Quella di Matisse per i pesci rossi era una vera ossessione, una mania nata durante un viaggio a Tangeri, in Marocco, che l’artista e la moglie Amélie fecero nel gennaio del 1912.
In quella città, per lui così esotica, il pittore vide molti abitanti del luogo passare intere ore sdraiati a fantasticare, osservando incantati il pigro moto dei pesci rossi nelle loro bocce di vetro. Da quel momento i pesci rossi iniziarono a incarnare per lui la serenità, la contemplazione e il senso di un paradiso ormai perduto. Non stupisce, dunque, che compaiano in almeno quindici opere, tra dipinti e stampe.
Si tratta tuttavia di un soggetto inconsueto: i pesci rossi, introdotti in Europa dall’estremo Oriente nel XVII secolo, come ho raccontato in questo articolo, raramente venivano raffigurati in pittura. Matisse, invece, li rende spesso protagonisti assoluti dell’opera, come nella grande tela dipinta nella primavera del 1912 intitolata proprio Pesci rossi.
Qui, al centro della composizione, campeggia una vasca cilindrica con quattro pesci posata su un tavolino rotondo. Tutto intorno ci sono le piante e i mobili del giardino d’inverno della casa a Issy-les-Moulinaux, nella periferia di Parigi, dove Matisse si era rifugiato per allontanarsi dalla frenesia della capitale.
La prospettiva appare volutamente deformata: il tavolino sembra visto dall’alto mentre la vasca è vista più lateralmente. Eppure questo non disturba l’armonia della scena, dominata dai quattro pesci rossi. Questi attirano immediatamente l’attenzione anche perché Matisse ha scelto di affiancare al colore rosso il suo complementare, cioè il verde, ottenendo l’effetto di “accendere” maggiormente il rosso.
Questo espediente, che l’artista sfrutterà in tutta la sua carriera, derivava dall’esperienza fatta in seno ai Fauves, il gruppo di artisti francesi che nel 1905 rivoluzionò la pittura usando il colore in modo violento e innaturale, guadagnandosi per questo il soprannome di “belve” (in francese fauves).
Tuttavia nell’arte di Matisse non c’era nulla di aggressivo: «Quello che sogno – scriveva il pittore nel 1908 – è un’arte dell’equilibrio, della purezza e della serenità, priva di argomenti preoccupanti o deprimenti, un’arte che potrebbe essere […] un calmante, un potere calmante sulla mente, qualcosa come una buona poltrona che fornisce relax dalla fatica». Nella raffigurazione dei pesci rossi troverà proprio questo: l’essenza della semplicità e della tranquillità.
Poco tempo dopo i pesci rossi tornano in un dipinto quasi astratto, un ricordo onirico del Café Maure di Tangeri. La scena è un campo turchese in cui l’unico riferimento spaziale è una sequenza di archi a ferro di cavallo, sullo sfondo.Delle sei figure sedute o sdraiate sul pavimento si distingue solo il tono ambrato del volto e degli arti, ripreso anche dalla cornice perimetrale. In basso, per terra, una boccia sferica con due pesci rossi. Stavolta la loro presenza non è particolarmente evidente ma restano comunque il fulcro del dipinto, l’elemento attorno a cui ruota la vita lenta e meditativa dei marocchini, tanto invidiata da Matisse.
L’acquario è di nuovo protagonista assoluto in un’altra tela dell’inizio degli anni Venti: La boccia dei pesci rossi. La scena è dipinta nell’appartamento di Matisse, al terzo piano di Place Félix 1, a Nizza. Attorno alla boccia, che poggia su una cassettiera bianca dalle forme ondulate, pochi oggetti: alcuni frutti, un barattolo, un giornale ripiegato e una bottiglia. Sullo sfondo la carta da parati con motivi floreali e l’angolo di un dipinto con due figure sdraiate.
Nonostante la stilizzazione degli elementi, la scena ha una maggiore concretezza rispetto alle opere precedenti grazie all’ombra che i vari oggetti proiettano sul piano orizzontale e alla generale coerenza della prospettiva. Resta comunque quel senso di silenziosa beatitudine, di incanto ipnotico, creato dai quattro pesci rossi.
C’è tuttavia un indizio, anzi due, che ci inducono a pensare che, al di là dei significati simbolici, la ricerca sui pesci rossi e in generale sui contenitori pieni d’acqua, fosse per Matisse anche una forma di esplorazione dei meccanismi segreti della visione umana. Mi riferisco a quella macchia bruna sul lato destro della bottiglia e a quella arancione sulla superficie dell’acqua contenuta nella boccia.
Nel primo caso si tratta della carta da parati della parete retrostante che appare riflessa rispetto alla posizione reale per via della rifrazione che avviene dentro il liquido. Nel secondo caso, non si tratta di un quinto pesce a pelo d’acqua ma di uno dei quattro sottostanti che però, – anche stavolta per via della rifrazione – risulta visibile anche in superficie. Questo effetto è ancora più evidente nei Pesci rossi del 1912: in quel dipinto tutti e quattro i pesci appaiono due volte, in posizioni che però non sono quelle corrispondenti alla loro reale collocazione nell’acqua.
Vediamo come funziona questo fenomeno. La rifrazione avviene nel passaggio di un raggio luminoso da un mezzo a minore densità (come l’aria) a uno a maggiore densità (come il vetro o l’acqua) e viceversa e consiste nella deviazione del raggio luminoso dalla sua normale traiettoria rettilinea.
Quando il raggio passa da un corpo meno denso a uno più denso si assiste a un avvicinamento alla linea perpendicolare alla superficie. L’angolo di rifrazione θ1 è quindi minore di quello d’incidenza θ2. Si ha un allontanamento dalla verticale se il raggio, invece, passa da un corpo più denso a uno meno denso (l’angolo di rifrazione θ1 è maggiore dell’angolo d’incidenza θ2).
La legge che lega l’angolo di rifrazione all’angolo di incidenza è nota come legge di Snell, dal nome dello scienziato olandese Willebrord Snell van Royen che la formulò nel 1621. Questa legge afferma che il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e il seno dell’angolo di rifrazione è pari al rapporto tra l’indice di rifrazione del secondo mezzo e l’indice di rifrazione del primo.
Se l’angolo di incidenza è di 0° (dunque il raggio è perpendicolare alla superficie) il suo seno sarà anch’esso pari a 0, dunque risulterà nullo anche l’angolo di rifrazione. Ne consegue che un raggio luminoso che entra o esce dall’acqua in direzione perpendicolare, non subisce nessuna deviazione. In tutti gli altri casi si avrà una rifrazione più o meno evidente in base all’angolo di incidenza.
Il caso della boccia di Matisse è il secondo dello schema in alto: la “sorgente luminosa” infatti è costituita dal corpo dei pesci che rinvia verso il nostro occhio raggi di luce rossa. Questi raggi, che i pesci inviano in tutte le direzioni, si piegano in corrispondenza delle superfici di separazione tra acqua e aria, sia superiormente che sul lato verticale della vasca.
Accade allora che per via della rifrazione giungano al nostro occhio sia i raggi emessi verso il pelo dell’acqua sia quelli inviati verso il lato della vasca. Per questo motivo ciascun pesce viene visto due volte in posizioni che però sono solo “virtuali“, perché corrispondono all’origine del raggio luminoso se questo non fosse stato deviato. La reale posizione del pesce dentro l’acqua è una via di mezzo, ma non può essere percepita.
Quanto al ribaltamento della decorazione della carta da parati che si osserva sulla bottiglia nel dipinto del 1921, questo è dovuto a una doppia rifrazione, simile a quella che avviene in una lente biconvessa (come la lente di ingrandimento che concentra i raggi solari e innesca il fuoco…).
I raggi luminosi emessi dall’oggetto, posto dietro la bottiglia, vengono rifratti una prima volta passando dall’aria al liquido. Data la convessità della superficie, i due raggi che prima erano paralleli, iniziano a convergere (sebbene l’angolo di rifrazione sia comunque minore di quello di incidenza). Questa convergenza aumenta per via della seconda rifrazione, in uscita dalla bottiglia, al punto che i raggi si incrociano ancora prima di arrivare all’occhio umano. Per questo motivo l’oggetto che sta dietro la bottiglia apparirà ribaltato in senso orizzontale.
Non sappiamo se Matisse conoscesse le regole fisiche di questi meccanismi dell’ottica geometrica, ma il fatto che li abbia rappresentati intenzionalmente, nonostante il suo stile rapido e sintetico, è estremamente significativo. D’altra parte non aveva mai rigettato la concezione di arte come rappresentazione del reale. Secondo Matisse «Un artista deve riconoscere, quando ragiona, che il suo quadro è un artificio, ma quando dipinge, dovrebbe sentire di aver copiato la natura. E anche quando si discosta dalla natura, deve farlo con la convinzione che è solo per interpretarla più pienamente».