La madre ritratta da pittori famosi

“Uno scandalo. Con questo sentimento viene accolto nel 1787 il debutto al Salone di Parigi dell’ultimo dipinto di Elisabeth Le Brun,.”

Ho voluto iniziare con una cosa particolare.

Pensare ad un dipinto fatto da una pittrice nel 1700 è già una cosa audace.

Il fatto poi che sia un autoritratto e che si ritragga in questo modo, visibilmente presa dall’amore di mamma, è senza dubbio una cosa che va al di là delle convenzioni dell’epoca.

Ed Elisabeth Le Brun era un’artista che , senza dubbio, non perdeva occasione di distinguersi per il suo atteggiamento di rottura, non solo come artista ma anche nell’ambito privato.

Infatti ” i dettagli scandalosi dell’autoritratto femminile più famoso del mondo sono, come spiega lo storico inglese Colin Jones, la rappresentazione di un legame come la maternità in una luce intima e senza costrutto, a differenza di tutte le Maternità viste fino a quel momento.”

L’innovazione …..

Continua la lettura su: https://mastrogessetto.it/la-madre-ritratta-da-pittori-famosi/ Autore del post: Mastro Gessetto Fonte:

Articoli Correlati

Leopardi e la fisica del suo tempo

In Giacomo Leopardi adolescente l’eco delle principali questioni fisiche e matematiche dibattute dai grandi della scienza a lui contemporanei.
Giacomo Leopardi (1798- 1837)
L’articolo di Matmedia “Leopardi fisico e matematico” propone una riflessione sulla formazione scientifica di Giacomo Leopardi,  formazione che avrà un ruolo fondamentale nel suo pensiero filosofico e influenzerà la sua poetica.
Le prime opere adolescenziali denotano grande erudizione ma anche capacità di sintesi e senso critico nelle argomentazioni. Ricordiamo, in proposito, le Dissertazioni filosofiche, comprendenti anche dieci  argomenti di fisica, scritte tra il 1811 e il 1812 ossia all’età di 13 e 14 anni  e la Storia dell’astronomia, scritta un anno più tardi.
Il suo talento precoce era favorito e  stimolato culturalmente dal padre Monaldo, molto esigente  riguardo all’istruzione dei figli e, nonostante le sue idee conservatrici, sempre pronto ad aggiornare  la sua biblioteca accogliendo le  novità in campo scientifico e filosofico
Giacomo e i suoi fratelli potevano  disporre, inoltre, di un piccolo laboratorio per gli esperimenti scientifici. “Studio matto e disperatissimo” da parte dell’adolescente,  ma anche  interesse per la conoscenza del mondo fisico, della Natura, del Cosmo  e grande fascino esercitato su di lui dai grandi scienziati  quali Copernico, Keplero, Galileo  e, soprattutto, Newton.
L’attenzione ai contributi scientifici  negli scritti  di Leopardi, da parte dei critici o interpreti, risale alla seconda metà  del secolo scorso.
Alcune intuizioni da parte di  Italo Calvino nelle “Lezioni americane” e i continui riferimenti alle “Operette morali” nelle sue “Cosmicomiche”, mettono in luce la consapevolezza scientifica che sta alla base di alcune immagini o riflessioni leopardiane, solitamente analizzate dal punto di vista stilistico o nel loro significato filosofico,
Walter Binni, uno dei maggiori studiosi della poetica e del pensiero di Giacomo Leopardi, ne suggerisce un “habitus  mentale” di derivazione scientifica  affermando che: «L’illuminismo fu non solo fornitore a Leopardi di materiali e stimoli filosofici e morali, ma scuola di coraggio della verità, di bisogno di estrema chiarificazione, di lucidità ad ogni costo sulla via del suo attivo pessimismo».
In  occasione della celebrazione del bicentenario della nascita del poeta  (nel 1998) e, qualche decennio più tardi, nel bicentenario  dell’infinito (nel 2019) si assiste sia  a una riscoperta e una valorizzazione dei saggi  di carattere scientifico del giovane Leopardi, sia a una rilettura in chiave moderna delle opere della sua maturità.
Secondo Pietro Greco, giornalista e divulgatore scientifico scomparso due anni fa,
«…L’evoluzione del rapporto tra Leopardi e la scienza si muove con velocità differenziali e direzioni diverse lungo almeno quattro direttrici, certo interconnesse, ma abbastanza autonome da poter essere individuate con una certa precisione…» (Città della scienza /centro studi/Leopardi-e-la-scienza-16 agosto 2016)
Le quattro direttrici di cui parla Greco possono essere ricondotte facilmente ad alcune tematiche di indubbia attualità:

Valore sociale della scienza
Esaltazione della ragione e del rigore scientifico per spiegare i fenomeni
Ricerca del “ senso del mondo”, percezione della complessità del reale
Sfiducia nel meccanicismo e rifiuto del riduzionismo intrinseco nella scienza

Nel saggio “L’infinita scienza di Leopardi”( 2019), gli autori (Giuseppe Mussardo , professore ordinario di Fisica Teorica alla SISSA di Trieste e Gaspare Polizzi, storico della filosofia e della scienza del Centro nazionale studi leopardiani) concentrano le loro riflessioni su tre temi fondamentali :

Leopardi e il cielo
Leopardi e la materia
Leopardi e l’infinito

ricollegabili facilmente agli studi di astronomia, chimica e fisica.
A  questo punto è opportuno osservare che, se è decisamente interessante  affrontare la poetica e il pensiero di Leopardi alla luce della sua formazione scientifica, altrettanto stimolante  potrebbe essere cogliere nelle opere di  Giacomo adolescente l’eco dei principali dibattiti degli scienziati a lui contemporanei e  pensare a un approccio  originale alla storia della fisica e della chimica.
A  partire dalle curiosità e dai  commenti di un giovane studente  meticoloso e tenace, brillante e desideroso di apprendere, possiamo riflettere sul  panorama scientifico  degli anni di passaggio dal XVIII a XIX secolo e su come venissero  affrontati alcuni temi significativi.
Senza aver la pretesa di una trattazione esaustiva, proponiamo due tematiche  abbastanza ampie  che saranno in seguito approfondite, con spirito specialistico, dagli scienziati  XIX secolo:

la struttura della materia e le sue proprietà
la questione copernicana

La struttura della materia e le sue proprietà
Da: Casa Leopardi, Giacomo e la Scienza, 1996
Dalla lettura delle 10 disertazioni di argomento scientifico 

Dissertazione sopra l’attrazione
Dissertazione sopra la gravità
Dissertazione sopra l’urto dei corpi
Dissertazione sopra l’estensione
Dissertazione sopra l’idrodinamica
Dissertazione sopra i fluidi elastici
Dissertazione sopra la luce
Dissertazione sopra l’astronomia
Dissertazione sopra l’elettricismo

emerge il modello di realtà che  Giacomo si era costruito e il quadro concettuale unitario entro cui articola  le spiegazioni dei fenomeni naturali.
Si tratta di esercitazioni scolastiche preparate per il saggio annuale con cui  Monaldo Leopardi era solito far concludere gli  studi dei tre figli, Giacomo, Carlo e Paolina.
Il tono è esplicativo, le argomentazioni puntano sulla citazione di fonti autorevoli o sull’evidenza sperimentale.
La fiducia nella forza della Ragione, la fedeltà  al modello  meccanicistico della realtà, il “culto” della figura di Newton, contrastano, agli occhi del lettore moderno, con alcune convinzioni che sarebbero state a breve superate dalle nuove scoperte e dai  mutamenti di carattere metodologico e filosofico che avrebbero caratterizzano il  secolo XIX . Eppure ci sentiamo trascinati dall’entusiasmo del giovane  conferenziere e seguiamo le sue dissertazioni e i suoi ragionamenti, riscontrando con piacere  alcuni sprazzi di modernità.
Del resto, anche tra gli scienziati dell’inizio del secolo si poteva riscontrare un certo disorientamento di fronte alla molteplicità e alla complessità dei risultati ottenuti, in particolare, in elettrochimica,  in elettromagnetismo e in ottica . Spesso  si cercava una spiegazione riconducibile ai vecchi modelli e, anche se venivano enunciate nuove leggi,  non si arrivava a ideare una teoria ampia e dal potere unificante . Solo nella seconda metà del secolo si avrà la sistemazione della termodinamica e l’elaborazione della teoria dei campi. Per una teoria atomica, nell’ambito della fisica classica, si dovrà aspettare il XX secolo.
Nella Dissertazione sull’estensione si legge:
«…Viene altresì annoverata tra le proprietà dei corpi appartenenti alla loro estensione la Divisibilità. Ciascun corpo è formato di particelle, e di molecole unite insieme per mezzo dell’affinità d’aggregazione, di cui sono dotate. Essi sono dunque divisibili, cioè le particelle possono essere slegate, e scomposte, le quali particelle essendo formate di altre molecole ancor più sottili possono anch’esse per conseguenza esser divise. Infatti, noi non possiamo immaginarci un corpo sebben minimo, nel quale non supponiamo due metà, e per conseguenza può senza dubbio affermarsi esser la materia divisibile in infinito numero di parti infinitamente picciole. Deve avvertirsi, che noi non intendiamo di dire che un corpo sia divisibile in infinito fisicamente, ma soltanto geometricamente, e per mezzo de’ voli astratti dell’umana immaginazione».
«Moltissimi sono quegli esperimenti, con i quali vollero i Fisici dimostrare la Divisibilità dei corpi in modo evidentissimo. Tra questi ell’è utilissima l’osservazione riportata dal celebre Poli circa i raggi della luce, poiché “quantunque, com’egli si esprime, siffatti lumi non decidano se il campo assegnato alla rapportata Divisione si estenda all’infinito, nulladimeno ci mostrano ad evidenza, che la materia è capace di esser divisa in un numero di parti così immenso, che giugne fino a stancare la più vivace immaginazione….
Se in una notte serena, segue il mentovato Scrittore, pongasi a cielo aperto una candela accesa, diffonderà questa tanta luce, che si potrà agevolmente scorgere fino alla distanza di due miglia ossìa di 10 mila piedi tutt’all’intorno. È noto presso de’ Matematici, che uno spazio sferico, che abbia il semidiametro di 10 mila piedi in se contiene 4. bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici. … »
Compare poi in una nota la seguente precisazione
(1) I principj della moderna Chimica dimostrano che la luce, e la fiamma non si sviluppano dal corpo che brucia ma bensì dall’aria vitale allorché l’ossigeno passa nel combustibile insieme con il calorico, e con la luce, con cui era unito, e che abbandonando l’aria vitale, si svolgono, e formano il fuoco.
L’esempio è tratto   da un testo famoso e apprezzato, gli  Elementi di fisica sperimentale (1798) di Giuseppe Saverio Poli e Vincenzo Dandolo, aggiornato sugli ultimi risultati di Lavoisier ma legato inevitabilmente ai modelli  settecenteschi del fluido calorico e dei corpuscoli che stanno a fondamento dei fenomeni luminosi.
Il  concetto di affinità tra le molecole è affrontato in modo generico, come si evince anche dalle dissertazioni sull’attrazione e sulla gravità.
In particolare, vogliamo soffermarci su alcune affermazioni del giovane saggista  riguardo l’interazione gravitazionale, accomunata disinvoltamente ad altre  forze di natura attrattiva, come le forze di adesione o di coesione molecolare.
Affermazioni quali:«…non ha solamente luogo  tra i corpi celesti, considerati l’uno relativamente all’altro. Questa forza agisce altresì in tutte le parti della materia. I liquori si alzano nei tubi capillari al di sopra del loro livello a causa dell’attrazione del tubo….»   non sono, come potrebbe  sembrare,   frutto di un ingenuo fraintendimento da parte del giovane studioso, bensì rispecchiano la convinzione, in quel tempo abbastanza diffusa negli ambienti scientifici, che l’attrazione fosse una proprietà della materia e che si manifestasse, oltre che nella gravitazione,  in molti altri  fenomeni di interazione fra corpi  solidi o fluidi o anche tra corpuscoli dotati di massa.
Interessante è il confronto tra le  dissertazioni di Giacomo  e alcuni  brani tratti dalla Storia dell’astronomia dell’astronomo  Jean-Silvain Bailly ridotta in compendio da  Francesco Milizia ( 1791), uno dei testi  su cui Giacomo aveva studiato.
L’autore sembra abbastanza deciso nell’identificare le forze  di attrazione tra molecole e l’attrazione gravitazionale
«Le affinità chimiche, le dissoluzioni, le precipitazioni, le coagulazioni non sono che attrazioni. Queste molecole esercitano a piccole distanze proporzionalmente alle loro masse un’attrazione simile a quella che i globi celesti esercitano negli spazi dell’Universo a distanze enormi…».
«La causa della coesione è l’attrazione o sia la gravità; e siccome la coesione è più o meno in tutti i corpi, Newton con ragione ha conchiuso che la gravità è universale in tutte le parti della materia»
Ribadisce la spiegazione «gravitazionale» che  Newton fornisce per il fenomeno della rifrazione della luce:
«La luce s’inflette passando presso i corpi per l’attrazione che prova e la devia. Passando da un mezzo ad un altro più denso si refrange, va più veloce poiché vi è più attratta»
L’autorità del paradigma newtoniano è ancora molto solido negli ambienti scientifici del primo ‘800.
Sviluppatosi principalmente come empirismo in Inghilterra e come razionalismo in Francia.  aveva alimentato la convinzione che il modello meccanicistico fosse in grado di descrivere e studiare tutti i fenomeni naturali.
La legge di gravitazione universale, in particolare, con il suo potere unificante,  resta il modello da seguire, almeno per analogia,  nell’interpretare  fenomeni in cui intervengono mutue forze attrattive tra  corpi, dipendenti dalla loro distanza.
Come si può osservare nelle affermazioni di Bailly, l’indiscussa  autorità degli scritti newtoniani poteva arrivare a far interpretare in modo acritico, e in parte errato, il suo pensiero.
Newton è molto più cauto nell’estendere la legge di gravitazione universale  al di fuori della meccanica, anche se, in effetti, per  quanto riguarda l’ottica, pensava che la  rifrazione potesse essere  ricondotta ad un fenomeno di attrazione tra masse,  avvalorando  la sua ipotesi corpuscolare sulla natura della luce.
Se  avesse avuto l’opportunità di anticipare i risultati ottenuti nel 1850 da  Fizeau e Foucault  relativamente alla  velocità della luce, avrebbe osservato che questa è maggiore nel vuoto che non  in un mezzo materiale e sarebbe giunto ad altre conclusioni.
Il pensiero di Laplace  (Exposition du système du monde-1823)  appare invece molto più lucido e più vicino  alla posizione newtoniana ( Hypotheses non fingo)
«L’attrazione sparisce tra i corpi di una grandezza poco considerevole: essa riappare nei loro elementi sotto un’infinità di forme. La solidità, la cristallizzazione, la rifrazione della luce, il sollevamento e l’abbassamento dei liquidi negli spazi capillari, e in generale tutte le combinazioni  chimiche sono il risultato di forze la cui conoscenza è uno dei principali obiettivi dello studio della natura. Così la materia è soggetta all’impero di diverse forze attrattive: una di esse, estendendosi indefinitamente nello spazio, regge i movimenti della terra e dei corpi celesti; tutto ciò che riguarda la costituzione intima delle sostanze che li compongono dipende principalmente dalle altre forze la cui azione è sensibile solo a distanze impercettibili. E’ quasi impossibile, per questa ragione, conoscere le leggi della loro variazione con la distanza; fortunatamente, la proprietà di essere sensibili soltanto assai vicino al contatto basta per sottomettere all’Analisi un gran numero di fenomeni interessanti che ne dipendono».
L’opera di Laplace è del 1823.
L’invenzione della  pila di Volta aveva  indicato nuove vie di ricerca sull’elettricità. Nel 1808  il chimico inglese  sir Humpry Davy aveva ottenuto i primi risultati di dissociazione elettrolitica .
La comunità scientifica francese era  fortemente influenzata dal programma laplaciano, tendente a spiegare i fenomeni fisici a partire dalle proprietà di fluidi imponderabili (fluido elettrico vetroso o resinoso, fluido magnetico australe o boreale, calorico ecc. ecc.)  le cui particelle ultime  interagivano a distanza, tramite forze di tipo newtoniano.
La formalizzazione  poteva avvenire nell’ambito dell’apparato matematico che già aveva  segnato l’indiscusso progresso della meccanica e dell’astronomia.
Le esperienze di Cavendish e di Coulomb, mediante la bilancia di torsione, avevano dimostrato, già alla fine del ‘700,  l’analogia tra le leggi che descrivono le interazioni gravitazionali, elettrostatiche e magnetiche.
L’interazione corrente-magnete scoperta da  Oersted  nel 1820 sembrava invece difficilmente riconducibile allo schema newtoniano e questo  aveva costituito una vera e propria sfida  tra gli scienziati francesi, di cui sono noti gli importanti risultati,  sia sperimentali sia nella formalizzazione matematica ( esperienza di Arago, leggi di Ampère, di Biot-Savart e dello stesso Laplace).
Ormai è ben nota la differenza tra le varie forze di interazione conosciute, sia per quanto riguarda la natura delle particelle interagenti, sia  dal punto di vista dell’intensità delle forze.
Qualsiasi studente liceale sa, per esempio , che  l’attrazione  gravitazionale tra un protone e un elettrone è molto più  debole , di circa 40 ordini di grandezza, dell’interazione elettrostatica, la quale svolge , pertanto, un ruolo essenziale  nella struttura microscopica della materia.
Agli inizi del secolo  XIX,  invece ,  in assenza di opportune  valutazioni quantitative e  di conoscenze adeguate sulla struttura della materia, le interazioni tra particelle dotate di massa venivano assimilate alle interazioni  gravitazionali.
Va precisato, in proposito, che, sebbene  comunemente si attribuisca a Cavendish la determinazione della costante  di gravitazione  universale, la formulazione  moderna della legge  di  Newton è entrata nella letteratura scientifica solo  nelle seconda metà secolo.
I risultati del  noto esperimento di Cavendish furono formulati, invece, in funzione del valore della densità media  della Terra, ovvero del valore della sua massa, dedotto dal  rapporto delle forze esercitate, rispettivamente, dalla Terra e dalla massa “grande” utilizzata nell’esperimento, su una stessa massa, la massa  “piccola”  posta a distanza  da essa.
Ricordiamo, infine l’approccio innovativo da parte  di Faraday, che, rifiutando il modello delle particelle di fluido interagenti a distanza, spostò l’attenzione sulle proprietà dello spazio, sede dei fenomeni elettromagnetici, il quale  diventa «campo di forze». Le sue  proprietà sono descritte  dalle linee di forza o linee di campo, secondo  un modello che sarà poi formalizzato, dal punto di vista matematico, nella sintesi maxwelliana.
Ovviamente non possiamo aspettarci che, nella dissertazione sull’elettricismo, il giovane Giacomo possa conoscere o immaginare l’importanza che i fenomeni elettrici avrebbero acquistato  in campo scientifico, tecnologico e industriale.
La dissertazione spazia pertanto nel campo meteorologico ( pioggia, fulmine, terremoto, tromba d’aria ecc. ecc.) .
Le spiegazioni dei fenomeni  mostrano i limiti del modello del fluido elettrico che non riesce a suggerirne in modo esauriente l’origine e la natura, anche se  fornisce alcune indicazioni per  difendersi da  eventuali effetti dannosi.
La conclusione sembra un tentativo di dare maggiore dignità all’argomento:
«Tutto ciò, che abbiam detto contiene in brevi parole l’intera Teoria dell’elettricità. Non possiamo al certo bastantemente encomiare quei Fisici, i quali impiegar seppero i loro lumi nel discuoprire la cagione, e l’origine di sì spaventosi fenomeni per poi dar campo alle ricerche intorno al modo di preservarsi da loro terribili effetti. Non si scorgerebbe certamente nelle Fisiche dottrine un sì gran numero d’inutili questioni se tutti i Filosofi impiegar sapessero la loro scienza nella ricerca soltanto di quelle cose, che ridondar possono in qualche modo a pro del genere umano. > >
La consapevolezza della rilevanza del progresso degli studi sui fenomeni elettrici traspare invece in una delle ultime poesie di Leopardi: la “ Palinodia al Marchese Gino Capponi” (1835).
Le moderne applicazioni dell’’elettricità, citata attraverso gli epigoni Volta e Davy , non riescono a vincere le forze inevitabili dell’egoismo umano.
L’entusiasmo e la fiducia nel valore sociale della Scienza ha lasciato il posto alla delusione e al pessimismo di fronte a una società che insegue il mito del progresso  dimenticando però gli ideali di  verità e di giustizia.
…………..Ardir protervo e frode, Con mediocrità, regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumulate o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge in pria Scrisser natura e il fato in adamante; E co’ fulmini suoi Volta nè DavyLei non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, nè con un Gange Di politici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti Il debole, cultor de’ ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento, o presso o lungi Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo E la face del dì non vengon meno…… > >
 La questione copernicana
 Ha senso parlare ancora, ai tempi di Leopardi , di una questione copernicana?
Quando il giovanissimo Giacomo affrontava  gli studi di astronomia,  la teoria eliocentrica era già consolidata in ambito scientifico, accettata anche da scienziati cattolici o luterani . La Chiesa cattolica  però, non aveva ancora abrogato il Decreto della Congregazione dell’Indice del 1616, cosa che avvenne  qualche decennio più avanti  con la riabilitazione di tutte le opere di ispirazione copernicana.
In alcuni ambienti cattolici particolarmente intransigenti c’era , pertanto, una certa cautela  nell’insegnare  o propagandare il sistema copernicano come modello della realtà fisica, in accordo con la  prefazione del De revolutionibus orbium coelestium   ( rivelatasi in seguito apocrifa e attribuita al teologo  luterano  Andrea Oslander ) che parlava di “ipotesi matematica”.
Lo stesso Monaldo Leopardi continuò a dichiararsi anticopernicano convinto, fino a sfidare la Chiesa dalle pagine del periodico “La voce della ragione “ , da lui diretto, difendendo, da un lato, le decisioni dell’Inquisizione romana e , dall’altro,  cercando di demolire con argomentazioni di carattere scientifico  le prove sperimentali addotte dai sostenitori del sistema eliocentrico.
Si comprende pertanto  perchè nella Dissertazione sull’Astronomia, uno dei componimenti scolastici presentati nei saggio annuale  di casa Leopardi nel 1812, il giovane Giacomo tesse le lodi del sistema copernicano “il più ammissibile fra tutti i sistemi celesti” ma aggiunge nel finale la seguente riflessione:

L’ambiguità della posizione della Chiesa Cattolica fece scalpore, anche in campo internazionale,  quando, nel 1818 il Maestro del Sacro Palazzo negava al canonico Settele ,docente alla Sapienza di Roma,  l’imprimatur  per il secondo volume del trattato  “Elementi di ottica e astronomia” in quanto fondato sul sistema copernicano.
Il Santo Uffizio fu costretto a intervenire con un apposito  decreto ( nel 1822) e avviare un processo di riabilitazione di tutte le opere  di ispirazione copernicana che si concluse nel 1835, sotto il papato di Gregorio XVI.
Appena un anno dopo la Dissertazione , Giacomo completa la sua  “Storia dell’astronomia”  nella quale  l’adesione al copernicanesimo è  più decisa , tra l’entusiasmo di spirito illuminista per la forza della Ragione e il riconoscimento dell’esistenza di un  Dio «autore e regolatore  dell’ammirevol macchina dell’Universo».
Il  progresso dell’astronomia  si trasforma nello strumento che libera l’uomo dalle  superstizioni e dalle credenze errate e lo conduce alla civiltà e alla vera Sapienza, mentre le implicazioni di carattere  filosofico sembrano restare in secondo piano.
I riferimenti alle dispute intorno alla pluralità dei mondi e all’abitabilità dei corpi extraterrestri dimostrano, comunque,  che Giacomo aveva ben recepito i punti salienti e anche  i nodi di questo secondo aspetto della nuova questione copernicana. Con molta franchezza, infatti,  conclude che sono tutte discussioni inutili e oziose, dalle quali non è possibile «ritrarre il minimo frutto». La controversia infatti non potrà «mai venire alla conclusione», essendo questa «la più insolubile di tutte le questioni».
Il rifiuto  dell’antropocentrismo, un tempo tacciato di eresia, ben si conciliava invece  con lo spirito egualitario degli Illuministi.
Le  intuizioni di Giordano Bruno   sulla pluralità e infinità dei mondi,  giudicate  a suo tempo  inverosimili e diaboliche, avevano acquistato una base di credibilità, almeno a livello di possibilità.
Pur riconoscendone l’infondatezza  sia al livello sperimentale, sia dal punto di vista  speculativo,   queste idee erano patrocinate dai più eminenti astronomi del XVIII secolo, incontrati da  Giacomo nei libri della biblioteca paterna   (Lalande, Bailly, William Herschel) .  La forza dell’analogia, l’inconsistenza di una situazione privilegiata da assegnare alla terra ( unita alla mancanza di nozioni sulla genesi della materia vivente) sembrano punti a favore dell’esistenza di altre forme di vita o di altri sistemi solari simili al nostro .
Non mancavano  poi alcune opere di fantasia come l’ironico Micromega di Voltaire  o di divulgazione scientifica, come I Colloqui sulla pluralità dei mondi ( 1686 ) di Bernard le Bovier de Fontenelle e il poema  dai toni preromantici “ Complaint or night thoughts on life , death and immortality” (1742-45),del poeta ecclesiastico  inglese Edward Young.
Quest’ultimo, di cui Leopardi conosceva probabilmente la traduzione italiana di L.A. Loschi, vede  nella pluralità dei mondi e nell’infinità dell’universo la testimonianza dell’infinita onnipotenza di Dio  Creatore che non può  rimanere limitata nell’angusto  spazio del nostro pianeta.
Copernico continua poi ad essere presente in più punti della produzione leopardiana,  a prova del fatto che le letture giovanili  avevano avviato un processo di interiorizzazione,  sfociata poi  nel  pensiero filosofico e  nella sublime arte poetica.
«Una prova di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnova interamente l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto Tolemaico; rivela una pluralità di mondi, mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione, il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno, benchè non ci appariscano, intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima; scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec. »(Zibaldone, 84, 18209)
«Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l’uguaglianza dei globi checompongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura,anzi all’opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agliuomini ed a qualunque vivente l’uguaglianza naturale degl’individui diuna medisima specie». (Zibaldone, 975, 22 aprile 1821) (28).E’ noto il divertente dialogo “Copernico” delle Operette morali in cui la rivoluzione  copernicana nasce da una esigenza  del Sole che chiede a Copernico di concedergli il meritato riposo e di  costringere l’oziosa Terra a mettersi in movimento.
Forse  è meno noto questo brano  della storia dell’astronomia di cui il “Copernico” sembra essere lo sviluppo e l’ approfondimento:
«Quell’ardimentoso Prussiano che fe’ man bassa sopra gli epicicli degli antichi e spirato da un nobile estro astronomico, dato di piglio alla terra, cacciolla lungi dal centro dell’Universo ingiustamente usurpato, e a punirla del suo ozio, nel quale avea marcito, le addossò una gran parte di quei moti, che venivano attribuiti ai corpi celesti, che ci sono d’intorno».
I notissimi versi del “Canto notturno di un pastore errante” composto  tra il 1829 e il 1830 , ci hanno tante volte coinvolto nelle domande senza risposta sul destino e sull’identità dell’uomo
E quando miro in cielo arder le stelle;Dico fra me pensando:A che tante facelle ?Che fa l’aria infinita, e quel profondoInfinito seren ? che vuol dir questaSolitudine immensa ? ed io che sono ?
Quanti di noi le hanno confrontate con le parole di sir John Herschel  (1792 –1871) (matematico e astronomo figlio di William)?
«A quale scopo, scrive dobbiamo supporre che le stelle siano state disperse nell’immensità dello spazio? Non sarà stato senza dubbio per illuminare le nostre notti, oggetto che potrebbe meglio svolgere una luna piu di quanto non farebbe la millesima parte della nostra, né per brillare come uno spettacolo vuoto di senso e di realtà e ci perdiamo in vane congetture. Questi astri sono, è vero, utili all’uomo come punti permanenti ai quali può rapportare tutto con esattezza; ma bisognerebbe aver ricevuto ben poco frutto dallo studio dell’astronomia per poter supporre che   l’uomo sia il solo oggetto delle cure del suo Creatore e per non vedere, nel vasto e sorprendente  apparato che ci circonda, luoghi destinati ad altre razze di esseri viventi».
Un secolo dopo  Hubble enunciava la  legge che confermava  il modello di un universo in espansione, popolato da innumerevoli galassie distinte dalla nostra Via Lattea.
La Terra non è il centro dell’universo, non lo è il Sole, non lo è la Via Lattea.
Nel XX secolo la cosmologia, studio  dell’Universo nella  sua totalità su grandi scale, ormai separata  dall’astronomia, è una scienza osservativa  che non ha abbandonato  i suoi aspetti speculativi.  I tre principi che ne stanno alla base richiamano le antiche dispute dei filosofi  ma  hanno un chiaro significato di ipotesi di lavoro.
Primo assunto è l’isotropia dell’Universo  (principio cosmologico)   complementare all’omogeneità  di tutti i punti di osservazione (principio copernicano).
Si sente la necessità di un terzo principio, il principio antropico:
“I valori osservati delle quantità fisiche o  cosmologiche non sono equiprobabili ma sono  limitati  dal prerequisito che l’universo cui danno luogo, a un certo punto della sua storia, permetta l’esistenza di una forma di vita come la nostra, basata sul carbonio” (principio antropico debole di Barrow-Tipler) .
Nuovi interrogativi attendono una risposta: il nostro universo è il risultato di  un’eccezionale coincidenza cosmica o esistano infiniti universi fisici e noi abitiamo in uno di quelli che sono adatti alla vita?

Laureata in matematica, all’Università “La Sapienza” di Roma  . Vincitrice di concorso a cattedra per la classe matematica e fisica, ha  insegnato a Roma nel liceo scientifico  “Cavour” e ha collaborato con la S.S.I.S del Lazio in qualità di insegnante accogliente per i tirocinanti. In pensione dal 2009, ha partecipato al progetto del MIUR “La prova scritta di Matematica degli esami di Stato nei Licei Scientifici: contenuti e valutazione”  . Collabora alle attività di formazione della Mathesis.

Visualizza tutti gli articoli

Tre volte il volto: i ritratti triplici nella storia dell’arte

Di fronte, di profilo e di tre quarti. No, non è una foto segnaletica (o forse dovremmo chiamarlo “quadro segnaletico”), ma il celebre triplo ritratto del regnante inglese Carlo I, realizzato da Antoon van Dyck nel 1635.
Antoon van Dyck, Carlo I in tre posizioni, 1635, olio su tela, cm 84×99, Royal Collection, Londra
Ma che significato aveva questo curioso dipinto? Perché l’artista ha raffigurato il sovrano da tre punti di vista differenti? Voleva sottolinearne l’espressività? Era una prova di virtuosismo? C’era qualche allegoria sottesa?Nulla di tutto ciò: il ritratto serviva perché Gian Lorenzo Bernini potesse realizzare un busto di re Carlo I senza muoversi da Roma (lo scultore non uscì mai dall’Italia se non una sola volta per andare a Parigi e Varsailles a realizzare il ritratto di Luigi XIV). Era quindi necessario che avesse a disposizione più viste possibili del soggetto, in modo da cogliere perfettamente la forma del volto, l’espressione del viso e l’andamento del profilo (ma si dice che Bernini non facesse mai posare immobili i soggetti da ritrarre preferendo osservarli in movimento e in pose naturali).
Purtroppo il busto marmoreo, realizzato nel 1636, è andato distrutto nel terrificante incendio del 1698 che distrusse il palazzo di Whitehall. Alcune copie vagamente simili sono ciò che rimane. Una è quella creata nel 1759 dallo scultore Louis François Roubiliac…

… e l’altra è quella attribuita a Jan Blommendael.

Quando il busto originale arrivò a Londra, nel 1637, fu universalmente lodato “non solo per la squisitezza dell’opera, ma per la somiglianza che aveva con il re” e Bernini fu ricompensato con un anello di diamanti. La regina Enrichetta Maria ne fu talmente entusiasta che nel 1638 incaricò van Dyck di fare anche a lei un triplo ritratto da inviare a Bernini. Quella volta però il pittore fiammingo non mise i tre punti di vista nella stessa tela ma produsse tre dipinti separati, due di profilo e uno frontale. Tuttavia, non si sa perché, il busto di marmo non verrà mai eseguito.
Antoon van Dyck, Tre ritratti di Enrichetta Maria di Borbone-Francia, 1638
Bernini realizzerà invece il busto del cardinale Richelieu utilizzando anche questa volta un triplo ritratto, quello dipinto dal francese Philippe de Champaigne nel 1641, simile al ritratto di Carlo I di van Dyck (ma in questo caso non c’è la vista strettamente frontale).
Philippe de Champaigne, Triplo ritratto del cardinale Richelieu, 1642, olio su tela, cm 58×72, National Gallery, Londra
Quel busto esiste ancora e si trova attualmente al Louvre.

Ma torniamo ai triplici ritratti per sottolineare un aspetto: a livello compositivo non fu un’invenzione di van Dyck ma la ripresa di un’iconografia che esisteva fin dal Medioevo in forma di “vultus trifrons” (volto trifronte), cioè il modo con cui talvolta veniva rappresentata la trinità.
Gregorio Vasquez de Arce y Ceballos, Trinità, XVII secolo, Museo Coloniale, Bogotà
Certo, nella maggior parte dei casi non si tratta di tre volti separati ma di facce sovrapposte che condividono gli occhi del volto centrale, come in questo esempio trecentesco…
Autore sconosciuto, Vultus trifrons (Trinità), XIV secolo, Chiesa di Sant’Agostino, Norcia
… o questo del XVI secolo.
Scuola di Leonardo da Brescia, Cristo trifrons, ca. 1542, chiesa di santa Giuliana, Vigo di Fassa (Trento)
Ma non mancano casi in cui i tre volti sono separati o addirittura lo sono le tre persone della Trinità.

Tuttavia il volto con tre facce era anche quello di Lucifero…
Autore sconosciuto, Illustrazione per la Divina Commedia con Lucifero, XIV secolo
Secondo Dante, che lo descrive nel XXXIV canto dell’Inferno, Lucifero è un mostro peloso, con tre paia d’ali di pipistrello e tre facce sulla stessa testa. Con le tre bocche divora i tre più grandi traditori: Bruto e Cassio ai lati e Giuda al centro. Le tre facce avrebbero anche tre colori diversi: rossa quella centrale, bianca quella destra e nera la sinistra.

Ha tre teste anche Cerbero, il cane infernale della mitologia greca che Dante colloca nel 3° cerchio dell’Inferno a vigilare e torturare i golosi.
William Blake, Cerbero, 1824-1827
Per questa insistente associazione tra le tre facce e gli esseri infernali, lo schema del vultus trifrons per rappresentare la Trinità fu abbandonato nel ‘500. Nel 1745, infine, papa Benedetto XIV, con la bolla Sollicitudini nostrae definì come “non appropriata” l’immagine di Cristo ripetuta tre volte poiché dava forme umane anche allo Spirito Santo. Dal Cinquecento, dunque, il volto triplo diventa un tema squisitamente profano.
Il primo dipinto in cui appare è probabilmente il Ritratto di un orefice di Lorenzo Lotto, una tela del 1525-1535 (dunque di un secolo precedente al ritratto di Carlo I). Qui lo stesso uomo è visto di profilo, di fronte e leggermente da dietro.  Le diverse pose delle mani e la tenda verde che taglia lo sfondo animano il ritratto e lo arricchiscono di espressività.
Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice, 1525-1535, olio su tela, cm 52×79, unsthistorisches Museum, Vienna
Questo quadro però non serviva come base per una statua, tuttavia un legame con la scultura c’era: il dipinto infatti si inserisce nel dibattito noto come “Paragone delle arti“, una disputa dell’età rinascimentale su quale arte, tra pittura e scultura, fosse la “migliore”.Secondo Leonardo, naturalmente, il primato spettava alla pittura, unica arte capace di imitare la natura nei suoi colori e nei suoi spazi. Per Michelangelo, invece, l’arte superiore era la scultura perché capace di riprodurre le forme in modo realmente tridimensionale.
Per superare il limite della pittura evidenziato da Michelangelo gli artisti tentarono di inserire più visioni del soggetto nello stesso dipinto, attraverso diverse modalità. Quella di Lorenzo Lotto consisteva, come abbiamo visto, nel creare un ritratto multiplo del soggetto in modo da raffigurarlo contemporaneamente da più punti di vista (una visione simultanea protocubista…), avvicinandosi così alla scultura.Tiziano, invece, ha inserito nella scena un grande specchio convesso per mostrare anche il retro della persona raffigurata.
Tiziano, Donna allo specchio, 1515, olio su tela, cm 96×76, Museo del Louvre, Parigi
Bronzino sceglie, invece, una terza via, quella del dipinto bifacciale che mostra la stessa scena dai due lati opposti. Suo è il Nano Morgante del 1553, un ritratto del buffone di corte di Cosimo I de’ Medici. Le due vedute, tuttavia, non corrispondono rigidamente: la vista del recto raffigura il personaggio prima della caccia mentre sul verso ha la selvaggina in mano e si volta all’indietro per vantarsene con l’osservatore.
Bronzino, Doppio ritratto del Nano Morgante, 1553, olio su tela, cm 149×98, Palazzo Pitti, Firenze
Due anni più tardi la stessa scelta sarà operata anche da Daniele da Volterra, con la sua lotta tra Davide e Golia in versione bifacciale, un quadro posto lungo la galleria del Louvre sopra un piedistallo, come fosse una scultura.
Daniele da Volterra, Combattimento di Davide e Golia, 1555, olio su ardesia, cm 130×170, Museo del Louvre, Parigi
La disputa sarà superata solo nel Seicento, quando il linguaggio barocco fonderà tra loro tutte le arti. Il dipinto bifacciale scomparirà presto ma non il triplo ritratto, che tornerà in auge nell’Ottocento.
È del 1804 un triplo ritratto di Elizabeth Patterson, prima moglie di Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone.
Gilbert Stuart, Triplo ritratto di Elizabeth Patterson (Betsy Bonaparte), 1804, olio su tela
Stavolta non c’è nessun confronto con la scultura né alcuno scopo utilitaristico: è un ritratto fresco, rapido, quasi uno studio, che evidenzia i bei lineamenti della donna.Ha invece un valore propagandistico il triplo ritratto di Napoleone in tre momenti cruciali della sua vita: il comando della Campagna d’Italia nel 1794, l’incoronazione a re d’Italia nel 1805, e il suo ritorno dall’esilio nel 1815.
Autore sconosciuto, Triplo ritratto di Napoleone Bonaparte in tre momenti della sua vita nel 1805, 1794 e 1815.
Della stessa epoca è un curioso autoritratto, di una sconosciuta artista che si è firmata come D. E. Brante, in cui la donna si è dipinta come pittrice, come scultrice e come arpista. Una tripla immagine che ha uno scopo preciso: quello di esibire il proprio poliedrico talento.
D. E. Brante, Triplo autoritratti come pittrice, scultrice e musicista, 1815-1820, olio su tela, cm 85×70
Questa modalità di rappresentazione non poteva sfuggire ai pittori amanti del simbolismo, per l’opportunità che offriva di mostrare le diverse anime racchiuse nel soggetto. È così che 1874 nasce Rosa Triplex, un triplice ritratto di May Morris (figlia di William Morris e della moglie Jane Burden), del preraffaellita Dante Gabriel Rossetti. Il dipinto richiama quelle atmosfere estetizzanti tanto care alla confraternita inglese ma anche la tela di van Dyck, che faceva parte della Royal Collection inglese.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa triplex, 1874, acquerello su carta, cm 77×88, Collezione privata
L’immagine è molto simile a una precedente versione a pastello di sette anni prima nel quale la modella era stata Alexa Wilding.
Dante Gabriel Rossetti, Rosa Triplex, 1867, pastello su carta, cm 50×73, Tate, Londra
Nel 1877 Rossetti riprende ancora una volta lo schema della tripla raffigurazione con Astarte syriaca, una sensuale divinità mediorientale dell’amore e della bellezza, per la quale avrebbero posato Jane Burden e May Morris. La composizione, con la dea frontale e le sue “gemelle” di lato, ricorda in verità un’altra iconografia tripla, quella delle Tre Grazie.
Dante Gabriel Rossetti, Astarte Syriaca, 1877, olio su tela, cm 185×109, Manchester Art Gallery
Poco tempo dopo, il genere del triplo ritratto viene ripreso dal simbolista francese Maurice Denis con una suggestiva rappresentazione della fidanzata Marthe Meurier. Non sfugge all’osservazione la progressiva apertura degli occhi andando verso destra, come se i tre volti raccontassero un risveglio, una maturazione, una consapevolezza verso la vita.
Maurice Denis, Triplo ritratto della fidanzata Marta, 1892
Da questo punto di vista il dipinto si inserisce nell’antico filone dell’allegoria delle tre età dell’uomo, realizzata, appunto, con tre personaggi in diverse fasi dell’esistenza.
Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501, olio su tavola, cm 62×77, Galleria Palatina, Firenze
Tiziano, Allegoria della Prudenza, 1550, olio su tela, cm 75×68, National Gallery, Londra
Denis riprende il triplo ritratto anche con la fidanzata successiva, Yvonne Lerolle, nel 1897. Qui il diverso abbigliamento e la varietà dei gesti e delle espressioni portano a immaginare che l’opera simboleggi proprio tre fasi della vita della giovane donna, come a voler dire che non è possibile conoscere l’anima mutevole di una persona perché il suo essere è la somma di un tempo che scorre.
Maurice Denis, Ritratto di Yvonne Lerolle in tre aspetti, 1897, olio su tela, cm 170×110, Musée d’Orsay, Parigi
Tutto cambia con Egon Schiele. Tormentato osservatore del proprio essere, realizzò nel 1913 un triplo autoritratto in cui sembra voler mostrare il suo multiplo io. La figura al centro, più definita delle altre, ha un’espressione rabbiosa e una posa contorta; il volto a destra sembra più calmo mentre quello a sinistra, tratteggiato con furia, contiene qualcosa di maligno. Si direbbe che abbia voluto raffigurare così le due opposte tensioni, passionale e contemplativa, dolorosa e pacificata, che hanno percorso i suoi giorni.Nonostante appaia come un bozzetto, si tratta di una composizione su cui l’artista ha lavorato anche a livello formale, come dimostra il piccolo schizzo con le stesse tre teste in basso a destra.
Egon Schiele, Triplo autoritratto, 1913, gouache, acquerello e grafite, cm 48×32, Collezione privata
Con l’avanzare del Novecento il tema del triplo ritratto passerà presto alla fotografia. Man Ray lo affronta nel 1926 con un fotomontaggio della ricca americana Rose Wheeler vista di fronte, di tre quarti e di profilo. È forse l’opera che più somiglia al genere inaugurato da van Dyck: un’esplorazione della fisionomia umana ma anche una sottile indagine psicologica che evidenzia le differenze espressive che esistono tra un ritratto di profilo (tipico del Rinascimento), un volto di tre quarti (di origine fiamminga e poi adottato a fine Quattrocento anche in Italia) e il volto frontale di ascendenza medievale (era il modo in cui veniva raffigurato Cristo).
Man Ray, Triplo ritratto di Rose Wheeler, 1926, stampa a gelatina ai sali d’argento, cm 14×10, Centre Pompidou, Parigi
Dopo venne il turno del fotografo francese Philippe Halsman e del suo triplice volto di Marilyn Monroe del 1955. In questo caso non c’è un interesse compositivo e vagamente surrealista come per Man Ray ma un preciso interesse per ciò che racconta il viso di una persona. «Ogni volto che vedo sembra nascondere – e a volte rivelare fugacemente – il mistero di un altro essere umano», diceva il fotografo. 
Philippe Halsman, Tripla Marilyn, 1955, stampa in gelatina ai sali d’argento, cm 25×33
Il triplo Elvis di Andy Warhol si inserisce invece nel suo metodo moltiplicatorio che parte da una fotografia o dal fotogramma di un film (in questo caso una scena di “Stella di fuoco” del 1960) per creare un’opera che ricorda le serie infinite e martellanti di manifesti pubblicitari e che, tramite la ripetizione, finisce con l’annullare l’anima del soggetto rendendolo pura immagine.
Andy Warhol, Triplo Elvis, 1963
Con Norman Rockwell torna per un attimo l’antico olio su tela con un ironico autoritratto allo specchio del 1960. L’uso dello specchio, in verità, era da secoli la modalità standard per realizzare l’autoritratto, ma l’originalità sta nel fatto che l’artista ha fatto un passo indietro rispetto al suo dipinto, mostrando così se stesso nell’atto di riflettersi sullo specchio e nel disegno che ne sta uscendo fuori. Non mancano dei divertenti riferimenti alla storia dell’autoritratto nelle cartoline fissate all’angolo superiore della tela che raffigurano i volti di Dürer, Rembrandt, Picasso e van Gogh, mentre dal lato opposto c’è un foglietto con altri 4 autoritratti dell’artista.
Norman Rockwell, Triplo autoritratto, 1960, olio su tela, cm 113×88, Norman Rockwell Museum, Stockbridge
Non dovremmo tuttavia parlare di novità per questo triplo autoritratto, perché questa modalità era già apparsa altre volte prima dell’opera di Rockwell (sebbene non con la stessa autoironia). La più antica è probabilmente una miniatura del 1403 con la pittrice di età greco-romana Marzia che realizza il suo autoritratto.
Marzia dipinge il suo autoritratto, miniatura dalla versione francese del De Claris mulieribus di Boccaccio, 1403, Biblioteca Nazionale di Francia
Poi c’è la tela del pittore austriaco Johannes Gumpp del 1646 che è effettivamente un autoritratto triplo.
Johannes Gumpp, Autoritratto, 1646
Quello del pittore Jean Alphonse Rohen è invece il ritratto di una pittrice intenta ad autoritrarsi.
Jean-Alphonse Roehn (1799-1864), Ritratto di artista che dipinge il suo autoritratto
Ed è proprio lo specchio l’oggetto che chiude questo percorso sui tripli volti. Perché consente ai fotografi di giocare con la moltiplicazione della figura in modo naturale, senza ricorrere a fotomontaggi o ad altri artifici. Ha usato due specchi messi ad angolo Cecil Beaton, l’originale e irriverente fotografo britannico, per  immortalare Mariana van Rensselaer con un cappello disegnato dallo stilista Charles James. I due riflessi laterali restituiscono delle immagini curiose che sembrano evocare a sinistra una Madonna velata e a destra un mercurio col cappello alato.
Cecil Beaton, Mariana van Rensselaer con il cappello di Charles James, 1930
Gli specchi sono invece contrapposti in uno straordinario autoritratto della statunitense Vivian Maier del 1955. Autrice di un’enorme quantità di autoritratti colti sulle più disparate  superfici riflettenti, la fotografa ha scelto qui il mise en abyme, il più sorprendente effetto che due specchi possano dare: quello di moltiplicare all’infinito il riflesso specchiandosi l’uno nell’altro. Tuttavia Maier ha evitato di mostrarci quella scia sempre più piccola di sagome ponendo al centro la sua macchina fotografica e mostrandoci solo un triplo autoritratto.
Vivian Maier, Autoritratto, 1955
Non deve meravigliare che questa antica iconografia sia sopravvissuta fino ai nostri giorni e goda ancora di ottima salute: la tentazione di voler essere uni e trini, il desiderio di indagare le nostre multiple personalità attraverso la nostra faccia-interfaccia, è quasi un istinto naturale e non smette di regalarci accattivanti capolavori.

Vuoi rimanere aggiornato sulle nuove tecnologie per la Didattica e ricevere suggerimenti per attività da fare in classe?

Sei un docente?

soloscuola.it la prima piattaforma
No Profit gestita dai

Volontari Per la Didattica
per il mondo della Scuola. 

 

Tutti i servizi sono gratuiti. 

Associazione di Volontariato Koinokalo Aps

Ente del Terzo Settore iscritta dal 2014
Tutte le attività sono finanziate con il 5X1000