Balilla Moschettiere

Memorie di un antifascista

di Maurizio Tiriticco

SOMMARIO

Premessa  /  Torino… verso Santa Rita sognando…  /  Roma! Italico Sandro Mussolini  /  Un Sole libero e… giocondo  /  Finalmente l’Impero  /  La guerra di Spagna  /  Nonna Zenaide  /  Ostia, o meglio il Lido di Roma!!!  /  I Navicellari  /  L’agognato ginnasio  /  Il Patto d’Acciaio!  /  Piazza capitan Consalvo  /  Il cursus honorum  /  Il Duce al Lido di Roma!!!  /  Finalmente la guerra!  /  Le prime vittorie  /  I compagni di gioco e… di avventura!!!  /  La prima sigaretta  /  La scoperta del sesso  /  Le reni della Grecia…  /  …ma anche …

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28 aprile 1945: Mussolini e Petacci vengono uccisi

Chi sparò i colpi fatali? Una ricostruzione dei fatti attraverso l’articolo “Chi ha ucciso Mussolini?” di Maria Leonarda Leone, tratta dagli archivi di Focus Storia.

La cronaca. Arrivarono in tre, nel pomeriggio, a prelevarli dalla cascina dei De Maria, nella frazione di Bonzanigo (Como), dove avevano passato la prima notte di prigionia. Li fecero salire su un’auto e, dopo pochi, lenti, chilometri in discesa, uno di loro diede l’alt. Li fecero scendere in una stradina tranquilla e li misero in piedi tra il muro e il pilastro del cancello di un’elegante residenza. Poi, imbracciando il mitra, uno di loro sentenziò: “Per ordine del Comando generale del Corpo volontario della libertà, sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. Claretta Petacci, appoggiandosi al suo uomo gridò: “Mussolini non deve morire!”. “Togliti di lì, se non vuoi morire anche tu”, le intimò il partigiano con i gradi da colonnello. Ma la sua arma si inceppò. Gli passarono una pistola: anche quella non sparava. Il terzo tornò indietro di corsa, dal fondo della strada, con il suo Mas e fece partire una raffica. Un occhio del duce però si muoveva, roteava verso l’alto: due colpi di beretta e fu finita.

La fine del fascismo. Intorno alle 16:10 di quel 28 aprile 1945, un uomo di mezza età e la sua amante esalarono il loro ultimo respiro davanti al cancello di Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, una ventina di chilometri da Dongo, la cittadina sul lago di Como dove, il giorno prima, erano stati catturati dai partigiani della 52a brigata Garibaldi. “La fucilazione di Mussolini e complici”, si legge nel comunicato con cui, il giorno seguente, i vertici del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia rivendicarono l’ordine di uccidere il duce, “[…] è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali, è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ricostruzione”.

Chi lo uccise? Era la fine simbolica del fascismo, ma l’inizio di un rincorrersi di ricostruzioni e interrogativi: chi erano quei tre uomini? Chi sparò i colpi fatali? E i fatti si svolsero davvero così come li abbiamo raccontati? In realtà quella che avete letto è solo una delle oltre trenta ipotesi al riguardo. E altre se ne aggiungono ogni volta che un nuovo particolare o un nuovo studio scompiglia le mille carte già sulla tavola.

«Il problema è che i responsabili dell’uccisione di Mussolini non furono immediatamente chiari su come andarono le cose: questo ha dato modo, soprattutto a negazionisti ed ex fascisti, di creare miti e contraddizioni sulla morte del duce, per difendere la sua immagine e il retaggio storico del fascismo», nota Amedeo Osti Guerrazzi, storico del fascismo, saggista e docente all’Università di Padova. «Ma la verità è che a uccidere Mussolini fu il “colonnello Valerio”, l’uomo inviato da Milano a prelevare Mussolini e la Petacci per fucilarli».

Chi era il “colonnello”? Per due anni, a partire dall’ultimo rimbombo degli spari nella stradina davanti a Villa Belmonte, il suo vero nome non lo seppe nessuno. Se non, forse, i diretti interessati. «Dopo la guerra, il Partito comunista nascose l’identità dell’uomo che aveva materialmente ucciso Mussolini, per paura di rappresaglie, vendette e ritorsioni», prosegue Osti. «Non dimentichiamo che stiamo parlando della fine di aprile del 1945: la guerra in Italia terminò il 2 maggio, ma c’erano ancora molti fascisti armati, in giro, e le violenze continuarono per mesi». Poi, nel 1947, durante una manifestazione del partito a Roma, gli italiani conobbero Walter Audisio. Eccolo il “colonnello Valerio”, il giustiziere di Mussolini: un ragioniere di Alessandria, ufficiale addetto al comando generale del Corpo volontari della libertà.

Crime story. Fu lui a raccontare, in una serie di cinque articoli apparsi su l’Unità, la dinamica dell’uccisione del prigioniero di Predappio, durante una missione cui avevano preso parte anche i partigiani Michele Moretti, detto “Pietro”, commissario politico della 52a brigata Garibaldi, e Aldo Lampredi, nome di battaglia “Guido”, uomo di fiducia del futuro segretario del Partito comunista italiano Luigi Longo.

LA VULGATA. Ma la versione di Audisio, che lo storico Renzo De Felice ribattezzò in senso spregiativo “la vulgata” del Partito comunista, non convinse tutti e da allora non smise di modificarsi. Un consiglio? Preparate i popcorn, perché negli anni successivi, come in una complicata serie crime, la morte di Mussolini si arricchì di particolari, nuove testimonianze e veri o presunti misteri, di ritrattazioni, di protagonisti, di diversi “colonnello Valerio” e di altri papabili uccisori del duce.

LA PISTA RUSSA. Il mistero. Mutò persino, a seconda dei racconti, l’atteggiamento del condannato di fronte alla morte, con quell’arrogante “Viva l’Italia!” della versione di Moretti o lo stoico “Mirate al cuore” ricordato da Lampredi, che mal si accordano con l’immagine dell’uomo atterrito e “docile come un canetto” descritto da Audisio.

«Non conosceremo mai le ultime parole di Mussolini, così come molti altri particolari della sua morte: se da una parte c’era la necessità dei fascisti di esaltare il loro capo, dall’altra c’era, infatti, quella dei comunisti di sminuire la sua figura», nota Osti. «È certo, però, che a forza di ripeterle, certe storie vennero tramandate e diventarono realtà».

Colpo accidentale? Torniamo per un attimo davanti al muretto di Villa Belmonte e guardiamo di nuovo la scena, stavolta seguendo, tra i tanti, il racconto dell’ex partigiano Luigi Carissimi Priori, che, dopo la Liberazione, come commissario capo dell’ufficio politico della Questura di Como, venne incaricato di indagare sui fatti del 28 aprile: “Walter Audisio, Michele Moretti e Aldo Lampredi. Tutti e tre hanno usato le armi. […] Era evidente che avevano agito in concorso tra di loro. Forse ci fu un diverbio, nell’attimo in cui avvenne il passaggio delle armi da Moretti ad Audisio […] L’ipotesi più probabile è che il primo colpo sia partito accidentalmente dal mitra di Moretti, esploso da quest’ultimo mentre l’arma gli veniva strappata di mano con violenza da Audisio”. Che a Moretti spettassero oneri e onori della morte del duce lo confermerebbe un documento, pubblicato nel 2016 ma datato 15 maggio 1945, firmato dal comandante della piazza di Como, Oreste Gementi: “Secondo gli accordi presi con la Missione militare russa, che in questi giorni ha preso contatto con il nostro CLN”, si legge, “consegnamo [sic] alla stessa, per il Museo Militare di Mosca, l’arma con la quale il partigiano “Pietro” delle formazioni garibaldine del Lario ha giustiziato Mussolini”.

Contraddizioni. Peccato che in Russia nulla si sappia di quel famoso mitra francese, un Mas modello 38, che sarebbe esposto, invece, nel Museo nazionale di Tirana dal 1957, quando Audisio lo avrebbe consegnato all’ambasciatore albanese a Roma. Che dire, allora, delle confidenze di Palmiro Togliatti, pubblicate nel 1997 dal giornalista Massimo Caprara, all’epoca segretario personale del leader del partito comunista? Togliatti, confermò Celeste Negarville, primo direttore dell’Unità, “si premurò d’una cosa soprattutto: proteggere il funzionario kominternista che è Lampredi. Non solo sottraendolo alla curiosità della gente, ma salvandolo da un’autoesaltazione che avrebbe potuto travolgerlo: sentirsi all’improvviso il vendicatore-eroe, dopo una vita grigia e ingrata. Lui ha sparato a Mussolini”.

SERVIZI SEGRETI. Nel gioco del toto-nomi si inseriscono i due rapporti di Valerian Lada-Mocarski, l’agente 441 dell’ufficio dei servizi strategici americani (Oss): dopo un mese di indagini, stabilì che al noto terzetto si sarebbe aggiunto all’ultimo anche il “Capitano Neri”, alias il partigiano Luigi Canali.

Sarebbe stato lui a finire il duce con due colpi di pistola, dopo che il “capitano Valerio” con un revolver e Moretti con il mitra lo avevano atterrato.

Criminali di guerra. Ma perché l’antenata della Cia avrebbe dovuto interessarsi alla ricostruzione della morte del duce? La risposta è semplice: indagare era un obbligo, dopo che si erano visti soffiare l’ambita preda. «Le clausole dell’Armistizio prevedevano la consegna agli Alleati dei maggiori criminali di guerra e del dittatore stesso, ma i vertici della Resistenza decisero di cogliere le opportunità del momento», spiega Osti. «Un processo di fronte a un tribunale straniero avrebbe permesso a Mussolini di parlare e di difendersi davanti al mondo, diventando un martire. Così, per evitare che sfuggisse alla pena di morte, optarono per un gesto rivoluzionario: chiudere i conti col fascismo una volta per tutte, uccidendo il suo capo, senza permettergli di pronunciare frasi storiche o altri discorsi alla nazione».

Versione ufficiosa. Esiste però una teoria alternativa, piuttosto accreditata, secondo cui gli inviati del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia furono preceduti di alcune ore nella loro missione. Da chi? Dal partigiano “Giacomo”, nome di battaglia di Bruno Giovanni Lonati. Negli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, l’uomo raccontò di avere ucciso Mussolini la mattina del 28 aprile, davanti alla cascina dei De Maria, prima dell’arrivo del colonnello Valerio, in una missione segreta diretta dal “capitano John”, agente dei servizi segreti d’Oltremanica. Lo scopo: recuperare un compromettente carteggio segreto (mai rinvenuto) tra il primo ministro britannico Winston Churchill e Mussolini e chiudere la bocca al duce prima che, in un eventuale processo, potesse rivelare le loro presunte intese in chiave antisovietica. A questo punto, secondo Lonati, quella del pomeriggio sarebbe stata una “finta fucilazione”, organizzata per accreditare una presunta “versione ufficiale”, dal “vero” colonnello Valerio: Luigi Longo.

UN INCIDENTE. Ma doppia fucilazione, doppi problemi. Un altro memoriale, datato 2002, attribuisce la morte del duce al partigiano toscano “Riccardo”, alias Alfredo Mordini, capo del plotone che quel giorno fucilò i gerarchi a Dongo. In questo caso, la seconda esecuzione sarebbe servita a “riparare l’imprevisto” di quei colpi partiti dalla pistola di Mordini durante una colluttazione col prigioniero. «Che la sparatoria a Villa Belmonte sia stata solo una messinscena è, fra tutte, l’ipotesi meno credibile», nota Osti. «Non c’è alcun tipo di prova, a confermarla, solo testimonianze raccolte 50 anni dopo i fatti e alcuni aspetti dell’autopsia del duce che sono stati chiariti, più di recente, da analisi scientifiche».

Autopsia. Nello specifico, si tratta del riesame dell’autopsia del 1945, condotto 60 anni dopo da Pierluigi Baima Bollone, docente di Medicina legale all’Università di Torino. L’anatomopatologo smentì la presunta rigidità dei cadaveri, usata per anticipare la morte dei prigionieri alle 5:30 del mattino. E spiegò che la mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini non significava che fosse stato ucciso prima di mangiare latte, polenta, pane e salame servitigli dalla signora De Maria a mezzogiorno. Semmai che si era limitato a fare un pasto molto leggero a causa della sua ulcera. Una spiegazione banale e poco eroica, come banali e poco eroiche possono essere, a volte, la Storia e la verità.

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25 aprile 1945: le foto della Liberazione

Storia romana per alunni del serale

Viste le lacune di molti e le difficoltà ad affrontare programmi completi con gli alunni del serale, ho pensato di sintetizzare in un unico file tutta la storia romana. Un’impresa ardua, ma ci ho provato! Molto spesso gli alunni dei percorsi serali sono persone che hanno frequentato i primi anni di scuola superiore e poi hanno interrotto gli studi; quando tornano a scuola sono passati anni, in alcuni casi anche decenni, per cui ricordarsi la storia antica è veramente difficile. Si trovano, così, a dover affrontare direttamente lo studio della storia medievale, se non addirittura quella contemporanea, senza ricordare o senza aver mai saputo nulla di quella precedente. Se consideriamo il fatto che la nostra storia è l’evoluzione di quella romana e che la nostra lingua e la nostra letteratura sono collegate alla latinità, allora è proprio un peccato restare con questo vuoto di conoscenza. Per questo motivo ho pensato di sintetizzare in poche pagine tutta la storia romana, sperando di lasciare qualche traccia in chi tempo per approfondire ne ha poco. Ovviamente è bene aiutare la comprensione del testo e accompagnare la lettura dello stesso con interruzioni verbali atte a puntualizzare ed esplicare argomenti accennati brevemente, in modo da fornire un quadro chiaro di oltre venti secoli di storia.

Tratti salienti di Storia Romana

La nascita di Roma fu la
conseguenza di un lungo processo, cui contribuirono non solo i latini, ma anche
molte altre popolazioni, tra cui gli etruschi, i sabini e i greci. Il
popolamento dell’Italia avviene attraverso varie sovrapposizioni di
popoli.

La fondazione di Roma è fissata
alla metà dell’VIII sec. a. C. , in quel periodo l’Italia
presenta una serie di popoli: etruschi, greci, fenici, umbri, siculi, sicani,
latini, ecc. E’ in un’ Italia dal popolamento eterogeneo, ma dominate da due
culture avanzate (etrusca e greca) che nasce Roma. Nei primi anni sono numerose
le lotte interne: Roma si espande sottomettendo i popoli che la contrastano,
primo tra tutti quello dei latini da cui i romani stessi discendono.

La leggenda della fondazione di Roma

Secondo la tradizione, Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. I romani, diventati i padroni del mondo, attribuivano alla loro città origini divine. Partendo da antiche leggende, il poeta Virgilio ( 70-19 a. C.) ne raccontò la storia nel poema Eneide. Enea, figlio di Venere, fuggito da Troia in fiamme col vecchio padre Anchise e il figlio Ascanio chiamato anche Iulo, giunse, guidato dagli dei, presso la foce del Tevere. Accolto dal re Latino, sposò la figlia mentre suo figlio Iulo fondava Albalonga (sui colli Albani, nel Lazio). Qui finisce l’Eneide, ma il racconto continua, tramandato da grandi storici di Roma (Tito Livio il più autorevole e il greco Dionigi di Alicarnasso), che hanno raccolto altre leggende. Passarono gli anni. Re di Albalonga divenne Numitore, ma il fratello Amulio lo spodestò e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa della dea Vesta rinunciando quindi al matrimonio. Tuttavia il dio Marte, invaghitosi di lei, si unì alla fanciulla e nacquero due figli, Romolo e Remo. Temendo di perdere il trono Amulio li fece mettere in una cesta e gettare nel Tevere, ma la cesta, protetta dagli dei, s’impigliò nei rami di un fico e una lupa li allattò, consentendo loro di sopravvivere.

In realtà, alcuni storici, sostengono che Romolo altri non fosse che un pastore a capo di un gruppo dedito al brigantaggio.

Dalla monarchia alla Repubblica a Roma

Dal latino Senatvs PopvlvsQve Romanvs – il Senato e il Popolo Romano = il Senato e il popolo, cioè le due classi dei patrizi e dei plebei che erano a fondamento dello Stato romano.

Durante il periodo monarchico l’organizzazione politica è basata sulla monarchia costituzionale elettiva: il potere diviso tra re, senato e comizi curiati (assemblee di cittadini romani). Romolo (romano) fu il primo dei 7 re di Roma, gli altri furono: Numa Pompilio (sabino), Tullo Ostilio (romano),  Anco Marzio (sabino), Tarquino Prisco (etrusco), Servio Tullio (etrusco), Tarquinio il Superbo (etrusco).

La cacciata dell’ultimo re espone Roma
alle mire dei popoli vicini, come Volsci, Sabini e la Confederazione latina.

La
rivolta dei patrizi, dei popoli italici, degli abitanti delle colonie della
Magna Grecia sono le ragioni che determinano l’avvento della repubblica.

I
romani si troveranno ad affrontare guerre contro i sanniti , guerre contro i
greci e contro i cartaginesi per governare in Italia, nell’Asia Minore e
nell’Africa del Nord.

Nell’VIII secolo la Grecia estendeva la sua
influenza nell’Italia meridionale; Magna Grecia viene denominata l’area
geografica colonizzata.

Dal 509 a.C. i patrizi decisero di
istituire un nuovo tipo di governo in cui le decisioni venissero prese non da
un re, ma da tutti gli abitanti di Roma: tale governo fu chiamato res
publica, ossia “cosa pubblica”. Al posto del re furono eletti due consoli,
che rimanevano in carica per un solo anno. Accanto a loro venivano eletti,
sempre ogni anno, altri magistrati che si occupavano di amministrare la città e
il suo territorio. In pratica però nei primi anni della repubblica il potere
rimase nelle mani dei patrizi, gli unici che potevano essere eletti consoli e
diventare magistrati o senatori. I plebei, ossia tutto il resto
della popolazione non appartenente alle famiglie dei patrizi, erano esclusi da
qualsiasi decisione politica.

I plebei volevano però partecipare alla vita
politica. Così nel 494 a.C. attuarono una sorta di sciopero: si riunirono su un
colle fuori dalle mura di Roma (secessione
sull’Aventino e sul monte Sacro), non svolgendo più alcun lavoro e non
partecipando al servizio militare. Sarebbero ritornati alla vita normale solo
se i patrizi avessero loro concesso di eleggere i propri rappresentanti
politici, i tribuni della plebe, e di riunirsi in assemblee formate
da soli plebei, i concili della plebe. I patrizi furono costretti ad
accettare le loro richieste. Dalla metà del V secolo i plebei ottennero altre
concessioni che permisero progressivamente la loro piena partecipazione alla
vita politica. Il conflitto tra patrizi e plebei finì nel 367 a.C.,
quando una legge stabilì che uno dei due consoli dovesse essere plebeo
(leggi licinie sestie). In questo
modo i plebei riuscirono ad avere libero accesso anche al Senato, dato che i
consoli, una volta terminato il loro anno di carica vi entravano di diritto.
Ricordiamo, però, che per accedere al consolato servivano mezzi economici che
solo una piccola parte della plebe possedeva.

Nel I  secolo
a.C. fu eletto console Gaio Mario, a
lui si oppose Silla, portavoce delle
idee della nobiltà.

La guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo avevano dimostrato che le istituzioni repubblicane (Senato, magistrature e comizi) avevano perso gran parte del loro valore e riuscivano a imporsi, sulla scena politica, generali che potevano contare sull’appoggio del proprio esercito. Morti Mario e Silla, infatti, fu la volta di altri tre generali: Marco Licinio Crasso, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare.

Fattosi valere come generale di Silla nella guerra
civile contro Mario, Pompeo venne eletto console nel 70 a.C. insieme con
Crasso.

Il Senato preoccupato che Pompeo, divenuto troppo
potente, seguisse i passi di Silla e instaurasse una dittatura, non volle
riconoscere i provvedimenti da lui presi in Oriente e rifiutò di concedere le
terre che aveva promesso come premio ai suoi soldati. Pompeo, per ottenere
quanto gli spettava, cercò quindi l’appoggio degli uomini allora più influenti
a Roma: Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare,
un patrizio che era diventato il capo dei popolari
(sostenendo gli interessi dei plebei per ottenere l’allargamento
delle basi del potere favorendo allo stesso tempo i grandi commercianti, i
finanzieri e i cavalieri; a questa fazione si opponevano gli ottimati, “i migliori”: ristretto
gruppo di famiglie che rappresentavano la nobilitas,
alla quale facevano parte le antiche famiglie patrizie e quelle plebee più in
vista. Pompeo sosteneva questa fazione).

Nel 60 a.C. i tre strinsero un patto privato, noto
con il nome di primo triumvirato, in quanto indicava l’unione di tre (tres) uomini (viri)
a capo del governo.

La
guerra civile tra Cesare e Pompeo

Nel 53 a.C. Crasso era morto e si era quindi rotto
il triumvirato. Cesare, finita la sua campagna militare in Gallia, voleva
tornare a Roma e candidarsi al consolato. Il Senato, temendo che
Cesare portasse al potere i popolari, preferì sostenere Pompeo e lo elesse
unico console. Ordinò poi a Cesare di fare rientro a Roma come privato
cittadino, sciogliendo il suo esercito. Cesare rifiutò. Nel 49 a.C. si diresse
verso Roma e a capo delle sue truppe attraversò il fiume Rubicone,
che segnava il confine del territorio sacro di Roma. Era una vera e propria
dichiarazione di guerra contro il Senato e Pompeo. Questi, consapevole della
forza di Cesare, preferì lasciare Roma e fuggire prima nel Sud Italia e di lì
in Oriente, per avere il tempo di radunare un esercito. Cesare lo raggiunse e
lo affrontò a Farsalo, in Grecia. I pompeiani furono sconfitti e
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne ucciso dal re Tolomeo XIII, che credeva così di farsi amico Cesare. Questi,
invece, lo punì per il suo atto, lo depose dal trono e consegnò il regno alla
sorella Cleopatra.

Nonostante la sua politica mirasse a non scontentare
nessuno, una parte della classe senatoria non accettò il suo enorme potere,
considerandolo un pericolo per la repubblica. Così alle Idi di marzo del 44 a.C.,
mentre entrava in Senato, Cesare fu ucciso a pugnalate da un gruppo di
senatori.

Nel calendario romano le Idi erano
il tredicesimo giorno di ogni mese, ad eccezione dei mesi di marzo, maggio,
luglio e ottobre nei quali cadevano il quindicesimo giorno.

I senatori che avevano ucciso Cesare avrebbero
voluto il ritorno della repubblica, ma troppe cose erano ormai
cambiate nella società e nell’organizzazione politica di Roma. Cesare aveva
nominato come erede nel suo testamento il figlio adottivo (nonché suo
pronipote) Gaio Ottavio. Questi prese il nome del padre Gaio Giulio
Cesare Ottaviano e, deciso prima di tutto a vendicare la morte del
padre, si alleò con Marco Antonio, luogotenente di Cesare, e con un
altro generale, Marco Emilio Lepido.  Nel 43 a.C. i tre formarono il secondo triumvirato.

Marco Antonio si innamorò di Cleopatra, la sposò e
instaurò una monarchia di tipo orientale. La popolazione romana e
il Senato iniziarono a temere che Antonio volesse costituire un regno
indipendente, sottraendo a Roma le province orientali. Ottaviano capì che era
il momento di rompere il triumvirato per ottenere tutto il potere e, messo da
parte Lepido, dichiarò Antonio nemico di Roma. Radunò quindi un esercito,
raggiunse l’Egitto e si scontrò con Antonio ad Azio, nel 31 a.C. L’esercito egiziano,
nonostante fosse più numeroso, venne sconfitto. Antonio e Cleopatra fuggirono,
ma, inseguiti da Ottaviano, si tolsero la vita. Ottaviano rimaneva ormai
l’unico incontrastato dominatore di Roma. Con Cleopatra finì l’ultima delle
grandi monarchie ellenistiche, nate dalla spartizione dell’immenso impero di
Alessandro Magno.

L’Impero
a Roma

Tredici anni dopo la morte di Cesare, Ottaviano si
ritrovava unico erede del potere del padre adottivo e doveva scegliere quale
tipo di governo instaurare a Roma: la dittatura l’avrebbe portato
all’insuccesso, così come era capitato a Cesare, e anche il modello di monarca
orientale pensato da Marco Antonio non era ben visto dai Romani. Capì che
l’unico modo per non fallire era riproporre un governo basato sulle vecchie
istituzioni repubblicane, in modo da ottenere il consenso di tutte le
classi sociali. Il primo titolo che si fece attribuire fu infatti quello
di restitutor rei publicae, colui che restaura la repubblica.
In realtà ripristinò i comizi e i concili della plebe che, come in età
repubblicana, eleggevano tutti i magistrati. Le magistrature, però, diventarono
solo delle cariche onorifiche e persero del tutto i loro
poteri, che passarono nelle mani di Ottaviano. La scelta politica di Ottaviano
metteva quindi definitivamente fine alla repubblica, ma, per come
veniva proposta, appariva ai Romani una completa restaurazione delle
istituzioni repubblicane. Nel 27 a.C. il Senato attribuì a Ottaviano il titolo
di Augusto (cioè “degno di venerazione”). Con Ottaviano
comincia di fatto l’epoca imperiale.

Ottaviano abbellì Roma con nuovi templi e monumenti.
Uno tra i più importanti fu sicuramente l’Ara pacis, l’Altare
della pace, che Ottaviano fece costruire proprio al centro del Campo di Marte,
la piazza dedicata al dio della guerra. Con quest’opera ben visibile a tutti i
cittadini, Augusto si presentava come l’iniziatore di una nuova era di
pace dopo tanti anni di guerre.

Il sistema politico creato da Augusto rimase
invariato fino all’inizio del III secolo. Questo lungo periodo di stabilità
assicurò a tutta la popolazione dell’Impero pace e benessere. Un aspetto che,
però, Ottaviano non aveva curato e che diventò spesso motivo di tensione e di
conflitto era la successione. Come scegliere il successore di un’eredità così
importante? Augusto aveva capito che la successione dinastica,
ossia l’eredità di padre in figlio o tra membri della stessa famiglia, sarebbe
stato l’unico modo per evitare forti contrasti e garantire stabilità. Così dopo
di lui si succedettero imperatori della sua stessa famiglia, la dinastia
giulio-claudia, fino al 68 d.C., quando Nerone, l’ultimo
imperatore della dinastia, morì. La successione dinastica non rimase però una
regola fissa. Dopo un’altra dinastia, la dinastia flavia (69-96),
in cui l’Impero passò dal padre Vespasiano ai suoi due
figli, Tito e Domiziano, venne inaugurato, sotto
la spinta del Senato, che sperava così di controllare maggiormente la scelta
degli imperatori, il sistema dell’eredità per adozione: ogni
imperatore prima di morire aveva il compito di scegliere (e quindi di
“adottare”) il suo successore.

Durante l’Impero di Vespasiano fu progettato e
costruito l’Anfiteatro Flavio,
inaugurato nell’80 dal figlio Tito. Questo grandioso monumento, noto con il
nome di Colosseo per le sue
dimensioni enormi, poteva contenere 50 000 spettatori. Era destinato a ospitare
spettacoli per il popolo, come le lotte tra i gladiatori e le battaglie navali,
per le quali si riempiva di acqua il centro dell’anfiteatro.

Successore di Vespasiano fu il figlio Tito che
governò soli tre anni (morì per una forte febbre) con la stessa moderazione del
padre e si trovò costretto a fronteggiare disastri naturali quali l’incendio di
Roma e l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei, Ercolano e
Stabia; domò una grave rivolta a Gerusalemme a seguito della
quale fu distrutto il tempio e iniziò la diaspora degli Ebrei. 

Alla fine del III secolo d.C., dopo un lungo periodo
di crisi, salì al potere Diocleziano, che cercò di porre lo stato
sotto il suo totale controllo.

Convinto che i cristiani
fossero un pericolo per il bene dello Stato, nel 303 scatenò contro di loro una
lunga e sanguinosa persecuzione: furono distrutti i templi,
confiscati i beni delle chiese, bruciati i libri sacri e molti subirono la
condanna a morte.

Nel 312, alla fine di  lotte sanguinose, prese il potere Costantino.
Il primo provvedimento del nuovo imperatore fu l’editto di Milano del 313 d.
C., conosciuto anche con il nome di editto di tolleranza,
perché concedeva ai cristiani la libertà di praticare la loro fede. Il
cristianesimo fu posto sullo stesso piano del paganesimo e di tutte le altre
religioni dell’Impero. Tuttavia Costantino favorì in ogni modo i cristiani:
concesse loro privilegi, diede ai vescovi incarichi importanti nella cura
dell’amministrazione e della giustizia, dichiarò la domenica giorno di festa
obbligatorio e fece costruire numerose chiese. L’imperatore si era reso conto
che il cristianesimo era ormai molto diffuso, soprattutto nelle città, e
pensava che la fede in un unico Dio e una religione di grande forza potessero
rendere lo Stato più forte e stabile. Grazie alla libertà di culto il cristianesimo
si diffuse anche in zone molto lontane dell’Impero.

Alla morte di Diocleziano, inizialmente, l’impero
aveva due padroni, Costantino in Occidente e Licinio
in Oriente. Costantino aveva ottenuto la vittoria decisiva contro il
rivale Massenzio alle porte di Roma nel 312 d. C. , anno in
cui fece costruire l’arco di Costantino per commemorare la vittoria. Nel 324
d. C. riuscì a unificare l’impero ed essere unico
imperatore. La capitale non fu portata a Roma, ma fu costruita una nuova città
chiamata Costantinopoli che divenne la capitale; politica,
cultura ed economia gravitarono così a Oriente.

Negli anni successivi alla morte di Costantino il
numero dei cristiani aumentò rapidamente finché il cristianesimo divenne
la religione più diffusa tra gli abitanti delle città:
ovunque, soprattutto nelle regioni orientali dell’Impero, si formarono comunità
cristiane molto ben organizzate sotto la guida di un vescovo. La vittoria
definitiva del cristianesimo arrivò nel 379 d.C., quando divenne
imperatore Teodosio. Egli pensava che il cristianesimo e i vescovi
fossero un valido sostegno per rafforzare la propria autorità; per questo
motivo, con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., stabilì che il cristianesimo
fosse la sola religione ammessa
nell’Impero: venivano così vietate tutte le altre religioni e gli antichi
riti pagani, definiti «insani e dementi». Era la fine del paganesimo.

La
divisione dell’Impero romano e il crollo dell’Impero romano d’Occidente

Alla morte di Teodosio, l’Impero romano fu diviso in
due: l’Impero romano d’Oriente e l’Impero romano d’Occidente. Soprattutto
quest’ultimo fu preso d’assalto dai popoli germanici (Franchi, Angli e Sassoni,
Vandali, Burgundi, Visigoti e Unni) che in alcune zone dell’Impero arrivarono a
formare dei veri e propri insediamenti.

Tra il 406 e il 407 d.C. numerose tribù
germaniche, spinte dal popolo degli Unni, varcarono il Reno e
si riversarono in Occidente alla ricerca di nuove terre da abitare. Ormai
caduto in una crisi profonda, l’Impero d’Occidente non si risollevò più.
Nel 476 il generale di stirpe germanica Odoacre,
comandante della guardia imperiale in Italia, fu acclamato re dai soldati e
depose l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. Questa data segna
il crollo definitivo dell’Impero romano d’Occidente. Le invasioni barbariche determinarono,
così, la fine dell’Impero romano d’Occidente!

Da questo momento iniziano a formarsi i regni
romano-barbarici.

In Italia il re
degli ostrogoti venne, con il sostegno dell’imperatore d’Oriente, a
scacciare Odoacre (493). Teodorico era cresciuto nella corte
romana ed era grande ammiratore della civiltà imperiale. Non volle che goti e
romani si mescolassero, proibendo i matrimoni misti, ed ebbe cura di far vivere
pacificamente i due popoli, ciascuno con le proprie leggi. Lasciò ai romani l’amministrazione del regno
e riservò ai goti la difesa militare. La sede del re
ostrogoto era Ravenna che si
arricchì di monumenti, tra cui il Mausoleo
(tomba di Teodorico) , oggi patrimonio
mondiale dell’Umanità.

Alla morte di Teodorico in Europa troviamo in Oriente l’imperatore Giustino.
Suo successore, nel 527 d. C., fu il nipote, di bassa estrazione sociale, Giustiniano.
Il suo sogno è la restaurazione imperiale. Tale obiettivo si scontra
inevitabilmente con i goti in Italia, al termine di un continuo susseguirsi di
battaglie che frastagliano l’intera Europa troveremo una Roma completamente
distrutta e spopolata.

Giustiniano non seppe comprendere come, da un punto
di vista economico, l’impero si reggesse sull’Asia e sul Medio-Oriente,
piuttosto che sull’Italia. Alla sua morte il regno era parecchio indebolito.

Lasciò ai posteri la più completa e coerente
raccolta di diritto romana, il Codice, che trovò nell’Impero
d’Oriente e nell’Italia meridionale (sottoposta ai bizantini) una chiara
affermazione.

L’Impero romano d’Occidente era oramai crollato
sotto le spinte dei barbari, quello d’Oriente – l’impero bizantino – rimaneva ricco e forte. Costantinopoli, la capitale,
era la città più ricca e grande del Mediterraneo.

Distacco
tra Oriente e Occidente

Culturalmente tra bizantini e romani c’era un’enorme
distacco: i bizantini parlavano e scrivevano in greco, lingua che
l’Europa occidentale aveva completamente dimenticato. Inoltre, i bizantini si
consideravano gli unici continuatori della civiltà romana.

In campo religioso, nell’VIII secolo, i
vescovi di Roma si opposero alla distruzione delle sacre icone (immagini
sacre solitamente dipinte su tavola), ordinata dagli imperatori di
Costantinopoli che consideravano superstizioso il culto delle immagini. Questo
è l’inizio della rottura che avverrà tra le due Chiese nell’XI secolo.

L’Impero romano d’Oriente, separatosi
dall’occidente dopo la morte di Teodosio I nel 395 d.c. dovrebbe segnare la
fine dell’impero “romano” per sostituirlo con il termine
“bizantino”, da Bisanzio, l’antico nome della capitale Costantinopoli,
oggi Istambul.

L’Impero
bizantino, tra molte lotte, terminò nel 1453 con la conquista di
Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani guidati da Maometto II. Non fu
solo un cambiamento di dominatori ma un cambiamento di civiltà, ovvero una
retrocessione di civiltà.

                                                                                                                                 Prof.ssa E. Gurrieri

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