema) di diventare insegnante è la dipendenza tossica che come un vortice ti risucchia in un contesto da cui non ci si salva più. Con raffinata e divertente ironia Fiorella cita un ben noto luogo comune (Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare insegna agli insegnanti, a sua volta ricordato in American Pie, celebre cult-movie degli anni ’90), per dire che la percezione esterna al mondo scolastico è quella che l’insegnante, di base, non sa fare niente. Forse è proprio il dover vivere tutta la vita con la consapevolezza di questo giudizio che l’insegnante si porterà addosso come un abito, conferendogli un avvilente tono di frustrazione. Tuttavia la tentazione del mestiere è forte, anzi terribilmente forte, come un droga, che uccide ma è seducente e può essere a portata di mano facilmente, così che senza accorgertene quando ci sei dentro non ne esci più.

Nella serie di situazioni tipiche che l’autore sviluppa nel corso della narrazione, il tono alienato dell’ormai irrecuperabile prigioniero di se stesso, riesce tuttavia a trovare finestre di rinnovata consapevolezza. Se il meccanismo tende a stritolare, l’insegnante può e deve trovare sempre e comunque la luce della sua libertà, che non è libertà dalla sua frustrazione, ma al contrario scoperta del senso umano ed esistenziale del mestiere. E c’è quell’insegnante che incontra il disabile sedicenne dentro una scuola media a cui sta chiedendo qualcosa: poter fare una Scuola vera, che abbia davvero senso, che incida nelle vite degli altri, che accompagni all’ascolto, all’incontro, alla reciprocità, che insegni a contare, ad allacciare le scarpe, a prendere un autobus, ad aumentare la libertà.

Questa Scuola, sembra evidenziare l’autore, è quella che si smarca dal puro mestiere per diventare senso del reale, etica dei fatti e delle cose. Questa è la Scuola realmente libera dove la parola educazione non è luogo comune che giustifica i tranelli degli ordinamenti e delle istanze poste in modo vago e sbagliato. La Disabilità come principio di un limite o piuttosto come chiave di lettura dell’Educazione, di progetti di vita, di processi sociali che abbiano radici nel cuore e nelle coscienze degli uomini di scuola.

L’autore torna infine alla sua surreale ironia: la sua passione (in tutti sensi) per la Scuola, quella stessa che gli ha fatto scrivere questo libro, divertendosi (sicuramente lui) e facendo divertire tra il dolce e l’amaro i suoi lettori, si chiude sulla trasfigurazione della nuova collega (precaria) che arriva su incarico annuale, bellissima, innocente e ancora troppo giovane per comprendere i mali del tranello istituzionale: la professoressa Albertoni che diviene agli occhi del collegio già smaliziato e disilluso dei ‘vecchi’, la casta e inconsapevole icona di Teresa d’Avila.

La Scuola è il comune denominatore che tutti abbiamo dovuto attraversare: qualcuno si sente in diritto di parlarne (e di scriverne) soltanto per questo, qualcun altro sente il dovere di farlo perché la Scuola continua a viverla e farla da dentro. Savino Fiorella sembra voler dissuadere chiunque a volerci entrare, ma la sua feroce ironia tradisce in realtà le aspettative di volerci restare, magari anche soltanto (rispettosamente) a modo suo. 

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Il progetto lettura d’Istituto e la Giornata della Memoria.

Libri ed albi illustrati accompagnano gli alunni della Gramsci alla ricerca di risposte sulla  Shoah.
In occasione della Giornata della Memoria 2022 l’I.C “A. Gramsci”, attraverso una serie di iniziative ed attività rivolte agli alunni della scuola secondaria di primo grado, ha ricordato le vittime di una delle pagine più tristi e drammatiche della storia dell’umanità con la finalità di sensibilizzare le nuove generazioni alla cultura della pace contro ogni forma di discriminazione.

Il nostro Istituto si dedica alla didattica della Shoah da molti anni soprattutto attraverso i libri perché la scuola è uno dei luoghi privilegiati nei quali si costruisce la democrazia e si preserva la memoria come strumento di indagine.

Le testimonianze di chi ha vissuto l’orrore sulla propria pelle sono fondamentali perché non si dimentichi ciò che è accaduto.

Il nostro dovere in occasione di questa giornata è proprio quello di ricordare due sopravvissuti che la nostra scuola ha avuto l’onore di conoscere e di ospitare: Shlomo Venezia e il nostro concittadino Ennio Borgia.

Le classi 1D e 2D hanno voluto ripercorrere i momenti salienti di questi incontri attraverso la visione di filmati del tempo e soprattutto attraverso la lettura del libro di Shlomo Venezia dal titolo Sonderkommando Auschwitz, la verità sulle camere a gas.

Gli alunni delle classi 1 e 2 D, 1,2 3 F e 1 , 2 e 3 G hanno poi proseguito il proprio viaggio di scoperta e di conoscenza grazie agli albi illustrati.

Alle classi prime le professoresse Barbara e Cinzia Pedrazzi  hanno dedicato la lettura ad alta voce dell’albo L’albero di Anne di Irene Cohen-Janca con le illustrazioni di Maurizio A.C. Quarello, edito da Orecchio Acerbo.

L’albo che ha vinto il Premio Libro per l’Ambiente 2010 miglior coerenza grafica-testo presenta il racconto della storia di Anna Frank dal punto di vista di un ippocastano che Anna poteva vedere dalla finestra del suo rifugio.

L’albero è da tempo minato da un’infezione fungina e dalle tarme. Nella convinzione di essere prossimo a tacere per sempre, decide di raccontare fatti accaduti più di sessant’anni fa, proprio al numero 263 di Prinsengracht.

“Ho più di cento anni, e sotto la corteccia migliaia di ricordi. Ma è di una ragazzina – Anne il suo nome – il ricordo più vivo. Aveva tredici anni, ma non scendeva mai in cortile a giocare. La intravedevo appena, dietro il lucernario della soffitta del palazzo di fronte. Curva a scrivere fitto fitto, quando alzava gli occhi il suo sguardo spaziava l’orizzonte. A volte però si fermava sui miei rami, scintillanti di pioggia in autunno, rigogliosi di foglie e fiori in primavera. E vedevo il suo sorriso. Luminoso come uno squarcio di luce e speranza in quegli anni tetri e bui della guerra. Fino a quando, un giorno d’estate, un gruppo di soldati – grandi elmetti e mitra in pugno – la portò via. Per sempre. Dicono che sotto la mia corteccia, insieme con i ricordi, si siano intrufolati funghi e parassiti. E che forse non ce la farò. Sì, sono preoccupato per le mie foglie, per il mio tronco, per le mie radici. Ma i parassiti più pericolosi sono i tarli, i tarli della memoria. Quelli che vorrebbero intaccare, fino a negarlo, il ricordo di Anne Frank”.

Il racconto che è stato definito dal Messaggero e dal Manifesto “…poetico, mai retorico e senza sbavature, un libro che infrange le pareti dell’invisibile teca in cui si tende a rinchiudere la memoria…” ha affascinato profondamente gli alunni ispirando diversi laboratori sia di scrittura creativa che pittorico artistici.

Gli alunni della classe 1D, dopo aver ascoltato la lettura dell’albo, hanno prima svolto un lavoro di approfondimento sul proprio taccuino e poi hanno realizzato l’albero della Memoria.

Si tratta di un albero costruito seguendo lo schema di Bruno Munari: sui rami gli alunni hanno posizionato una foglia sulla quale ognuno di loro ha scritto un pensiero, una frase, una riflessione sulla tematica della Shoah.

Anche gli alunni della 2F hanno voluto lasciare un loro messaggio scritto su una foglia di platano; quel platano testimone degli ultimi anni di vita di Anne. Da una piccola finestra, Anne l’ha visto trasformato dallo scorrere del tempo, ed è stato per lei l’unico contatto con il mondo esterno.

La classe 2D, dopo la lettura di diversi testi oltre al libro di Shlomo Venezia tra i quali ricordiamo il Diario di Anna Frank, il bambino con il pigiama a righe  i testi di Liliana Segre, ha realizzato un lavoro creativo collettivo intitolato Il filo della Memoria.

Il filo spinato come simbolo del dolore e della follia umana diventa il filo della Memoria per non dimenticare mai più.

Sul filo della Memoria ogni alunno ha lasciato cadere una lettera indirizzata ad una delle vittime di questa indimenticabile pagina della storia.

Anche in questo caso il progetto lettura ha fornito gli strumenti necessari per raggiungere questo obiettivo come per esempio la mail art; infatti è stato possibile trasmettere un messaggio importante coadiuvato dalla presenza di immagini e disegni.

Un altro albo molto interessante che ha coinvolto le classi 1 e 2 D è stato Nicky e Vera di Peter Sis. L’albo illustrato racconta la storia di un eroe  della Shoah e dei 669 bambini che salvò.

Nel dicembre 1938, un giovane inglese cancellò la sua vacanza in montagna e partì alla volta di Praga per aiutare le migliaia di rifugiati in fuga dal nazismo che si erano ammassate in città. Si chiamava Nicholas Winton e, lavorando notte e giorno da una camera di albergo, raccolse centinaia di nomi e fotografie di bambini da portare in salvo, si procurò il denaro, trovò famiglie disposte ad accoglierli in Inghilterra, organizzò i viaggi, con tanto di documenti ufficiali o contraffatti.

Durante la primavera e l’estate del 1939, mentre l’ombra scura del nazismo si allungava sull’Europa, Nicholas riuscì a far fuggire quasi settecento bambini, soprattutto ebrei, a bordo di otto treni diretti a Londra.

Quando poi la guerra scoppiò e i confini furono chiusi, mise via tutte le carte e non parlò più a nessuno di questa vicenda. La straordinaria impresa di Winton fu scoperta solo cinquant’anni dopo da sua moglie e portata all’attenzione di tutti in un programma televisivo.

Dopo la lettura dell’albo i ragazzi hanno svolto un laboratorio grafico-pittorico sotto la guida della professoressa Isabella Realmuto con l’obiettivo di rappresentare graficamente gli otto vagoni che portarono in salvo tanti bambini.

Un altro albo illustrato molto interessante proposto alla classe 1D è stato Il cavaliere delle stelle, edito da Lapis Edizioni nel 2021, coi testi di Luca Cognolato e Silvia Del Francia, e le illustrazioni di Fabio Sardo.

L’albo racconta la straordinaria storia di Giorgio Perlasca in chiave fiabesca.

La stella di Andra e Tati, il cartoon pluripremiato che ha come protagoniste le due sorelle Bucci scampate all’Olocausto, è stato al centro delle riflessioni sulla Shoah nella classe 1G.

I piccoli alunni della 1 F, invece, sono stati coinvolti nella lettura dell’albo illustrato Il volo di Sara, dell’autrice Lorenza Farina, con le illustrazioni di Sonia M.L. Possentini.

L’albo descrive il commovente incontro tra Sara e un pettirosso in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il piccolo pettirosso deciderà di portare con sé questa nuova amica, perché la Shoah e i campi di concentramento sono cosa troppo crudele per una bambina. 

I ragazzi hanno voluto lasciare il loro personale messaggio proprio attraverso questo piccolo pettirosso, simbolo di pace e libertà.

Gli alunni della 3 F, invece, si sono cimentati in un compito di realtà, che ha permesso loro di conoscere nuovi aspetti di questa drammatica pagina della storia. 
I ragazzi, in piccoli gruppi o individualmente, hanno lavorato su uno dei seguenti progetti: 1) Un viaggio per non dimenticare, di Dacia Maraini; Il ghetto, di Jan Karski.2) Graphic novel: Maus, di Art Spiegelman; la biografia a fumetti di Anne Frank, di S. Jacobson 3) Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, di T. Geve. Al termine dell’attività di analisi e comprensione dei vari testi, hanno manifestato le loro considerazioni personali in varie forme espressive come lettere, articoli di giornale, fumetti e pannelli.

Nella classe 3G, guidata dalla professoressa Deborah Tosi, la memoria dell’Olocausto ha assunto le sembianze e la voce della senatrice Liliana Segre, testimone diretta della tragedia e protagonista del libro Fino a quando la mia stella brillerà. La lettura è stata accompagnata da discussioni sul contesto storico e sui terribili eventi che hanno fatto da sfondo alle vicende del romanzo.

I laboratori creativi ai quali hanno partecipato i ragazzi hanno inoltre prodotto numerosi lavori: mail art, libri pop up, disegni, installazioni, lap book, interviste, relazioni e presentazioni multimediali.

Il percorso tra i libri e le testimonianze dirette accompagnerà ancora i nostri ragazzi anche nel corso del secondo quadrimestre perchè la memoria attraverso le loro voci deve continuare a risuonare per sempre.

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