Ieri, 8 marzo, era la “giornata internazionale” della donna, e pertanto la televisione ed i social non hanno mancato di subissarci con la solita tiritera della violenza sulle donne e sulla necessità di rispettarle. Ora io dico questo anzitutto: che se fossi una donna mi indignerei per queste celebrazioni di facciata, non solo perché una giornata di per sé non rappresenta nulla e passa subito, ma anche perché le donne sono più della metà della popolazione mondiale, e quindi non possono essere ridotte a “categoria” o gruppo particolare da celebrare, come si fa con i carabinieri o gli operatori sanitari. In secondo luogo trovo del tutto fuori luogo questa insistenza su aspetti della vita sociale che riguardano tutti i cittadini, non solo le donne: la violenza è da condannare sempre, contro chiunque si rivolga, e quella contro bambini, uomini ed anziani non è certo meno deplorabile di quella sulle donne; e altrettanto vale per il rispetto, che si deve a tutti indistintamente e non solo ad un genere.
Detto questo, vorrei estendere un po’ il discorso al femminismo ed agli errori che ha fatto e che continua a fare. La richiesta della parità di diritti e delle opportunità è sacrosanta e non ci dovrebbe esser bisogno, oggi nel 2021, di combattere per questo; è vero infatti che nei secoli e nei decenni precedenti c’era discriminazione, ma oggi la situazione è molto cambiata: le donne rivestono tutte le funzioni riservate un tempo ai maschi, arrivano ad occupare le più alte cariche dello Stato, alcune di loro sono ministri ed una addirittura presidente del Senato. Io francamente non vedo oggi tutte queste discriminazioni, e se ve ne sono non dovrebbe essere difficile rimediare: la differenza di salario tra i dipendenti uomini e donne, che c’è solo in alcuni ambienti privati e non certo nel pubblico, può essere sanata con un semplice intervento legislativo. Gli altri casi dipendono da iniziative private del tutto illegali, come licenziare una donna perché è in maternità, ma qui la responsabilità è del singolo e non avviene per maschilismo o odio verso le donne, ma solo per mero interesse economico: e anche qui lo Stato dovrebbe intervenire con leggi adeguate. Ma questi problemi, che pur ci sono, non debbono far dimenticare che anche gli uomini possono essere oggetto di discriminazioni e ingiustizie: nelle cause di separazione e divorzio, specie quando ci sono figli, i giudici tendono pregiudizialmente a dar ragione sempre o quasi alla moglie, assegnandole i figli e la casa coniugale di proprietà del marito, che spesso viene sfruttato e depredato dagli alimenti che deve corrispondere e talvolta costretto persino a dormire in macchina. Uno scempio intollerabile in un Paese civile, di cui si parla poco, mentre si parla sempre dei presunti diritti delle donne violati. In questo caso è l’uomo che dovrebbe chiedere la parità di diritti e di opportunità.
Forse perché non ci sono fatti più gravi da richiamare, le femministe di oggi starnazzano su aspetti del tutto assurdi, come la necessità (secondo loro) di declinare al femminile tutti i sostantivi indicanti mestieri o cariche pubbliche: così hanno inventato orrori linguistici come “ministra”, “prefetta”, “sindaca” e peggio ancora (chissà che tra poco non pretendano che si dica “fabbra” o “falegnama”!) e si sono scagliate con violenza da Arpie contro la povera musicista Beatrice Venezi che, in occasione del festival di Sanremo, ha detto di volersi chiamare “direttore” invece che “direttrice”, perché nel linguaggio musicale la parola al femminile non esiste. Io stesso ho subito su Facebook una serie di insulti da ragazzine maleducate che vivono ancora nell’odio contro il genere maschile e ritengono che cambiare le parole possa risolvere i loro problemi. Un’altra stupida manifestazione del “politicamente corretto”, pensiero unico della sinistra che già tanti guai ha combinato nel nostro Paese.
Ma gli errori del femminismo “storico”, quello che si è manifestato dagli anni ’70 ad oggi, sono altri ed hanno provocato in società danni irreparabili. Ci si lamenta giustamente dello scarso numero delle nascite in Italia. Ma da cosa deriva questo triste fenomeno della denatalità se non dal cambiamento ideologico del genere femminile, che antepone la carriera e il divertimento personale alla necessità della famiglia e della maternità, che è il ruolo specifico che la natura ha attribuito alla donna? Oggi moltissime donne non sentono più il desiderio di maternità che dovrebbe essere insito in loro, perché dare la vita è la missione più bella che una donna possa compiere. No, oggi pensano alla cosiddetta “realizzazione” di se stesse, senza considerare che la maternità dovrebbe essere la loro più completa realizzazione. Certo, lo Stato dovrebbe aiutare la maternità in modo molto più ampio di quando non faccia adesso, ad esempio garantendo alle madri la possibilità di lavorare e assicurando a tutti i bambini il posto negli asili nido, cosa che oggi purtroppo non avviene; ma le inefficienze dello Stato ed i problemi economici non sono gli unici motivi del fenomeno; alla base di esso c’è un cambiamento del costume portato dal femminismo. Il lavoro per le donne, la loro indipendenza economica sono intoccabili, nessuno oggi sostiene ch’esse dovrebbero stare a casa e fare le casalinghe, ci mancherebbe altro; ma ciò non dovrebbe significare il rifiuto della vita di coppia e della maternità, triste risultato di una campagna di odio e di falsità durata per decenni.
L’evoluzione del costume femminile dovuta al femminismo ha portato anche altre conseguenze negative: una, che io ritengo grave anche se da molti non è considerata tale, è che molte donne hanno male inteso questo desiderio di parità con gli uomini, cioè lo hanno interpretato come la necessità di diventare uguali a loro, imitarli cioè nel bene ma soprattutto nel male. Così ci sono state molte donne che hanno assunto ruoli maschili anche nei peggiori ambienti della vita sociale, come ad esempio la criminalità; ma lasciando stare i casi estremi, quel che emerge chiaramente da questa tendenza è la rinuncia di tante donne alla femminilità, come se fosse una tara o un peso da togliersi di dosso. Così molte di loro si sono dedicate a sport un tempo solo maschili (il calcio ad esempio, o peggio il pugilato!) sacrificando e mortificando la loro natura, che dovrebbe essere incline all’amore e alla dolcezza, non certo a dare calci al pallone o a prendere a pugni l’avversaria. La femminilità, che è la qualità più attraente in una donna ancor più della bellezza, è stata da molte rifiutata perché ritenevano che per vincere sull’odiato maschio fosse necessario diventare uguale a lui: di qui il dilagare della volgarità, del turpiloquio, della sciatteria, tutte cose che, se sono sconvenienti in un uomo, tanto più lo sono in una donna. E anche l’aspetto esteriore, il modo di presentarsi e di vestire, ha risentito di questa mentalità assurda: oggi moltissime donne portano pantaloni tutti i santi giorni, non indossano mai una gonna o un vestito che sono segni tipici della femminilità, non si curano fisicamente e talvolta trascurano persino l’igiene personale. C’è da fare loro i complimenti, certo, per questi esiti del femminismo! Se è questa la parità con l’uomo che volevano raggiungere, c’è da rallegrarsi: in questa società volgare e ignorante l’obiettivo è stato raggiunto in pieno.