Dopo l’ultima pennellata, la vita dei quadri tra musei e traslochi

Com’è finita a New York la Notte stellata di van Gogh? E che ci fa la Danza di Matisse a San Pietroburgo? E che dire della Madonna Sistina di Raffaello a Dresda?

Sono tutti luoghi molto distanti da quelli in cui ha vissuto l’autore ma questo è ciò che normalmente accade dopo che l’artista ha dato all’opera l’ultima pennellata e il quadro inizia la sua vita nel mondo. Una vita che generalmente conosciamo poco perché tendiamo a concentrarci sul significato del dipinto, sulla sua descrizione, sulle circostanze della sua nascita, ignorando in che modo sia poi giunto fino a noi.

Eppure quel pezzo di storia è molto importante perché è il momento in cui l’opera è diventata ‘arte’ confrontandosi con il mondo reale in tutta la sua consistenza fisica. Scoprire le vicende di un dipinto è avvincente quanto indagarne i simboli e i segreti ma ci aiuta anche a capire quali rischi corrano le opere d’arte nel momento in cui passano di mano in mano o stanno dentro un museo.

Visto che li abbiamo citati all’inizio, proviamo a scoprire la storia dei tre quadri in apertura. Della Notte stellata di van Gogh ci siamo già occupati a proposito di cieli notturni nell’arte, ma vediamo cosa è accaduto dopo che Vincent lo ha completato, tra maggio e giugno del 1889.

Il 28 settembre dello stesso anno lo fa recapitare al fratello minore Theodorus (detto Theo) a Parigi. Il 25 gennaio 1891, solo sei mesi dopo la morte del pittore, muore anche Theo e il dipinto (assieme ad altre duecento tele) rimane alla vedova, Johanna Bonger.

La donna, pittrice anch’essa, è stata fondamentale nell’affermazione della pittura di van Gogh grazie alla pubblicazione dell’epistolario dei due fratelli e all’organizzazione di mostre con le opere di Vincent.
Quanto a Notte stellata, Jo la vende nel 1900 al poeta e critico d’arte Julien Leclercq che l’anno seguente la rivende al pittore Émile Schuffenecker.

Ma nel 1906 Bonger la riacquista per venderla alla galleria Oldenzeel di Rotterdam (che tra il 1892 e il 1906 aveva organizzato ben otto mostre interamente dedicate all’opera di van Gogh). La galleria chiude i battenti l’anno seguente e il dipinto viene acquistato da Georgette P. van Stolk, una donna di Rotterdam.

Nel 1938 Notte stellata viene comprata dal gallerista parigino Paul Rosenberg che la venderà al Museum of Modern Art di New York nel 1941.

Fino a quel momento si può dire che il dipinto non era mai stato esposto al pubblico. Ma da allora in poi la sua fama è stata sempre in ascesa, fino a diventare uno dei dipinti più famosi al mondo.

La storia de La danza di Matisse è meno avventurosa ma anche meno lieta. Venne realizzata nel 1910 assieme al pannello La musica per il mecenate russo Sergei Shchukin. Tra il 1897 e il 1907 il collezionista aveva già acquistato un centinaio di quadri tra i quali opere di Monet, Renoir, Degas, Cézanne, Gauguin e van Gogh.

Dal 1908 iniziò ad aprire al pubblico la sua collezione nella sua abitazione di Mosca ogni domenica mattina. Nello stesso periodo conobbe anche Picasso e negli anni seguenti comprò da lui quasi 50 tele.

È stato anche grazie a questo apporto culturale che si sono sviluppati in Russia il Cubismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. Purtroppo Shchukin non potè godere a lungo della sua collezione: nel 1918, con l’ascesa di Lenin, la sue opere furono sequestrate dal governo e dichiarate “proprietà del popolo” e lui fu costretto a rifugiarsi a Parigi dove morì nel 1936.

Nel 1948 la collezione di Shchukin è stata smembrata tra il Museo Pushkin di Mosca e il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, dove oggi si trova La danza di Matisse.

Ma veniamo adesso alla Madonna Sistina di Raffaello, uno dei suoi dipinti più suggestivi realizzato tra il 1513 e il 1514. Per chi non lo conoscesse è quello con il famoso dettaglio dei due angioletti affacciati alla base.

Vasari tramanda che l’opera fu commissionata da papa Giulio II nel 1512 per la chiesa del convento benedettino di San Sisto a Piacenza, ed era dedicata a papa Sisto IV, zio del pontefice e promotore della rinascita della cappella Sistina. La grande pala d’altare è rimasta nell’abside della chiesa sino al 1754 (oggi se ne può vedere una copia settecentesca).

In quella data, dopo due anni di trattative, fu acquistata dal Grande Elettore Augusto III di Sassonia, re di Polonia, che desiderava ardentemente un’opera del grande pittore del Rinascimento. Pur di averla arrivò a pagare 25.000 scudi pontifici, una cifra allora spropositata – corrispondente a svariati milioni di euro – con la quale i monaci, in gravi difficoltà finanziarie, ripianarono tutti i loro debiti.

La tela venne portata alla Gemäldegalerie, cioè la galleria di pittura, dello Johanneum di Dresda (la scuderia cinquecentesca adibita a sala di rappresentanza) e pare che per quel dipinto il sovrano abbia persino spostato il trono dicendo “Fate posto al grande Raffaello!”. Per inciso, dieci anni prima Augusto III era riuscito ad aggiudicarsi l’intera quadreria estense di Modena venduta da Francesco III nel 1745-1746 per risollevare le sue barcollanti finanze.

Ma la sua storia non finisce qui. Dieci giorni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’11 settembre 1939, la Madonna Sistina venne smontata dalla cornice e portata nei sotterranei del palazzo reale come misura di protezione da eventuali danni bellici. Ma si trattava di un nascondiglio poco sicuro per cui il 6 novembre l’opera venne trasferita nel castello di Albrechtsburg a Meissen.

Il 15 dicembre 1943 la tela venne trasferita di nuovo. Stavolta in un luogo considerato inespugnabile: un tunnel ferroviario in disuso a Rottewerndorf opportunamente climatizzato e blindato. Nello stesso luogo arrivarono l’anno seguente altre 380 opere da Dresda, giusto in tempo per salvarle dal bombardamento che tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 rase al suolo la città.

Il 12 maggio le truppe sovietiche riuscirono a localizzare il tunnel, rimasto privo di sorveglianza. Due giorni dopo la madonna Sistina fu prelevata e portata a Dresda, nel quartier generale dei russi, e da là al castello di Pillnitz, vicino la città, edificio usato come deposito del ‘bottino di guerra’. Qui venne prelevata da Michail Dobroklonki, il vice direttore dell’Ermitage, che la spedì in gran segreto al museo Pushkin di Mosca.

Il quadro però non venne esposto e i russi negarono di averlo preso tanto che per dieci anni la Madonna Sistina fu considerata dispersa. Solo nel 1955, dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953 e l’avvio di una stagione di maggiore trasparenza, i russi ammisero di averla in loro possesso ma giustificarono quell’appropriazione facendola passare per un salvataggio finalizzato al restauro.

Il 3 marzo 1955, in vista della firma del patto di Varsavia tra i paesi dell’Europa orientale, il governo sovietico autorizzò la restituzione alla Germania dell’est, territorio sotto il suo controllo. Ma, prima di rispedirla indietro, la Madonna Sistina restò in mostra al Museo Pushkin dal 2 maggio al 20 agosto. In meno di 4 mesi oltre un milione di visitatori andarono a vedere il capolavoro di Raffaello.

L’opera giunse a Berlino il 16 ottobre dello stesso anno e messa in mostra dal 27 novembre al 23 aprile dell’anno seguente. Per tornare al suo posto, a Dresda, nella galleria progettata nell’Ottocento da Gottfried Semper, dovette attendere fino al 3 giugno.

Di storie simili a queste ce ne sono migliaia, praticamente una per ogni opera d’arte. Sono spesso curiose, a volte intriganti, in alcuni casi sconvolgenti. Provocano anche un certo disagio quando rivelano come l’arte sia stata volentieri merce di scambio, trofeo da esibire, strumento di ricatto.
Le acquisizioni, specialmente quelle antiche, sono state spesso disinvolte, in casi estremi truffaldine tanto che oggi si torna a parlare con insistenza della necessità di restituire i capolavori trafugati. Ma ogni opera d’arte è un caso a sé e conoscerne la storia è il primo passo per la sua conservazione e per qualsiasi altra considerazione.

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La rifrazione nei dipinti di Matisse: fisica electronic arte

Quella di Matisse per i pesci rossi era una vera ossessione, una mania nata durante un viaggio a Tangeri, in Marocco, che l’artista e la moglie Amélie fecero nel gennaio del 1912.

In quella città, per lui così esotica, il pittore vide molti abitanti del luogo passare intere ore sdraiati a fantasticare, osservando incantati il pigro moto dei pesci rossi nelle loro bocce di vetro. Da quel momento i pesci rossi iniziarono a incarnare per lui la serenità, la contemplazione e il senso di un paradiso ormai perduto. Non stupisce, dunque, che compaiano in almeno quindici opere, tra dipinti e stampe.

Si tratta tuttavia di un soggetto inconsueto: i pesci rossi, introdotti in Europa dall’estremo Oriente nel XVII secolo, come ho raccontato in questo articolo, raramente venivano raffigurati in pittura. Matisse, invece, li rende spesso protagonisti assoluti dell’opera, come nella grande tela dipinta nella primavera del 1912 intitolata proprio Pesci rossi.

Qui, al centro della composizione, campeggia una vasca cilindrica con quattro pesci posata su un tavolino rotondo. Tutto intorno ci sono le piante e i mobili del giardino d’inverno della casa a Issy-les-Moulinaux, nella periferia di Parigi, dove Matisse si era rifugiato per allontanarsi dalla frenesia della capitale.

La prospettiva appare volutamente deformata: il tavolino sembra visto dall’alto mentre la vasca è vista più lateralmente. Eppure questo non disturba l’armonia della scena, dominata dai quattro pesci rossi. Questi attirano immediatamente l’attenzione anche perché Matisse ha scelto di affiancare al colore rosso il suo complementare, cioè il verde, ottenendo l’effetto di “accendere” maggiormente il rosso.
Questo espediente, che l’artista sfrutterà in tutta la sua carriera, derivava dall’esperienza fatta in seno ai Fauves, il gruppo di artisti francesi che nel 1905 rivoluzionò la pittura usando il colore in modo violento e innaturale, guadagnandosi per questo il soprannome di “belve” (in francese fauves).

Tuttavia nell’arte di Matisse non c’era nulla di aggressivo: «Quello che sogno – scriveva il pittore nel 1908 – è un’arte dell’equilibrio, della purezza e della serenità, priva di argomenti preoccupanti o deprimenti, un’arte che potrebbe essere […] un calmante, un potere calmante sulla mente, qualcosa come una buona poltrona che fornisce relax dalla fatica». Nella raffigurazione dei pesci rossi troverà proprio questo: l’essenza della semplicità e della tranquillità.

Poco tempo dopo i pesci rossi tornano in un dipinto quasi astratto, un ricordo onirico del Café Maure di Tangeri. La scena è un campo turchese in cui l’unico riferimento spaziale è una sequenza di archi a ferro di cavallo, sullo sfondo.Delle sei figure sedute o sdraiate sul pavimento si distingue solo il tono ambrato del volto e degli arti, ripreso anche dalla cornice perimetrale. In basso, per terra, una boccia sferica con due pesci rossi. Stavolta la loro presenza non è particolarmente evidente ma restano comunque il fulcro del dipinto, l’elemento attorno a cui ruota la vita lenta e meditativa dei marocchini, tanto invidiata da Matisse.

L’acquario è di nuovo protagonista assoluto in un’altra tela dell’inizio degli anni Venti: La boccia dei pesci rossi. La scena è dipinta nell’appartamento di Matisse, al terzo piano di Place Félix 1, a Nizza.  Attorno alla boccia, che poggia su una cassettiera bianca dalle forme ondulate, pochi oggetti: alcuni frutti, un barattolo, un giornale ripiegato e una bottiglia. Sullo sfondo la carta da parati con motivi floreali e l’angolo di un dipinto con due figure sdraiate.

Nonostante la stilizzazione degli elementi, la scena ha una maggiore concretezza rispetto alle opere precedenti grazie all’ombra che i vari oggetti proiettano sul piano orizzontale e alla generale coerenza della prospettiva. Resta comunque quel senso di silenziosa beatitudine, di incanto ipnotico, creato dai quattro pesci rossi.
C’è tuttavia un indizio, anzi due, che ci inducono a pensare che, al di là dei significati simbolici, la ricerca sui pesci rossi e in generale sui contenitori pieni d’acqua, fosse per Matisse anche una forma di esplorazione dei meccanismi segreti della visione umana. Mi riferisco a quella macchia bruna sul lato destro della bottiglia e a quella arancione sulla superficie dell’acqua contenuta nella boccia. 
Nel primo caso si tratta della carta da parati della parete retrostante che appare riflessa rispetto alla posizione reale per via della rifrazione che avviene dentro il liquido. Nel secondo caso, non si tratta di un quinto pesce a pelo d’acqua ma di uno dei quattro sottostanti che però, – anche stavolta per via della rifrazione – risulta visibile anche in superficie. Questo effetto è ancora più evidente nei Pesci rossi del 1912: in quel dipinto tutti e quattro i pesci appaiono due volte, in posizioni che però non sono quelle corrispondenti alla loro reale collocazione nell’acqua. 

Vediamo come funziona questo fenomeno. La rifrazione avviene nel passaggio di un raggio luminoso da un mezzo a minore densità (come l’aria) a uno a maggiore densità (come il vetro o l’acqua) e viceversa e consiste nella deviazione del raggio luminoso dalla sua normale traiettoria rettilinea. 

Quando il raggio passa da un corpo meno denso a uno più denso si assiste a un avvicinamento alla linea perpendicolare alla superficie. L’angolo di rifrazione θ1 è quindi minore di quello d’incidenza θ2. Si ha un allontanamento dalla verticale se il raggio, invece, passa da un corpo più denso a uno meno denso (l’angolo di rifrazione θ1 è maggiore dell’angolo d’incidenza θ2).
La legge che lega l’angolo di rifrazione all’angolo di incidenza è nota come legge di Snell, dal nome dello scienziato olandese Willebrord Snell van Royen che la formulò nel 1621. Questa legge afferma che il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e il seno dell’angolo di rifrazione è pari al rapporto tra l’indice di rifrazione del secondo mezzo e l’indice di rifrazione del primo. 

Se l’angolo di incidenza è di 0° (dunque il raggio è perpendicolare alla superficie) il suo seno sarà anch’esso pari a 0, dunque risulterà nullo anche l’angolo di rifrazione. Ne consegue che un raggio luminoso che entra o esce dall’acqua in direzione perpendicolare, non subisce nessuna deviazione. In tutti gli altri casi si avrà una rifrazione più o meno evidente in base all’angolo di incidenza.
Il caso della boccia di Matisse è il secondo dello schema in alto: la “sorgente luminosa” infatti è costituita dal corpo dei pesci che rinvia verso il nostro occhio raggi di luce rossa. Questi raggi, che i pesci inviano in tutte le direzioni, si piegano in corrispondenza delle superfici di separazione tra acqua e aria, sia superiormente che sul lato verticale della vasca. 

Accade allora che per via della rifrazione giungano al nostro occhio sia i raggi emessi verso il pelo dell’acqua sia quelli inviati verso il lato della vasca. Per questo motivo ciascun pesce viene visto due volte in posizioni che però sono solo “virtuali“, perché corrispondono all’origine del raggio luminoso se questo non fosse stato deviato. La reale posizione del pesce dentro l’acqua è una via di mezzo, ma non può essere percepita.
Quanto al ribaltamento della decorazione della carta da parati che si osserva sulla bottiglia nel dipinto del 1921, questo è dovuto a una doppia rifrazione, simile a quella che avviene in una lente biconvessa (come la lente di ingrandimento che concentra i raggi solari e innesca il fuoco…).

I raggi luminosi emessi dall’oggetto, posto dietro la bottiglia, vengono rifratti una prima volta passando dall’aria al liquido. Data la convessità della superficie, i due raggi che prima erano paralleli, iniziano a convergere (sebbene l’angolo di rifrazione sia comunque minore di quello di incidenza). Questa convergenza aumenta per via della seconda rifrazione, in uscita dalla bottiglia, al punto che i raggi si incrociano ancora prima di arrivare all’occhio umano. Per questo motivo l’oggetto che sta dietro la bottiglia apparirà ribaltato in senso orizzontale.

Non sappiamo se Matisse conoscesse le regole fisiche di questi meccanismi dell’ottica geometrica, ma il fatto che li abbia rappresentati intenzionalmente, nonostante il suo stile rapido e sintetico, è estremamente significativo. D’altra parte non aveva mai rigettato la concezione di arte come rappresentazione del reale. Secondo Matisse «Un artista deve riconoscere, quando ragiona, che il suo quadro è un artificio, ma quando dipinge, dovrebbe sentire di aver copiato la natura. E anche quando si discosta dalla natura, deve farlo con la convinzione che è solo per interpretarla più pienamente».

Quando la firma dell’artista entra nella scena

Qualche giorno fa sono stata a Palazzo Roverella, Rovigo, a vedere la mostra “Hammorshøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia“. Una bella esposizione, che consiglio soprattutto a chi non conosce ancora questo suggestivo pittore danese (se però avete letto Il mondo alla finestra, lo avete già incontrato…).

Ma non è di lui che volevo parlarvi oggi, ma di un curioso dettaglio che ho notato in un dipinto di Giovanni Bellini (1430-1516) visto alla fine della mostra, che mi ha fatto scattare la curiosità di indagare su questo aspetto.

Si tratta di una Madonna col Bambino del 1470-1480 in cui la firma dell’artista è scritta su un pezzetto di carta che, con perfetto illusionismo, sembra incollato al parapetto di marmo dietro cui stanno i personaggi. “IOANNES BELLINUS” è il nome in latino del pittore, con l’aggiunta della P che sta per pinxit, cioè “ha dipinto”.

Bellini ha usato lo stesso dispositivo anche in altre opere, imitando in alcuni casi le pieghe della carta.

Questo cartiglio trompe-l’œil non è però un semplice vezzo ma una dimostrazione di virtuosismo in un’epoca, come il Rinascimento, nella quale la capacità di imitare la realtà era considerata una delle massime virtù pittoriche. Il cartiglio, inoltre, funge da “certificato di autenticità” ante litteram con cui l’artista rivendicava la paternità dell’opera in modo inequivocabile e permanente.
L’uso del cartiglio, infine, richiama la tradizione delle iscrizioni classiche, in linea con il gusto umanistico dell’età di Bellini. La firma in latino con l’aggiunta di pinxit o faciebat era un’ulteriore affermazione del legame con la cultura classica.

Ma quello che mi interessa di più è il fatto che, grazie al cartiglio, la firma diventa un elemento della composizione. L’autografo dell’artista non viene semplicemente giustapposto all’opera ma entra fisicamente nella scena diventando parte integrante della narrazione pittorica.Questo è ancora più evidente nel suo San Francesco nel deserto del 1480, in cui il cartiglio è impigliato a un ramo secco, in basso a sinistra.

Nello stesso periodo anche Antonello da Messina ha firmato alcune sue opere dentro un cartiglio realistico. Sappiamo che intorno al 1475 i due artisti si conoscono a Venezia, dove il pittore siciliano introdusse la lezione fiamminga della pittura a olio e della resa del dettaglio. Ma non si sa chi dei due abbia firmato per primo dentro un foglietto.
Antonello però aggiungeva anche la data così da permetterci di conoscere l’anno di realizzazione dell’opera (anche se a volte ritoccava il dipinto anni dopo). Nel cartiglio del suo Salvator Mundi, per esempio, c’è scritto all’incirca “Mille simo quatricentessimo sexstage/simo quinto viije Indi Antonellus Messaneus me pinxit”, cioè “Nell’anno 1465, Antonello da Messina mi ha dipinto”.Questo cartiglio non solo autentica l’opera, ma è anche uno stratagemma visivo che contribuisce alla profondità e alla spazialità della composizione, con pieghe e ombre che lo fanno balzare in rilievo sul parapetto.

Come Bellini era veneziano di nascita anche Carlo Crivelli (1435-1495) ma nei suoi dipinti non mostra evidenti influssi di Bellini o di Antonello. La sua pittura esibisce invece un gusto per il decorativismo tardogotico. E tuttavia era un appassionato degli effetti trompe l’oeil che applicava a fiori, frutti e cartigli, apparentemente sporgenti dai quadri, come in questa Madonna col Bambino del 1480. Il cartiglio recita “OPUS KAROLI CRIVELLI VENETI”, cioè “opera del veneto Carlo Crivelli”.
Qui, per altro, di illusionistico non c’è solo il cartiglio ma anche la mosca che, per dimensioni e posizione, non sembra far parte della scena ma pare quasi posata sul dipinto, tanto che un osservatore potrebbe essere tentato di cacciarla via.

Il cartiglio non era nel Quattrocento l’unico modo per firmare un’opera dentro un elemento della scena. Jan van Eyck, per esempio, ha siglato i suoi Coniugi Arnolfini del 1434 dipingendo sulla parete di fondo della stanza le parole “Johannes de Eyck fuit hic” (cioè “Johannes van Eyck è stato qui”).Quella scritta avrebbe anche un’altra valenza e cioè quella di dichiararsi testimone della promessa di matrimonio che avviene tra la coppia in primo piano.

Andrea Mantegna, invece, sceglie un modo particolarmente erudito di firmare il suo primo San Sebastiano, quello del 1457-1459 conservato a Vienna. Qui, sul pilastro a cui è legato il martire, incide in verticale le parole greche “ΤΟ ΕΡΓΟΝ ΤΟΥ ΑΝΔΡΕΟΥ” che significano “Opera di Andrea”.La scelta del greco al posto del latino è piuttosto rara e rivela la volontà del pittore di affermare la propria identità artistica con un richiamo colto all’antichità e il suo legame con l’ambiente umanistico e accademico di Padova, città dove l’opera fu realizzata.

Tuttavia la firma dell’opera – “ambientata” o meno che fosse – non era una pratica diffusa né sempre consentita, specialmente perché l’artista lavorava su commissione per un committente o un mecenate, che deteneva ogni diritto sull’opera. La paternità del dipinto era sancita già dal contratto di commissione, cosa che rendeva superflua la firma dell’artista sull’opera stessa.Inoltre, firmare l’opera poteva essere visto come un atto di vanità o di rottura con la concezione che l’arte fosse al servizio del potere e della committenza, non dell’individualità dell’artista. Questo è il motivo per cui a volte la firma veniva mimetizzata inserendola in modo discreto all’interno della scena.
È mimetizzata, per esempio, la firma di Michelangelo sulla sua Pietà del 1497-1499. Lo scultore la incise in un secondo momento sulla fascia che attraversa il petto della Madonna poiché, davanti a un’opera così straordinaria, alcuni contemporanei la attribuirono a un artista lombardo, non credendo che potesse essere stata concepita da uno scultore così giovane (Michelangelo aveva circa 23 anni). E dunque tracciò la scritta MICHAEL·ANGELUS·BONAROTUS·FLORENT[INUS]·FACIEBA[T], cioè “fatto dal fiorentino Michelangelo Buonarroti”). Quella fu la prima e ultima volta che Michelangelo firmò un’opera.

Un altro interessante esempio di firma ambientata (e camuffata) viene da Perugino e si trova nella sua Madonna in gloria e santi del 1500. La sua collocazione è piuttosto singolare: si trova sulla ruota di legno, simbolo del martirio di Santa Caterina d’Alessandria, posata per terra e recita “PETRUS PERRUSINUS PINXIT” (“Dipinto da Pietro Perugino”).L’artista comunque firmò con il proprio nome solo un numero limitato di opere, prevalentemente pubbliche, nelle quali era importante certificare l’autore per motivi di prestigio e garanzia artistica. 

Verso la fine del Quattrocento la figura del pittore stava emergendo definitivamente come creatore individuale e non più come semplice esecutore anonimo. Si stava compiendo il passaggio dall’artigiano all’intellettuale e la firma testimoniava questo nuovo status dell’artista. Questo è particolarmente evidente nella produzione di Albrecht Dürer, che di questo nuovo ruolo era particolarmente fiero.
Le sue opere, che si tratti di incisioni o dipinti, sono tutte firmate con il suo celebre monogramma formato da una grande A che contiene una piccola D. Ma la cosa interessante è che spesso la sua firma è inserita in modo molto originale all’interno di elementi della scena. Nel Cristo tra i dottori del 1506, è posta su un foglietto che, come un segnalibro, è inserito tra le pagine di un grosso tomo in basso a sinistra.

A maggior vanto accompagnò la firma con un’iscrizione latina che recita “opus quinque dierum“, cioè “opera fatta in cinque giorni”, sottolineando sia la paternità del dipinto sia la rapidità con cui fu eseguito.
Nella Festa del Rosario, dello stesso anno, Dürer ha fatto anche di più: ha inserito il proprio autoritratto in fondo a destra, nella scena sacra, con in mano un cartiglio su cui si legge “EXEGIT QUINQUE MESTRI SPATIO ALBERTUS DURER GERMANUS MDVI” (“Albrecht Dürer, il tedesco, eseguì [l’opera] nello spazio di cinque mesi, 1506”) seguito dal tipico monogramma. Anche in questo caso, dunque, l’artista ha tenuto a precisare di aver completato il dipinto in cinque mesi, un periodo che richiama simbolicamente le cinque decine del rosario. L’iscrizione funge dunque sia da firma sia da dichiarazione della devozione con cui l’artista ha realizzato l’opera.

Nell’Adorazione della Trinità (o Altare di Landauer) dipinta nel 1511 Dürer ripete lo stesso stratagemma con un autoritratto in basso a destra a figura intera, ma in proporzioni ridotte, nell’atto di sorreggere una grande iscrizione. Qui si può leggere “ALBERTUS DURER NORICUS FACIEBAT ANNO A VIRIGINIS PARTU 1511”, cioè “Albrecht Dürer di Norimberga ha fatto [questa opera] nell’anno 1511 dopo il parto della Vergine” (dunque dalla nascita di Cristo).

Gli abiti eleganti e lo sguardo diretto verso l’osservatore rivelano l’orgoglio di Dürer per quegli incarichi e per essere stato colui che ha iniziato il Rinascimento nel nord Europa. Tuttavia normalmente la sua firma era più discreta e spesso nascosta nella scena.In questo San Girolamo nello studio del 1514 ci sono solo data e mongramma su una tavoletta stesa sul pavimento e osservata in prospettiva.

In altre incisioni la firma si trova su rocce, cartigli e insegne, distribuiti in mezzo al paesaggio.

Quella di Dürer resta comunque un’eccezione. La maggior parte degli artisti del primo Cinquecento raramente autografava le opere usando una “firma ambientata”. Ma i pochi casi sono assolutamente degni di nota. Per esempio la firma di Raffaello (RAPHAEL URBINAS) sul bracciale della Fornarina del 1520.Questa iscrizione non starebbe però a certificare la paternità dell’opera bensì il presunto legame sentimentale tra la donna ritratta (Margherita Luti, la figlia di un fornaio) e il pittore stesso.

Più curioso è il caso della firma del ferrarese Dosso Dossi (al secolo Giovanni Francesco di Niccolò Luteri) nel suo San Girolamo del 1520-1525. Si tratta infatti di un piccolo rebus congegnato con una D attraversata da un osso posizionati in basso a destra, sul terreno, a formare il nome dell’artista: D-OSSO.

Ben più macabro è l’autografo che Caravaggio ha nascosto nella sua Decollazione di Giovanni Battista del 1607-1608, unica opera firmata del pittore. Il suo nome di battesimo (si chiamava Michelangelo Merisi) è infatti parzialmente tracciato sul terreno con il sangue che sgorga dalla gola del Battista.La F che precede il nome sarebbe da ricollegarsi alla nomina dell’artista nell’Ordine dei Cavalieri di Malta, dunque si leggerebbe come “f[ra] michelangelo”. Ma la scelta di scrivere il suo nome col sangue potrebbe anche significare il pentimento di Caravaggio per aver ucciso Ranuccio Tomassoni nel 1606, fatto che lo costrinse a fuggire da Roma e a rifugiarsi a Malta.

Tra i dipinti celebri firmati in un elemento della scena va ricordato anche il celebre Ritratto di papa Innocenzo X di Diego Velázquez. Il foglio che il pontefice tiene nella mano sinistra reca la seguente iscrizione: “alla Santà di N.ro Sign.re / Innocentiox/ per Diego de Silva / Velàzsquez de la Camera di S. M.tà Catt.ca”. Questa dedica, scritta in italiano seicentesco, si può tradurre come: “Alla Santità di Nostro Signore Innocenzo X, da Diego de Silva Velázquez, della Camera di Sua Maestà Cattolica”.Sotto questa iscrizione è riportato anche l’anno di esecuzione del dipinto, il 1650. La presenza di questa scritta, che funge da vera e propria firma, non solo attesta l’autore dell’opera ma sottolinea anche il prestigio dell’incarico ricevuto da Velázquez alla corte pontificia.

Col passare del tempo e con il passaggio a un’epoca – l’Ottocento – in cui il pittore inizia a dipingere anche senza commissione, l’abitudine a firmare l’opera diventa più diffusa, dato che la tela partecipa ai Salon e l’artista ha bisogno di promuovere il suo nome. Ma proprio per questo motivo la firma non viene più ambientata e nascosta nell’opera ma diventa una sigla ben visibile apposta sulla tela, spesso in un colore contrastante. Questo è particolarmente evidente nelle tele di Gustave Courbet…

… e in quelle di Claude Monet.

A fronte di questi autori, che siglavano tutte le loro tele, Vincent van Gogh ne firmò solo una trentina usando semplicemente il nome di battesimo. In genere la firma è in un angolo della tela, ma in qualche raro caso è integrata nell’opera, come nel vaso dei girasoli autografato sopra il vaso.

Tuttavia, cercando con attenzione, si trovano ancora alcuni esempi di firma ambientata e nascosta. Uno dei più eclatanti è nella Libertà che guida il popolo, il capolavoro di Eugène Delacroix. Qui, su due pezzi di legno delle barricate, a destra del ragazzo con le pistole, si legge in rosso “Eug. Delacroix” e “1830”.Firmare su quell’elemento può essere interpretato come un modo per legare il proprio nome direttamente all’evento storico e al luogo simbolico della lotta, sottolineando così il coinvolgimento artistico e ideale di Delacroix nella rivoluzione (sembra che anche l’uomo col cilindro sia un suo autoritratto), sebbene il pittore non abbia preso realmente parte alla sommossa.

Un altro esempio ottocentesco è quello del macchiaiolo Telemaco Signorini. In tante sue opere la firma è perfettamente visibile e collocata, come da consuetudine, nell’angolo in basso a destra o a sinistra. Tuttavia è spesso inclinata vistosamente in modo da apparire adagiata sul selciato secondo la prospettiva.

In altri casi sembra dipinta sul muro di una casa.

Tutte queste firme inserite nella scena, dal Quattrocento all’Ottocento, sono per me dei dettagli estremamente affascinanti perché raccontano storie anche attraverso ciò che non si vede immediatamente e rivelano quel profondo intreccio tra arte e società che si è dipanato nei secoli in forme sempre diverse. Ma parlano anche di un dialogo segreto che l’artista intrattiene con l’osservatore, sfidandolo in una piccola caccia al tesoro. Non si tratta dunque di semplici marchi di fabbrica ma di autentiche tracce d’identità che gli artisti hanno voluto lasciare senza alterare l’armonia visiva dell’opera.

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