Verso la distruzione dell’istruzione
L’intrusione degli economisti nelle sfere private degli individui. Una lettera denuncia il disegno di portare alla completa distruzione dell’istruzione.
Ormai la distruzione dell’istruzione è espressione che ben merita di essere accolta nel comune linguaggio.
Prendere conoscenza di questa deriva educativa, per contrastarla sempre più diffusamente, è di vitale importanza. Non si può ammettere che il pericolo inerente alla deriva venga sottovalutato o addirittura ignorato. Il progetto di distruggere la scuola come agenzia di autentica formazione diventa sempre più evidente. Il peggioramento legislativo, di cui una tappa rovinosa è stata la legge della cosiddetta “buona scuola”, continua ad avanzare lungo l’itinerario del Disegno di Legge 2493/2022. Disegno che con la sua insipienza mira a introdurre nell’insegnamento le cosiddette “competenze non cognitive”, trasposizione in italiano di “character skills”, riducendo drasticamente il tempo necessario per lo studio delle discipline e delle relazioni fra di esse nonché per la veridica crescita umana.
La pericolosità di questa iniziativa parlamentare, basata sull’ignoranza dell’autentica pedagogia o sulla volontà di svalutarla, non è sfuggita agli osservatori più avveduti.
Eleonora Aquilini, Presidente della Divisione didattica della Società di chimica, in una sua lettera alle Associazioni, trasmessa anche a Matmedia, ha ben individuato l’intento dei firmatari:
“Sembra che si vogliano promuovere azioni per modificare la personalità degli studenti.”
Modificare, s’intende, in senso negativo. L’obiettivo dei firmatari è proprio questo. Si tratta di interferire autoritariamente nella realtà esistenziale degli adolescenti. Se ne sono resi conto fra gli altri Giuseppe Bagni del CIDI – Centro di iniziativa democratica insegnanti e Rita Bortone nella sua qualità di Dirigente scolastica e formatrice. Opportunamente Eleonora Aquilini ha citato i loro contributi, riportando i siti ove possono essere letti e discussi.
Nel contributo di Giuseppe Bagni si evidenzia che la scuola reale è sconosciuta o volutamente disprezzata in Parlamento.
In effetti nella sede parlamentare risuonano parole suggestive, fascinose, magiche, prive di riferimento alle reali esigenze conoscitive e formative. Una di queste è per l’appunto “crescita”. Non crescita umana, ma economica, che subordina ciò che è peculiarmente umano alle esigenze capitalistiche. Un’espressione ricorrente è infatti “capitale umano” in connessione con l’altra espressione “mercato del lavoro”. Siamo di fronte alla visione di un’economia sganciata dall’etica. Gli “onorevoli” in discorso ignorano o vogliono ignorare il fondamentale contributo di Martha Nussbaum, la cui opera sull’argomento è da tempo disponibile anche in traduzione italiana col titolo, di per se stesso eloquente, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica. Cultura che può essere assicurata dalla scuola militante e non da una politica scollegata dalla realtà esperienziale di docenti e studenti.
Nel contributo di Rita Bortone viene messa in risalto la fonte di ispirazione del deleterio Disegno di Legge in questione.
L’aberrante iniziativa parlamentare si rifà principalmente a James Heckman – Tim Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano. L’importanza dei “character skills”nell’apprendimento scolastico, Il Mulino, 2017 e a Giorgio Chiosso – Anna Maria Poggi – Giorgio Vittadini, Viaggio nelle character skills. Persone, relazioni, valori, Il Mulino, 2021. Questa corrente di pensiero deborda per travolgerla contro la cosiddetta “egemonia del cognitivo” e mira a interferire col “vissuto per lo più sconosciuto dell’alunno”: così l’autrice, che conclude il suo intervento con una serie di acute domande ai Senatori chiamati a pronunciarsi in materia. Soffermiamoci su alcune di esse:
“I dati raccolti con i questionari attualmente in uso per la ricerca sulle character skills, ancora non supportati da validazione scientifica e centrati su un’analisi fattoriale, come verranno utilizzati? Per individuare quali tratti di personalità negli studenti, e per utilizzarli come? Da parte di chi?”
Le risposte si collocano nell’ambito di una nuova fase del capitalismo, come ammesso dagli stessi fautori delle “competenze con cognitive” nel momento in cui le dichiarano componenti essenziali del cosiddetto “capitale umano”.
L’esercizio del potere politico si traduce così in forme di pressione antidemocratica all’interno delle stesse democrazie.
Per risalire alle cause di tale pressione, è utile avvalersi di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, 2019 (The Age of Survellance Capitalism. The Fight for a Human Futureat the New Frontier of Power, Public Affairs, 2011). L’autrice è docente presso la Harvard Business School di Boston. Sebbene le ragioni dell’economia non le siano affatto estranee, ci mette in guardia contro l’intrusione degli economisti nelle sfere private degli individui. Il processo dell’intrusione prende avvio con il progetto di una legge da promulgare per giustificarla, prosegue con una dichiarazione di pretese, culmina nella conquista istituzionalizzata. Vengono ricordate dalla studiosa alcune allarmanti dichiarazioni di un’azienda statunitense, da cui qui si riporta solo quel tanto che basta per farsi un’idea delle loro disastrose conseguenze:
“Rivendichiamo l’esperienza umana come una materia prima di cui impossessarci liberamente […] Sulla base della nostra rivendicazione affermiamo il diritto di impossessarci dell’esperienza di un individuo per trasformarla in dati comportamentali.”
Vale a dire che il potere aziendale si propone di “strutturare e strumentalizzare il comportamento al fine di modificarlo, predirlo, monetizzarlo e controllarlo”. Il dominio sulla personalità del lavoratore consente di sottoporlo allo sfruttamento. E si pretende con impudenza che tutto questo sia addirittura un diritto.
Intanto, nell’apprendere ciò che accade in Cina in tema di controllo del comportamento, diminuisce lo stupore e cresce l’allarme.
Sul sito di ilpost leggiamo infatti quanto segue:
“I cittadini di Pechino avranno un punteggio basato sul loro comportamento. Chi avrà molti punti potrà accedere a più servizi, chi ne avrà pochi avrà la vita più difficile: e tutto sarà regolato dal governo.”
Mentre nel regime totalitario cinese si va diffondendo questo sistema di “punti sociali”, possiamo supporre che in Italia, nel procedere dell’iter legislativo concernente le “competenze non cognitive”, stia per instaurarsi malauguratamente un sistema di “punti scolastici” ideato per controllare i soggetti impegnati nei processi di insegnamento-apprendimento.
Potrà sembrare assurdo che si possa giungere qui da noi a un sistema di “punti scolastici” da assegnare in base al riscontro delle “competenze non cognitive”.
Sennonché proprio le proposte del sopra ricordato James Heckman tendono ad avvalorare il sospetto che tanto assurdo non sia. L’economista in discorso sostiene che i test cognitivi non misurano le abilità caratteriali, che necessiterebbero invece di essere misurate, per predire le possibilità di successo dei soggetti in campo lavorativo. Misurare il carattere dopo averlo insegnato: francamente questo suo sconvolgente proposito risente di una deformazione professionale da presuntuoso e sopravvalutato economista. Il fatto che tale docente di Economia e Politiche pubbliche presso l’Università di Chicago, investito di diversi altri incarichi concernenti la cosiddetta economia dello sviluppo umano, sia stato insignito del Premio Nobel, è un segno dei tempi. Tutta la storia dell’economia a partire dalla rivoluzione industriale riceve così una tremenda offesa.
La preoccupazione aumenta nell’apprendere che il programma di James Heckman andrebbe svolto a partire dai bambini in tenera età.
Per lui si deve cominciare “from ages zero to five”. Manca poco dall’iniziare all’economia perfino i nascituri. Nella sua ottica un investimento precoce produrrebbe i maggiori ritorni in capitale umano e ne trarrebbero giovamento soprattutto i bambini svantaggiati e le loro famiglie. Il tutto è sintetizzato in un grafico propagandistico che recita:
“Early Childood Development is a Smart Investment
The earlier the investment, the greater the return
Rate of Return to Investment in Human Capital”
Si va da prenatal programs a job training. L’essere umano nel suo sviluppo fin dalla nascita è ridotto a puro e semplice apprendista destinato al mercato del lavoro. Non si vuole lasciare in pace l’infanzia come età del gioco. I bambini devono essere abituati a ragionare come contabili o banchieri o industriali, mentre fin da allora vengono visti come futura forza lavoro da immettere nel mercato. La psicologia dell’età evolutiva studiata da Jean Piaget viene cestinata. I saperi necessari per l’educazione del futuro teorizzati da Edgar Morin restano ignorati. Il ragionamento si svolge in termini di skill.
Ma cosa s’intende davvero per skill?
In The Oxford Dictionary of Current English la voce skill è così definita: Ability to do something well; technique, expertise. La voce riguarda un “fare”, non un “essere”. Le cosiddette abilità caratteriali risultano quindi una mutilazione dell’io. Chi ne propugna la necessità è costretto a riconoscere la difficoltà di definirle. In un denso saggio dal titolo The Need to Address Noncognitive Skills in the Education Policy Agenda Emma Garcìa a un certo punto ammette che non esiste alcun elenco di non cognitive skills, data la difficoltà di classificarle:
“Defining noncognitive skills is as challenging an endeavor as it is to identify, classify, measure, and quantify them. Indeed, to illustrate the unique difficulty of defining these skills, we note the ongoing debate about how researchers and writers should refer to these skills (the current list includes such terms as behavioral skills, soft skills, personality traits, noncognitive abilities, character, socio-emotional skills, and noncognitive skills), as well as the sometimes controversial delimitations between cognitive and noncognitive skills, or between personal traits and learnable noncognitive skills […] A more concrete or tangible approach to getting at noncognitive skills requires listing them. To our knowledge, however, such a list does not yet exist, and indeed, this can represent one major challenge to moving this field forward. The lack of such a classification delays the development of metrics to measure and assess skills, and the design of strategies to nurture them.”
Da ciò discende che nel legiferare si tende a introdurre nel nostro sistema scolastico qualcosa che, essendo non definito, è privo di consistenza. Se poi si sarà giunti a una qualche definizione, la rovina della scuola sarà istituzionalizzata. I cosiddetti esperti ministeriali se ne faranno un vanto.
In Italia, mentre negli altri paesi si cerca di raccordare le conoscenze con le competenze, si va introducendo una frattura fra le une e le altre.
Come se esse fossero inconciliabili. Al contrario, chi conosce è competente in ciò che conosce, così come chi è competente conosce ciò in cui è competente. Non ha senso dunque prendere posizione contro la tanto deprecata “egemonia del cognitivo”. La cultura è fatta di cognizioni e di cognizione. Nel Vocabolario Treccani, se da una parte “cognizioni” corrisponde a “notizie o informazioni procurate dallo studio o acquisite per altre vie dirette”, dall’altra “cognizione” si traduce nella “facoltà di conoscere, come capacità di apprendere e valutare la realtà circostante”. Lo studio delle discipline assicura per l’appunto conoscenza e incrementa la capacità di conoscere. In ciò consiste anche il loro valore formativo.
Lo studio delle discipline è tale da assicurare anche il coinvolgimento emotivo.
L’elogio, l’incoraggiamento, il richiamo al senso di responsabilità da parte dei docenti nei confronti degli studenti non hanno bisogno di essere formalizzati. A scuola nella trama delle relazioni interpersonali si fa esperienza del trascendersi verso l’altro nel segno dell’amicizia e si va realizzando la civile convivenza. Nel momento in cui la cronaca registra il diffondersi di scontri piuttosto che di incontri, questo può sembrare un quadro idealizzato al punto da risultare idilliaco. In ogni caso è un dover essere, che non manca di concrete realizzazioni, come ben sa chi ne fa esperienza sul campo o ne prende conoscenza dall’esterno.
Purtroppo siamo nel pieno di una crisi epocale della scuola.
I ministeri dell’istruzione e dell’interno di fronte al disagio studentesco contrastato dalle forze dell’ordine ricorrono al solito linguaggio politico che elude i problemi. Quando poi si verificano episodi di contrasto fra studenti e docenti, si avverte la mancanza di un seria indagine sulle cause di simili incomprensioni. Intanto balza agli occhi l’abbondanza di esempi negativi di comportamento. La carenza di esempi positivi dipende innanzitutto dal permissivismo delle famiglie. La crisi epocale della scuola dipende dalla società piuttosto che dalla scuola stessa. In questa situazione si va legiferando per introdurre le “character skills” o “noncognitive skills”. Verrebbe voglia di indagarle nella personalità di chi si accinge a introdurle.