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Chi (e come) ha inventato l’alfabeto Braille?

Il 4 gennaio si celebra la Giornata mondiale dell’alfabeto Braille, in onore del suo inventore, il non vedente Louis Braille, nato il 4 gennaio 1809. Il codice è un metodo di lettura basato su una serie di simboli formati da punti in rilievo il cui significato è deducibile sfiorandoli con i polpastrelli. Oggi è usato in vari contesti, dai pannelli informativi ai tastierini dei bancomat, dalle confezioni dei medicinali ai biglietti da visita, consentendo ai non vedenti di accedere a informazioni scritte. Il suo inventore lo perfezionò negli anni Venti del XIX secolo, ma ci furono precedenti tentativi: vediamo quali attraverso l’articolo “Chi ha inventato l’alfabeto Braille” di Matteo Liberti, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Alfabeto in 3D. Dopo secoli di inaccessibilità totale ai testi scritti, i primi espedienti per aiutare chi era cieco si basarono, semplicemente, sull’uso di caratteri alfabetici e numerici a tre dimensioni, prodotti con cera, legno o elementi metallici. Dopodiché, attorno alla metà del XVII secolo, il gesuita bresciano Francesco Lana de Terzi (eclettico personaggio noto anche per i suoi studi in ambito aeronautico) mise a punto un innovativo sistema di codifica tattile basato sull’uso di particolari linee in rilievo, realizzate con fili annodati tra loro, da sfiorare con le dita e da interpretare in base alla lunghezza e alla disposizione.

Questa proposta, per quanto ingegnosa, risultò poco efficace e non ebbe successo. Si tornò quindi a utilizzare lettere in rilievo, come fece nel 1784 il francese Valentin Haüy (fondatore l’anno seguente, a Parigi, dell’Istituto nazionale dei giovani ciechi), che ideò un particolare sistema di riproduzione tridimensionale delle lettere su fogli di cartoncino.

Louis Braille (1809-1857) ebbe un incidente a tre anni: un punteruolo gli perforò l’occhio sinistro. L’infezione che ne scaturì compromise anche l’occhio destro. Braille non rinunciò a studiare e divenne organista, pianista e violoncellista di talento. La sua voglia di imparare in autonomia lo portò a inventare il codice Braille.
© rook76/ Shutterstock

Un codice tattile. Anche questa soluzione si rivelò poco pratica, sia per le difficoltà di produzione dei testi sia per i tempi di lettura. Fu così che tornò in auge l’idea di usare un codice tattile che non riproducesse le lettere nella loro interezza, ma che le tramutasse in segni diversi. In principio ci si limitò a stilizzare le linee grafiche delle lettere alfabetiche, poi si passò a una forma di codifica basata sull’uso di piccoli punti in rilievo.

DA leggere al buio. Precursore del sistema incentrato sull’utilizzo dei punti, più immediati da decifrare rispetto alle linee ideate da Lana de Terzi, fu il francese Charles Barbier de la Serre, che mise a punto il proprio metodo intorno al 1815. Era un militare e partì dall’esigenza di creare una speciale “scrittura notturna” per consentire ai soldati di leggere messaggi anche al buio.

Prese spunto dalla “scacchiera di Polibio” (sistema crittografico concepito nel II secolo a.C. dallo storico greco), consistente in una tabella quadrata con 25 caselle, ognuna occupata da una lettera individuabile tramite precise coordinate numeriche. All’incrocio tra la riga 1 e la colonna 1 c’era per esempio la “A”, mentre la posizione 5-5 (quinta riga, quinta colonna) indicava la “Z”.

Qualche complicazione… Partendo dal suo schema, Barbier elaborò una tabella con 36 caselle (sei righe per sei colonne) a ciascuna delle quali corrispondeva un suono della lingua francese (la peculiarità del suo metodo era la rappresentazione delle parole non con le lettere dell’alfabeto, bensì con i suoni che vi corrispondevano). Fatto ciò, identificò ogni coppia di cifre attraverso una serie di punti realizzati in rilievo su una tavoletta (o tramite fori).
Nel dettaglio, i punti utilizzabili erano dodici per ogni suono dell’alfabeto: sei per indicare la numerazione delle righe e sei per quella delle colonne (se apparivano tre punti e poi due, la posizione indicata era la 3-2, e così via). Il sistema funzionava, ma era poco intuitivo e troppo complicato per potersi affermare.

L’intuizione di Braille. A semplificare il tutto ci pensò Louis Braille, il quale, frequentando l’istituto per ciechi di Parigi, si avvicinò al metodo di Barbier e ne migliorò l’efficacia. Nello specifico, propose un sistema che prevedeva non più 12 punti in rilievo per indicare ogni lettera, ma la metà (ossia tre file verticali di due punti ciascuna, a formare un ideale rettangolo grande quanto il polpastrello).
A seconda del numero degli elementi in rilievo e della loro disposizione, si potevano associare le combinazioni di punti a lettere dell’alfabeto, numeri e punteggiatura (oltre che a note musicali). Il metodo, presentato nel 1829, risultò funzionale e rapido, e fu accolto in tutto il mondo – vista la facile adattabilità a ogni lingua – fino a diventare il sistema di riferimento.

Nuovi sviluppi. Grazie all’evolversi della tecnologia, nel XX secolo il Braille divenne riproducibile su carta, prima con speciali macchine per scrivere, dette “dattilobraille”, poi attraverso stampanti digitali in grado di imprimere rilievi sui fogli.
Oltre a ciò, in aiuto ai non vedenti, con vari elettrodomestici e periferiche ad attivazione vocale, sono arrivati congegni ottici digitali in grado di leggere testi e riconoscere immagini per poi riportarne il contenuto all’utente tramite sintesi vocale (l’ultima frontiera in questo senso è rappresentata dagli “occhiali intelligenti”, o smart glasses) oppure trasferirlo a dispositivi di codifica detti “barre” o “display” braille.

Questi strumenti somigliano a piccole pianole con, al posto dei tasti, delle celle bucherellate in cui, a seconda del testo da decifrare, spuntano piccoli rilievi da sfiorare con le dita (in tali dispositivi, peraltro, i punti sono otto anziché sei).

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