Pensieri intorno ad uno smartphone cacciato di scuola

Pensieri intorno ad uno smartphone cacciato di scuola

di Giovanni Fioravanti

Come volavo con la mente fuori dall’aula, oltre la finestra! Là, fuori, c’era la vita, quella vita che lì, dentro alla scuola, restava sospesa tra le mura della classe. Una vita che brulica, che vive. A scuola si va per imparare la vita, ma la vita resta sempre fuori, la vita che si impara a scuola non è quella viva, ma quella già morta da molto tempo.

A scuola bisogna astrarre la mente dalla vita, concentrarsi sulla sua rappresentazione senza alcuna distrazione, se no non si impara. Eppure è strano perché prima di mettere piede a scuola quello che ci siamo imparati ce l’ha insegnato lei direttamente, la vita, semmai senza tanti riguardi, ma da lei abbiamo appreso quello che siamo. Si sa, alla scuola quello che siamo non gli va bene, la scuola deve formare, raddrizzare le storture, educare, condurci fuori da noi stessi assimilando il verbo docente, il verbo passivo delle parole ascoltate o lette per essere imparate, mandate a memoria, ritornate alle orecchie dell’insegnante così come sono state confezionate per la nostra mente, per la nostra età, che non siano indigeste e storte, che non vadano di traverso, ma ritte e perfette.

Perché la scuola è per carattere riservata, non ha mai amato confondersi con il succedersi degli avvenimenti di fuori, perché il sapere a scuola ha una sua aristocrazia, tramandata di generazione in generazione e più è tramandata più il sapere è nobilitato. Non esistono i quarti di sapere, qui la nobiltà è del casato a cui il sapere appartiene, ognuno con le sue arme, sono discipline, sono materie d’antiche discendenze, già dai Trivi e dai Quadrivi.

Spazio e tempo mutano ritmo e dimensione. Lo spazio è tra il banco e la cattedra, tra le entrate e le uscite, come la vita, anche spazio e tempo restano là fuori. Il tempo si scandisce per suoni di campanelle, per il succedersi di figure alla cattedra, le durate sono ore che, sebbene non siano le ore piene, fanno gli orari quotidiani, settimanali per riempire l’orario e il diario, congiunzione tra dies e orario.

Un tempo usava dire se non studi vai a lavorare, poi anche il lavoro è mancato e ora a non studiare si rimpingue la schiera dei Neet.

Non so come l’avrebbero interpretata gli antichi per il quale lo studio era ozio dai negotia, attività improduttiva, di regola per pochi privilegiati.

Ora non è più un privilegio ma un sortilegio, una sorta di divinazione, un’estrazione a sorte della vita, se la scuola che hai scelto di frequentare ti riserverà più sorprese che delusioni, se sarà un lungo parcheggio o una palestra d’addestramento, se il tuo cervello sarà spento o tenuto sveglio.

Pare che al privilegio sia subentrato il merito. Giusto, democratico! Se non fosse che al merito manca proprio il merito, cioè cosa sia merito e cosa non lo sia. Certo studiare a scuola è merito, mancherebbe altro, è merito dalla notte dei tempi, e dalla notte dei tempi a scuola il merito si misura con i voti. Ma attenzione, qui ci sta l’inganno, o l’equivoco. Perché non è vero che il merito riguarda lo studiare, il merito riguarda solo quello che possiamo definire il risultato dello studio, che a scuola si chiama profitto, il quale deve passare al vaglio delle interrogazioni, dei compiti in classe, o delle verifiche come oggi si usa dire, e degli esami. È il merito della riuscita, della produttività, come a quel merito si arriva conta poco, poco interessa, ciò che pragmaticamente conta è il risultato. E perché il risultato non sia truccato e, dunque, il merito immeritato, a scuola è severamente vietato suggerire e ancor più copiare.

E poi il merito è condotta. Da piccolo la parola condotta l’avevo sentita usare in casa mia solo a proposito del medico, che poi non era condotta, ma condotto, il medico condotto. La condotta era il contratto che i comuni stipulavano col medico, non era una questione di comportamento come a scuola, che del resto anche la condotta dell’alunno è come un contratto stipulato con la scuola a cui corrispondono compensi e sanzioni in voti e provvedimenti.

Ecco la questione del merito, sempre quella vecchia che non cambia con il mutare delle epoche, sempre di premi e di punizioni si tratta.

E allora accostare l’istruzione al merito è come riesumare la pratica della lode e del castigo, arnesi vecchi qualunque sia il restyling a cui si ricorre per rinverdirli, per non dare ascolto ai soliti vecchi sociologi radicali alla Pierre Bourdieu, per i quali la scuola favorirebbe i favoriti e sfavorirebbe gli sfavoriti. 

Mentre ci si propone di inculcare le vecchie virtù se ne perdono per strade altre da sempre trascurate. Tipo imparare ad amare lo studio, perché bello, coinvolgente, interessante, indispensabile come l’aria che si respira. Sapersi assumere le proprie responsabilità, apprendere a comportarsi a prescindere dal merito, dai premi e dai castighi. Spogliarsi dalla cultura del peccato a cui deve far seguito l’espiazione, cultura tutta chiesastica che ancora intride le nostre scuole dei suoi miasmi.

La cultura dell’individualismo, a ciascuno il suo banco, la postazione da cui ognuno deve condurre la propria battaglia, ciascuno per sé, compagni ma estranei. Non la cooperazione ma la separazione, non il laboratorio ma l’obitorio in cui sono conservati ed esposti alla classe i cadaveri del sapere.

Quest’anno sono cinquant’anni dalla nascita dei decreti delegati della scuola, quelli con cui si pensava di dare alla scuola “il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica” (DPR del 31 maggio 1974 n. 416, art. 1).

Comunità che interagisce, attenzione bene ! non comunità che regredisce in se stessa.

Sarebbe il caso di farci su una riflessione, semmai chiedersi anche che fine ha fatto quella spinta al rinnovamento, da quale esaurimento e inversione di senso sia ora affetta, dove risieda il virus che la minaccia.

Nel frattempo, in attesa che di questo qualcuno si preoccupi, pare che ogni tipo di connessione sociale via smartphone sarà radicalmente bandita a partire dall’inizio del nuovo anno scolastico, perché a scuola interagire è sempre complesso, scrivevamo più sopra che la scuola, per carattere, è riservata!

Continua la lettura su: https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=172614 Autore del post: EdScuola Fonte: http://www.edscuola.it/

Articoli Correlati

Raffinato ma capiente: il vaso da zenzero nei dipinti

Di questo curioso vaso panciuto  mi sono accorta osservando una natura morta di Paul Cézanne del 1895 intitolata Pot de gingembre (ginger jar in inglese), cioè “vaso da zenzero“.

In effetti non era la prima volta che lo vedevo: Cézanne lo ha inserito in decine di dipinti, probabilmente per la sua forma molto semplice assimilabile a un solido geometrico (era lui quello che intendeva «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono»). Eccolo in una Natura morta con mele del 1893-1894, avvolto da una reticella dotata di manici.

Non conoscendo bene quest’oggetto, ma essendo un’appassionata di design dei contenitori (in passato ho scritto dell’aryballos, del rhyton, del calice römer e del cassone nuziale) ho iniziato a documentarmi, scoprendo una storia affascinante e un repertorio vastissimo.
Ma andiamo con ordine: cos’è esattamente il vaso da zenzero? E quando compare per la prima volta in pittura?
William Henry Hunt, Natura morta con vaso da zenzero, 1825, acquerello su carta, cm 19×25, Yale Center for British Art, Londra
Secondo gli storici nacque in Cina durante la dinastia Tang (618-907) come contenitore per le spezie. La sua forma tipica è globulare, con un collo brevissimo e una larga bocca spesso dotata di coperchio. Il vaso è generalmente in porcellana, materiale perfezionato nella stessa epoca simile alla terracotta ma basato su un impasto di caolino e quarzo. Il risultato è un prodotto particolarmente duro ma sottile, dalla superficie liscia e brillante.
Con la dinastia Ming (1368-1644) i vasi da zenzero assunsero una colorazione prevalentemente bianca e blu cobalto e decori a forma di piante, animali o paesaggi. Non mancano anche vasi di colore verde – generalmente esagonali – o decori policromatici.

Questi vasi, che intanto in Cina erano diventati oggetti preziosi di grande valore simbolico (ma ve n’erano anche versioni povere per il trasporto), sbarcarono in Europa nella seconda metà del XVII secolo con l’intensificarsi degli scambi commerciali di tè con l’Estremo Oriente. Nella stessa epoca la conoscenza della cultura cinese venne diffusa in Europa dal gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) attraverso il suo trattato La Chine illustrée de plusieurs monuments tant sacrés que profanes.Naturalmente si tratta di descrizioni piuttosto fantasiose perché il monaco non si recò mai in Cina ma utilizzò i materiali inviati dai missionari. Non solo: tutto il suo lavoro era teso a dimostrare che la civiltà cinese discendesse da quella egizia (per fare questo paragonò i geroglifici ai segni della scrittura cinese) e che in origine fossero cristiani (questo giustificava le missioni gesuitiche che avrebbero dovuto far “riscoprire” ai cinesi le loro radici).

Al di là di questi aspetti, la moda delle cineserie impazzò presto in tutta Europa. Avere una stanza “alla cinese” divenne quasi un obbligo in ogni palazzo reale e ben presto si tentò di imitare sia la porcellana sia le sue decorazioni (la famosa ceramica di Delft blu e bianca nasce come tentativo di copiare i vasi provenienti dalla Cina).
Stanza della porcellana, 1763-1764, Palazzo di Schönbrunn, Vienna
È in questo periodo, tra Seicento e Settecento, che il vaso da zenzero compare nei dipinti olandesi (non è un caso: gli olandesi erano grandi navigatori e commercianti) assieme ad altri prodotti costosi come calici veneziani, bicchieri römer, tazze ricavate da conchiglie nautilus, vassoi in argento, tappeti orientali nonché agrumi del Mediterraneo.Tuttavia non si tratta solo di prove di virtuosismo o di celebrazioni della ricchezza dei committenti: queste tele sono sempre vanitas, ammonimenti visivi che ci ricordano la brevità della vita e dei suoi piaceri, come suggerito nella tela seguente da un piccolo orologio aperto sul tavolo.
Willem Kalf, Natura morta con vaso in porcellana cinese, 1669, olio su tela, cm 78×66, Indianapolis Museum of Art
Juriaen van Streeck, Natura morta con tazza di nautilus e vaso di zenzero, 1660-1687, olio su tela, cm 49×41, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Appartengono a questa epoca e alla stessa area geografica alcune curiose riproduzioni in argento del vaso da zenzero cinese, con decorazioni riprese dal repertorio classico e dimensioni decisamente maggiorate. Il vaso in foto è alto 42 cm mentre gli originali cinesi vanno dai 18 ai 26 cm di altezza.

Dopo questo primo momento di gloria il vaso da zenzero ricompare nei dipinti nell’Ottocento, in un momento in cui inizia a diventare un oggetto più a buon mercato ampiamente diffuso nelle case europee.Eccolo in un quadro del 1869 dell’olandese Maria Vos (1824-1906), in cui è raffigurato un angolo di un negozio di antiquariato coi suoi ricchi decori blu che risaltano sui toni caldi dell’insieme.

Qui invece è stato dipinto nel 1876 dallo statunitense William Michael Harnett (1848-1892) con la stessa rete impagliata usata per il trasporto che abbiamo visto all’inizio nelle opere di Cézanne.

La cordicella è presente anche nella tela del 1890 del pittore americano di trompe l’oeil John Frederick Peto (1854-1907).

Il britannico Henry Stacy Marks (1829-1898) ha scelto invece di rappresentare il vaso da zenzero nelle mani dell’antiquario Frederick Litchfield, un fine intenditore di ceramiche cinesi bianche e blu, così di moda tra il 1870 e il 1890. Qui sta esaminando un vaso dell’epoca Kangxi (1662-1722).

Accanto al collezionismo di pezzi originali esisteva un’ampia produzione inglese, tedesca e statunitense che riprendeva la forma tondeggiante del vaso da zenzero applicando sulla superficie colori e decori di tradizione europea. Ne sono stati realizzati anche esemplari con motivi vegetali in rilievo, in stile Art Nouveau, e con finiture iridescenti a lustro. Ma i pittori preferivano sempre gli originali!

Il vaso da zenzero era un oggetto talmente famoso che alcuni artisti erano anche grandi collezionisti. Tra questi lo statunitense James Abbott McNeill Whistler (1834-1903), proprietario di una collezione di oltre duecento pezzi (non solo barattoli da zenzero…), di cui alcuni visibili in questo Autoritratto nello studio del 1865.

Whistler è anche autore di un disegno in stile giapponese del 1878 che raffigura il tanto amato vaso cinese…

… nonché dell’allestimento tra il 1876 e il 1877 della Peacock Room (stanza del pavone) per le porcellane cinesi del magnate britannico della navigazione Frederick Leyland, nella sua casa di Londra (oggi la stanza è esposta allo Smithsonian di Washington).

Qualche anno dopo, esattamente nel 1885, un bel vaso da zenzero esagonale, di colore turchese, compare in un’insolita natura morta di Vincent van Gogh, circondato da alcune mele e usato come vaso da fiori.

Quella di riempirlo di fiori è una scelta abbastanza frequente, come dimostrano tanti dipinti di fine Ottocento/inizio Novecento.
Floris Arntzenius, Nasturzi in vaso da zenzero, 1890-1925
George Hendrik Breitner, Vaso di fiori, 1900-1923
Frans Oerder, Anemoni in vaso da zenzero, 1910-1944
Un vaso da zenzero con fiori si trova anche in un suggestivo dipinto del 1916 dell’olandese Jan Mankes (1889-1920)…

… e in tanti quadri di Henry Matisse, come questa Natura morta con Pensieri di Pascal del 1924…

… e questa Natura morta con limoni del 1943.

Insomma, questo vasetto così esotico non smise di esercitare il suo fascino per oltre trecento anni! Ne restò incantato persino l’ideatore del Neoplasticismo Piet Mondian (guarda caso un olandese).Nel 1901, quando non aveva ancora intrapreso il suo percorso verso l’astrazione, ne dipinse uno esagonale, di colore turchese, assieme a cinque mele e un piatto sopra un piano ricoperto da un drappo. È chiaro che, come in Cézanne, l’intento non è la creazione di una vanitas bensì quello della ricerca geometrica e compositiva.

Il vaso da zenzero ritorna dieci anni dopo, quando Mondrian conobbe le opere cubiste di Pablo Picasso e Georges Braque, come oggetto su cui sperimentare nuovi linguaggi. Nel 1911 dipinge Natura morta con vaso da zenzero I, una vista del tavolo da lavoro che ricorda ancora le nature morte della tradizione se non fosse per il trattamento sintetico degli oggetti.

Dell’anno seguente è Natura morta con vaso da zenzero II, una composizione di gusto cubista nella quale l’unico tocco di colore è il celeste del contenitore cinese.

Sappiamo come proseguirà il suo percorso: al posto di vasi e tavoli solo linee verticali e linee orizzontali; al posto delle nuance ocra e turchesi solo toni di grigio e piani rossi, gialli e blu.
Il vaso di zenzero stava per completare il suo ciclo vitale nella pittura, ma rimane nelle opere conservate nei musei, a testimoniare il contatto creativo tra cultura materiale e riflessione concettuale e le epoche passate di fertili scambi estetici tra oriente e occidente.

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000