Beppe Grillo e i traditori che “si sentono eroi”: la fonte è ‘La Tecnica della Scuola’, l’autore è Pasquale Almirante

L’ex comico Beppe Grillo, fondatore del M5S

La Tecnica della Scuola trova spazio nel blog di Beppe Grillo, il garante del M5s: si tratta di un articolo di due anni fa, scritto dal nostro Pasquale Almirante, dal titolo ‘Fenomenologia del tradimento e del traditore‘.

L’articolo passa in rassegna i personaggi simbolo del tradimento, da quelli collocati da Dante nel IX cerchio dell’Inferno, ai “traditori seriali” come Uriah Heep nel David Copperfield di Dickens, ai “traditori più tradimentosi, depositati nella Giudecca infernale”: sono “coloro – ricorda l’autore dell’articolo – che hanno violato il sacro principio di bene dovuto ai benefattori e che sono i più vicini a Lucifero che è poi il prototipo di colui ha ingannato la persona a cui è stata affidata la massima fiducia”. Fino al traditore “per eccellenza: Jago, nell’Otello di Shakespeare”.

Almirante spiega perché “ci siamo intrattenuti nel tradimento. Perché – scrive – questo nostro …..

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Il furor del Conte Ugolino

Il dramma di un padre amoroso che soffre per le sofferenze dei figli. Il furor del Conte Ugolino.
Dedico questo saggioa Pier Francesco Savonaalunno di ieridal quale oggi apprendo
Il testo
Inferno, XXXII, 124-139; 1-91:Bocca degli Abati, “malvagio traditor”, si ostina nel rifiuto di dire il suo nome a Dante, benché questi  lo abbia preso per la collottola, cominciando a strappargli ciocche di capelli e minacciando di strapparglieli tutti. Un altro dannato, udendo le urla di Bocca simili a latrati, gli si rivolge svelandone il nome. A questo punto Bocca, che ormai potrà essere svergognato da Dante una volta ritornato sulla Terra, si vendica nominando diversi altri traditori affinché siano svergognati anch’essi. Dopo di che Dante e Virgilio si allontanano da “ello”. I versi
Di consueto in Ugolino si vede raffigurato il dramma di un padre amoroso che soffre per le sofferenze dei figli.
Dramma al quale il lettore si sente spinto a partecipare fino a porre in oblio il peccato di tradimento che l’anima dannata sconta con l’eterna condanna. Viene sentito come solo traditore l’Arcivescovo Ruggieri, l’anima dannata sul quale l’odio di Ugolino è destinato a sfogarsi  in eterno senza appagamento, come se esercitasse una vendetta divina nel momento stesso in cui sconta così la sua pena. Come vedremo, Dante qui ripropone in termini sconvolgenti il problema della giustizia, uno dei grandi temi della sua opera, se non il più grande, perché è il tema della giustizia in politica.
Sembra che Dante personaggio partecipi al dolore di Ugolino con una sorta di simpatia.
Eppure può essere ipotizzata una diversa lettura dell’episodio, tenendo presente quanto Vittorio Russo argomenta circa l’uso dantesco del termine “dolore”. Nella psicologia morale del cristianesimo, quale essa risulta da una serie di fonti fra cui spicca ovviamente la Summa Theologiae  di Tommaso d’Aquino, il dolore è passione negativa che s’identifica con la cattiva ira, quella “ira mala” da cui sono esenti i “pacifici” (Purgatorio, XVII, 68-69) e che è “dolor … cum appetitu vindictae”.  Nel segnalare  i nuovi riscontri linguistici, Enrico Malato non ritiene di poter accettare del tutto la nuova interpretazione che ne consegue.
Mette infatti a confronto i passi seguenti:
“Infandum, regina, iubes renovare dolorem” (Eneide, II, 3)“Nessun maggior dolore – che ricordarsi del tempo felice – nella miseria” (Inferno, V, 121-123)“Tu vuo’ ch’io rinovelli – disperato dolor che ‘l cor mi preme” (Inferno, XXXIII, 4-5)
In chiave  cristiano-medioevale il dolore di Ugolino è da considerare inseparabile dall’adirata bramosia di vendicarsi. Invece per Enrico Malato alla luce dei passi sopra citati il termine “dolore” nell’episodio deve continuare ad essere inteso nel senso per noi più comune.
Eppure si può andare ancora oltre e formulare l’ipotesi che Dante abbia voluto raffigurare in Ugolino una simbiosi di dolore e furore degenerata in vera e propria follia.
Per collaudare questa proposta di lettura, conviene innanzitutto andare oltre il ritaglio antologico dei versi dedicati a Ugolino, immergendosi  nei canti che lo  precedono  e rievocando l’atmosfera di  degrado in cui esso si colloca. Degrado  che investe anche la figura di Ugolino in quanto traditore, sebbene la critica di ascendenza romantica inaugurata da Ugo Foscolo lo faccia risaltare come uomo piuttosto che come dannato, quasi che le estreme sofferenze patite facessero sbiadire la sua condizione di peccatore.
Nel cerchio ottavo, decima bolgia, la rabbia dei falsari di persone si fa furore.
Degenera in follia. Lo preannunciano esempi tratti dal mito. Giunone si vendica di Atamante rendendolo così “insano” da  fargli tendere le reti per catturare  la moglie e i due figli  nelle sembianze di leonessa e leoncini, sbattendone mortalmente uno contro un macigno e spingendo la madre a precipitarsi in mare con l’altro (Inferno, XXX, 1-12). Ecuba, “trista, misera e cattiva” per la caduta di Troia, “dolorosa” per aver visto morta Polissena e morto Polidoro sulla riva del mare, divenne “forsennata” al punto che “latrò sì come cane” per il “dolor” che le rese  “la mente torta” (Inferno, XXX, 13-21). Si noti come qui l’uscire fuor di senno comporti il degrado nella bestialità  e come il dolore nel senso di rabbiosa e furibonda ira sia causa di follia.
Dopo che nel canto XXXI è avvenuto l’incontro coi giganti e ha avuto luogo la discesa nel nono cerchio, nel canto successivo si vede derivare dal fiume di Cocito un lago ghiacciato ove sono confitti nella prima zona o Caina i traditori dei congiunti (Inferno, XXXII, 1-69), nella seconda zona o Antenora i traditori politici (Inferno, XXXII, 70-139; XXXIII, 1-90), nella terza zona o Tolomea i traditori degli ospiti (Inferno, XXXIII, 91-157), nella quarta zona o Giudecca i traditori dei benefattori fra cui Giuda traditore di Cristo e Bruto e Cassio traditori di Cesare, maciullati nelle tre bocche  di Lucifero, in quella centrale Giuda, in quelle laterali Bruto e Cassio (Inferno, XXXIV, 1-69). Queste anime vengono trattate  come degne di estremo sdegno quali esponenti di un’umanità degradata.
L’incontro con i traditori politici, fra i quali Ugolino, si colloca in questo  clima di perversione suprema, al punto che  Dante stesso si adira contro un dannato.
Dopo averlo percosso accidentalmente nel viso col piede,  diventa violento contro di lui che si ostina nel non volergli rivelare la sua identità: lo prende “per la cuticagna”, lo minaccia di strappargli tutti i capelli, glieli serra fra le mani e comincia a staccargliene “più d’una ciocca”, fermandosi  solo quando un altro dannato gli svela che il “malvagio traditor” è Bocca degli Abati, il quale poi per vendicarsi gli fa i nomi di diversi altri traditori politici (Inferno, XXXII, 73-123).
Dopo l’alterco con Bocca degli Abati, Dante vede “due ghiacciati in una buca – sì che l’un capo a l’altro era cappello”. Trovandosi di fronte al dannato che fa da cappello e rode il cranio dell’altro “come ’l pan per fame si manduca”, nel vedere che sfoga un suo odio con quel “bestial segno”, gli chiede chi egli sia (Inferno, XXXII, 124-139):Noi eravam partiti già da ello,ch’io vidi due ghiacciati in una buca,sì che l’un capo a l’altro era cappello;e come ’l pan per fame si manduca,così ’l sovran li denti a l’altro poselà ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:non altrimenti Tidëo si rosele tempie a Menalippo per disdegno,che quei faceva il teschio e l’altre cose.“O tu che mostri per sì bestial segnoodio sovra colui che tu ti mangi,dimmi ’l perché”, diss’io, “per tal convegno,che se tu a ragion di lui ti piangi,sappiendo chi voi siete e la sua pecca,nel mondo suso ancora io te ne cangi,se quella con ch’io parlo non si secca”.
Il “bestial segno” indica come in  quel traditore si manifesti la “matta bestialitade” di cui al canto XI dell’Inferno, ove Dante si ricollega alla φηριότης che Aristotele nell’Etica Nicomachea annovera fra i mali  morali, così come tremendo male morale è in  Tommaso d’Aquino la bestialitas. Ed è da notare che per Giovanni Boccaccio la bestialità è matta in se stessa, ovvero coincide con la follia. All’inizio del canto XXXIII la bestialità di Ugolino viene ribadita con l’espressione “fiero pasto”, che equivale allo sbranare ferinamente una preda. Il “dolor” è associato  alla ferocia derivante dall’ira, ovvero a un furor rabbioso destinato a durare in eterno nel rodere il teschio dell’Arcivescovo Ruggieri, del quale Ugolino si era fidato e che lo aveva tradito (Inferno, XXXIII, 1-9):
La bocca sollevò dal fiero pastoquel peccator, forbendola a’ capellidel capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovellidisperato dolor che ’l cor mi premegià pur pensando, pria ch’io ne favelli.Ma se le mie parole esser dien semeche frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,parlare e lagrimar vedrai insieme.
Forse Ugolino solleva soltanto la bocca e non drizza il volto sul collo, mentre le lacrime come per gli altri dannati gli si ghiacciano e la voce fuoriesce roca dalla gola.
La tragica vicenda della morte per fame dei prigionieri privati del cibo  nella torre carceraria si inserisce fra questi versi e i versi in cui, una volta conclusa la sua narrazione, Ugolino manifesta ancora il suo odio maniacale storcendo lo sguardo e riprendendo a rodere il teschio coi denti paragonati alle zanne di un cane (Inferno, XXXIII, 76-78):
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi tortiriprese ’l teschio misero co’ denti,che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Si noti la violenza espressiva del verso 78 per il suo ritmo anomalo  con quell’accento sulla nona sillaba, che mette in estremo risalto la ferocia del “can”. E si noti anche l’esasperato realismo della scena, in cui le anime sono presentate come se avessero i loro corpi, che riavranno invece soltanto nel  dies irae.
Il  realismo fa porre in oblio questa circostanza, che Dante metterà in luce nella seconda cantica.
Quando Dante personaggio si accorge che Virgilio non ha corpo, perché non proietta ombra, resta interdetto finché non gli giunge una spiegazione del mistero, spiegazione che rimanda al mistero dell’operato della virtù divina (Purgatorio, III, 31-33):
A sofferir tormenti e caldi e gelisimili corpi la virtù disponeche come fa non vuol ch’a noi si sveli.
Quale è la reazione di Dante mentre Ugolino narra la tragica vicenda da lui  vissuta nel carcere ove ebbe a patire la morte per fame coi quattro figli?
Due dei quali erano in realtà nipoti, divenuti figli nella finzione poetica per accentuare la tragicità della vicenda. Dante, si duole Ugolino, è  “crudel”, perché non piange con lui. In realtà Dante, mentre ascolta, sente crescere in sé lo sdegno non tanto per la sorte di Ugolino, in cui continua a vedere il traditore politico, quanto per le sofferenze dei figli. Una volta finita la narrazione della tragedia svoltasi in quel tetro carcere, simile a un inferno sulla Terra, l’indignazione erompe nella tremenda, iperbolica, apocalittica invettiva contro i Pisani, responsabili di avere martoriato degli innocenti. Dunque siamo di fronte all’episodio non tanto della paternità sofferente, quanto dell’innocenza violata (Inferno, XXXIII, 79-90):
Ahi Pisa, vituperio de le gentidel bel paese là dove ‘l sì suona,poi che i vicini a te punir son lenti,muovasi la Capraia e la Gorgona,e faccian siepe ad Arno in su la foce,sì ch’elli annieghi in te ogne persona!Che se ’l conte Ugolino aveva voced’aver tradita te de le castella,non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.Innocenti facea l’età novella,novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigatae li altri due che ’l canto suso appella.
Innocente Ugolino, in quanto traditore, non lo è, Dante, dopo averlo incitato a parlare all’inizio, non ritiene di dovergli parlare alla fine.
A differenza di come si comporta con Francesca, alla quale si rivolge dicendole “i tuoi martiri – a lacrimar mi fanno tristo e pio” (Inferno, V, 116-117),  in questo canto si lascia alle spalle il furor del dannato (Inferno, XXXIII, 91-93) con un “passammo oltre”:
“Noi passammo oltre, là ’ve la gelataruvidamente un’altra gente fascia,non volta in giù, ma tutta riversata.”
Lascia comunque perplessi quell’invettiva in cui per vendicare quei figliuoli innocenti viene invocata la distruzione di ogni persona in Pisa. Paradossalmente è come se Dante condividesse la furia del dannato. In tutto ciò, laddove Benedetto Croce incredibilmente vede in Ugolino un “giudice dei giudici” che “ferocemente, ferinamente, pur vendica l’umanità”, Teodolinda Barolini ravvisa invece “l’emblema definitivo della politica perversa e dell’umanità fallita”.
La lettura di Francesco De Sanctis ha già in sé gli elementi atti a corroborare la tesi di quel furor di Ugolino che per noi è una manifestazione della follia del dannato: il rodere il teschio è “un atto così fuor dell’umano, così ferino”. Nella ferinità si annida l’irrazionale, la privazione della ragione. È sintomatico il lapsus del De Sanctis che, nel riportare il verso “ambo le man per lo dolor mi morsi”, sostituisce “furor” a “dolor”. L’illustre critico ascolta  proveniente  da  Ugolino “una voce che non sai più se sia d’uomo o di belva”  e gli attribuisce “un sentimento di furore canino”,  continuando ad associare il “dolore” al “furore”:“Ma quanto dolore ha prodotto tanto furore!”Non sfugge al De Sanctis la bestialità di Ugolino:“Prima che morisse il corpo, morto era l’uomo; sopravviveva la belva, mezza tra l’amore e il furore, i cui ruggiti spaventevoli non sai se esprimano suono di pietà o di rabbia.”
Nella prospettiva del furor di Ugolino può essere riconsiderato il dubbio suscitato dal verso “Poscia, più  che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”, con cui il discorso del dannato si conclude.  In proposito  si sono creati due opposti schieramenti critici, favorevole l’uno, sfavorevole l’altro alla tesi dell’ antropofagia o tecnofagia o cannibalismo di Ugolino.
Fra i sostenitori di quest’ultima annoveriamo proprio il De Sanctis, che non a caso usa il termine “delirio”:
“Forse, mentre la natura spinge i denti nelle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono le carni del suo nemico […]”
Senonché, se intendiamo il dolore come sentimento legato all’odio verso l’Arcivescovo Ruggieri, è da ritenere che  la tesi favorevole sia da escludere. Vero è che Dante disponeva di fonti in cui padri o madri straziavano la carne dei figli, compreso il De bello judaico  di Giuseppe Flavio segnalato da Rossana Fenu Barbera in aggiunta alle fonti già note, ma non è detto che un poeta debba sempre riprendere pedissequamente i passi ai quali attinge. Può sembrare che il padre si sia deciso a sfamarsi delle carni dei figli, proprio perché essi stessi gli si erano  offerti come cibo. Riconsideriamo però  la scena nella parafrasi di Jorge Luis Borges:
“Nel fondo glaciale del nono cerchio, Ugolino rode infinitamente la nuca di Ruggieri degli Ubaldini, e si forbisce la bocca insanguinata coi capelli del reprobo. Solleva la bocca, non il volto, dal feroce pasto, e narra che Ruggieri lo tradì e lo incarcerò coi suoi figli. Dall’angusta finestra della cella vide crescere e decrescere molte lune, fino alla notte in cui sognò che Ruggieri, con mastini affamati, dava la caccia sul fianco di un monte a un  lupo e ai suoi lupacchiotti. All’alba sente i colpi del martello che mura l’uscio della torre. Passano un giorno e una notte, in silenzio. Ugolino, spinto dal dolore, si morde le mani; i figli credono lo faccia per fame, e gli offrono la loro carne, da lui stesso generata. Tra il quinto e il sesto giorno li vede morire ad uno ad uno. Poi resta cieco e parla coi suoi morti e piange e li tasta nel buio; poi la fame poté più del dolore.”
William Empson ha mostrato come nella poesia ricorrano diversi tipi di ambiguità, voluta o meno che sia, e come ciò influisca sull’interpretazione, mettendone in forse i limiti.  Borges ritiene per l’appunto che Dante abbia fatto volutamente ricorso all’ambiguità, per generare nel lettore nient’altro che il sospetto senza certezza di un Ugolino spinto dalla fame a cibarsi delle carni dei figli:
“Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le generazioni.”
Così l’interpretazione risulta sospinta nella sfera dell’ambiguità. Possiamo però discostarci da Borges. Osserviamo che quel padre, per quanto moribondo per l’inedia, non può essersi indotto  a violare le spoglie dei figli innocenti da quel suo  furioso dolore:  la dolorosa follia lo spingerà a voler fare a brani solo la persona di colui che, avendolo tradito, lo tradì e lo destinò insieme con quegli innocenti allo strazio dell’agonia nel “doloroso carcere”.
Resta aperto il problema destinato a lasciare assai perplesso il lettore.
Si è visto che il  De Sanctis intuisce la follia di Ugolino fin quasi a metterla in piena evidenza, mentre Stazio, fonte di Dante per l’episodio in esame, è esplicito e perentorio nel definire amens, ossia fuori di sé, dissennato, forsennato, pazzo, Tideo che rode le tempie di Menalippo (Tebaide, VIII, 751). Ebbene, come si concilia la tesi della follia di Ugolino con la “tecnica lucidamente matematica” ravvisata da Daniele Mattalia nel suo racconto, caratterizzato per giunta secondo Teodolinda Barolini  da “estrema astuzia narrativa”?
La risposta è nella definizione di “lucida follia” come “delirio di rivendicazione”.
I rivendicativi possono essere dissennati e offuscati mentalmente e ad un tempo coscienti e lucidi a livello espressivo. Vi è una connessione altalenante fra le due dimore psichiche. Una volta ricevuto un torto, si mostrano tanto precisi nel definirne modalità e circostanze quanto violenti nel volersene vendicare. Così Ugolino, ricevuta la richiesta di interrompere l’iroso, disperato e macabro sfogo della sua follia,  con una ben calcolata retorica della realtà vuole coinvolgere chi l’ascolta e renderlo partecipe del suo dramma. Comincia a rievocare la drammatica  atmosfera in cui si andò svolgendo la lenta agonia sua e dei suoi figli. Al di fuori della torre carceraria la luna e il sole continuano a scandire il corso del tempo nell’eternità  del cosmo. Un sogno premonitore, anzi un incubo profetico, rende inquieto quel padre, che si desta nel cuor della notte e ode i figli chiedere pane nel sonno.
Nell’accorgersi che Dante resta impassibile, lo accusa di insensibilità.
Perché è così crudele? Perché non partecipa al suo disdegno nei confronti di quel traditore insignito della carica arcivescovile? Perché non piange con lui? La porta della torre carceraria viene inchiodata, segno che  non sarà più fornito cibo ai prigionieri, condannati alla tortura della morte per  inedia. Il padre resta come pietrificato. Ammutolisce. Non riesce più nemmeno a piangere. Piangono i figli. Uno di loro si accorge della stranezza dello sguardo paterno e gliene chiede ragione. Il padre si sforza di trattenere il pianto e continua a tacere.
Giorni e notti trascorrono inesorabili.
Nella prigione tenebrosa filtra un raggio di sole e illumina i volti dei figli simili ormai a quello che deve essere ormai lo stesso aspetto del padre, smunto, emaciato, ansioso, stravolto, atterrito. Dolore per la sua e loro sorte insieme all’anelito di vendetta contro l’arcivescovo lo spingono a mordersi le mani, la destra, la sinistra. I figli credono invece che lo faccia per fame e si offrono come cibo a lui che li aveva generati, riecheggiando Cristo che nella tradizione evangelica si rivolge ai discepoli: “Prendete e mangiate: questo è il mio  corpo”. Il padre si sforza di apparire calmo.
Giorni e notti trascorrono inesorabili.
Padre e figli rimangono in silenzio, finché un  figlio si getta ai piedi del padre supplicandolo di aiutarlo e in quella supplica muore. Nei giorni successivi uno dopo l’altro muoiono gli altri tre figli. Nel buio del carcere il padre ormai  cieco va a  tentoni su  quegli amati cadaveri, chiamandoli per due giorni ancora, come se potessero udirlo, ma i morti, si sa, non risorgono. Poi muore anch’egli per fame. Il tragico racconto finisce. Finisce anche la lucidità. Irrompe l’irrazionale. Ugolino stravolge  gli occhi e rode il teschio coi denti simili alle zanne di un cane feroce,  segno di ripresa dell’intento bestiale di sbranare l’ecclesiastico che aveva tradito lui aristocratico. Alla luce dell’opera di Michel Foucault sulla follia diremmo che simili folli qualche tempo dopo sarebbero stati emarginati dalla società.
Non mancano commentatori che vedono in Ugolino uno strumento della giustizia divina.
Invece quella pazza brama di vendetta è una condanna  aggiuntiva per il traditore politico che rode il capo del traditore politico. Nell’episodio di Ugolino è insito il monito di Dante ai politici affinché vogliano e sappiano agire con giustizia al cospetto di Dio. Monito che resta fortemente suggestivo anche nella prospettiva di un rapporto fra giustizia e religione non più corrispondente alle odierne teorie del diritto.
Riferimenti

Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.

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Giovanni Modugno: a master of the senses

GIOVANNI MODUGNO: UN “MAESTRO DEL SENSO” PER LA SCUOLA ITALIANA DI OGGI

di CARLO DE NITTI

Alle “voci archetipe” della mia remotissima adolescenza

per sempre nei miei spazitempi mnesici, con infinita gratitudine.

Nascoste ai molti, si palesano,

a chi le cerca con animo puro,

perle, veri tesori delle profondità,

che rivelano le nostre vite,

la nostra intima essenza

di cercatori tra le pagine …

1. PROLOGO

Non mi è possibile iniziare questo intervento senza ringraziare con sentimenti di sincera gratitudine il prof. Vincenzo Robles, illustre cittadino bitontino e studioso di preclara fama, per avermi invitato a partecipare – bontà sua – a questo evento sul pensiero di Giovanni Modugno, pedagogista del ‘900 pugliese, italiano, europeo.

Non è quella che segue una forma di excusatio non petita: non sono un esperto di Giovanni Modugno nel senso accademico della parola, ma ho avuto, da molti anni, con la sua storia di vita, di pensiero, politica, culturale e religiosa una frequentazione che mi affascina. Sì, perché una personalità come quella di Giovanni Modugno non può non sé-durre, a prescindere dalle idee di chi a lui si accosti, purché lo faccia con onestà intellettuale e disinteresse, anche venale. Caratteristiche che egli stesso possedette in modo assoluto e che costituirono la cifra peculiare della sua personalità di uomo, di docente e quindi, di pedagogista.

Tutti gli altri intervenuti a questo evento – certamente molto più competenti di me – hanno lumeggiato o lumeggeranno da par loro al meglio il pensiero del pedagogista: a me, che raccolgo “materiali per chi voglia scrivere di storia” (alla maniera dei Commentari cesariani) piace interrogare la figura di Giovanni Modugno per cogliere – provando a suggere l’essenza del suo pensiero – quanto egli possa dire (rectius: insegnare) a noi persone di scuola del XXI secolo, che operano nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado (sebbene, ahimè, io mi trovi nel “pronaos” della quiescenza). Il ri-pensare Giovanni Modugno nella scuola di oggi non può, né deve, essere un mero esercizio di erudizione storiografica, ma un interesse squisitamente teoretico che interroghi il pedagogista, a partire dagli interrogativi del presente che scaturiscono, ovviamente, da bisogni didattici, educativi e pedagogici che urgono alle persone di scuola.

2. I “MAESTRI DEL SENSO”

E’ possibile connotare Giovanni Modugno come un “cercatore di Cristo”, un “apostolo dell’educazione”, un “pellegrino dell’Assoluto”: queste locuzioni possono legittimamente compendiarsi – per utilizzare il lessico della pedagogia di Papa Francesco – nell’espressione “maestro del senso”. Non trovo migliore sintetica definizione se non quella delle parole usate dal Pontefice recentemente a Lisbona, parlando ai giovani dal Pontefice per definirli: . 

E Giovanni Modugno lo è stato, di sicuro, ante litteram, … e lo è ancora oggi, a sessantacinque anni dalla sua scomparsa!

Leggere Giovanni Modugno oggi significa affrontare in modo efficace le urgenze educative del mondo contemporaneo: riformare la scuola, per Modugno, voleva dire formare le coscienze delle degli educandi. Al centro del processo educativo – come sostenevano in quegli anni i pedagogisti dell’attivismo pedagogico – non possono che esserci gli educandi con i loro vissuti, le loro storie interiori, i loro bisogni. Nel processo di educazione, non si può che “ascendere insieme”, per riprendere il titolo di un testo del 1943 dello stesso Modugno, per cambiare se stessi e contestualmente la società in cui si vive. L’unica vera riforma della scuola doveva essere, a parere di Giovanni Modugno, la “riforma interiore”, quella della formazione dei docenti.

La sua vita, la sua ricerca culturale, il suo insegnamentoincarnano l’anelito verso una società più giusta e più libera, nella quale ogni persona, consapevole della sua dignità, possa recuperare e vivere il significato dei valori fondamentali, in primis, la vita e la libertà, senza dei quali non è possibile praticare alcun altro valore. L’attualità del suo messaggio si focalizza prioritariamente intorno alla finalità dell’educazione, riprendendo le istanze più significative della tradizione pedagogica cristiana, arricchita dal dialogo fecondo con autori contemporanei. A partire dalla fine degli anni Venti, intensa fu la relazione di Giovanni Modugno con il gruppo di pedagogisti cattolici che si raccoglieva in quel di Brescia intorno alla casa editrice La Scuola, fondata nel 1904, ed alla rivista Scuola Italiana Moderna, nata nel 1893. Il medesimo milieu cattolico in cui, com’è noto, nacque (nel 1897) e si formò un giovane sacerdote (proclamato santo nel 2018), don Giovanni Battista Montini (il cui padre, l’avvocato Giorgio, era stato tra i fondatori della casa editrice), che alle posizioni di Giovanni Modugno fu certamente vicino, anche attraverso la filosofia della persona di Jacques Maritain (1882 – 1973).  

Nel gruppo di docenti e pedagogisti cattolici bresciani e nelle loro iniziative, di cui fu ispiratore e sodale anche attraverso il suo discepolo e figlioccio Matteo Perrini (1925 – 2007), Giovanni Modugno trovò quella consonanza intellettuale e religiosa che spesso gli mancò in Puglia, una sorta di accogliente “rifugio” ma anche la possibilità di incidere nella scuola militante: basti pensare alla comunanza di interessi e alla sua consonanza intellettuale con Laura Bianchini (1903 – 1983), docente di filosofia bresciana e madre Costituente.  

Anche dopo la seconda guerra mondiale, Giovanni Modugno continuò a collaborare con Scuola Italiana Moderna, la rivista scolastica più diffusa tra i docenti di scuola elementare, ed ispirò anche una filiazione diretta del gruppo bresciano: il “gruppo di maestri sperimentatori” di Pietralba (BZ),  dal nome dalla località dolomitica nella quale il gruppo si riunì per la prima volta nel 1948, cui partecipò anche un altro grande pedagogista pugliese, allora appena venticinquenne, suo allievo all’Istituto Magistrale di Bari: Gaetano Santomauro (1923 – 1976).  

Giovanni Modugno riconosce che la pedagogia è la “scienza della vita”: si preoccupa di affinare una riflessione rigorosa ma anche che manifesti un’efficacia pratica, fondata su principi e valori saldi, applicabili sia alla prassi quotidiana, scolastica e non. Per Modugno, la scienza della vita costituisce la risposta più significativa all’esigenza di riaffermare il primato della moralità, della razionalità e della spiritualità, come qualità peculiari di ogni persona che impara a riconoscerle come espressioni ineludibili della propria dignità e della propria coscienza morale.

Giovanni Modugno ricerca sempre il “perfezionamento interiore” anche nei momenti più drammatici della sua vita personale, come nel 1934, con la precoce morte dell’unica figlia Pina. Evento – collegato con altri lutti familiari (i genitori) – che interroga la coscienza del pedagogista. Quando la figlia si ammala, il progetto del Modugno è di lavorare per ‘cristianizzare la vita’, in lui e attorno a lui. E’ convinto che le disuguaglianze sociali e le miserie non si eliminano soltanto con le leggi e le riforme, ma con l’amore. La vera riforma interiore consiste nel disporsi a comprendere i bisogni di ciascuna persona in difficoltà e nel sentirsi responsabili se manca il necessario per vivere.

I motivi fondamentali che accompagnano la vita di Modugno sono quelli di ‘ascendere insieme’, ‘salire alla sublime vetta’,‘aiutare gli altri a salire’: l’insegnamento gli consente di adempiere a questa sua idea. Nella prospettiva del suo pensiero, la religione costituisce il principale centro d’interesse dell’intero curricolo scolastico, oltre che il contenuto più significativo della scienza della vita. Essa è la guida per cogliere nella vita concreta le relazioni tra le singole azioni ed i principi della ragione e della morale. Con la didattica della ‘provocazione riflessiva’, stimolata dal docente, la pratica del riflettere durante le lezioni li sollecitanella chiarificazione dei criteri direttivi e li pome nelle condizioni di osservare, giungendo a scoprire le istanze più profonde della vita.

3. GIOVANNI MODUGNO VIVANT

Riflettere oggi, nel terzo decennio del XXI secolo, sulla figura, sul pensiero e sulla storia di Giovanni Modugno, “cercatore di Cristo” ed “apostolo dell’educazione” è un atto “rivoluzionario” nella sua essenza, che modifica radicalmente i paradigmi del pensiero corrente, spesso incentrato sui tecnicismi della pedagogia– declinati in tutte le sue branche – e della scuola, piuttosto che sulla persona, quale punto di imputazione ultimo di ogni azione educativa.

Questo è il continuum che attraversa la vita di Giovanni Modugno, anche prima di insegnare, quando, da giovanissimo, iniziò ad impegnarsi nelle vicende della politica della sua città, in solido con lo storico molfettese Gaetano Salvemini (1873 – 1957), cui lo unì un lunghissimo sodalizio intellettuale e politico, nonostante le diverse posizioni, che ha attraversato la storia italiana dai primi anni del XX secolo agli anni ’50 del medesimo.Pressocché coetanei, furono entrambi “figli”, molto diversi tra loro, della medesima temperie culturale, quella positivistica, da cui furono entrambi però sempre alieni, giungendo a posizioni politiche diverse che avevano in comune l’impegno infaticabile e diuturno per il riscatto dei contadini meridionali rispetto ai soprusi dei latifondisti assenteisti, attraverso la conquista del primo e più fondamentale dei diritti, quello all’istruzione.   

Il fulcro dell’attività di Giovanni Modugno – che volle essere sempre “maestro di maestri” – fu sempre l’educazione dei giovani al pensiero critico, lontano da ogni possibile strumentalizzazione da qualunque “luogo” essa provenisse. Egli non fu mai uomo “di parte”, rifiutò sempre per se stesso incarichi, cariche ed onori di ogni tipo, proprio per conservare la sua libertà di pensiero: com’è noto, rifiutò la carica di Provveditore agli studi di Bari, sia nel 1923, quando gli fu proposta da Giuseppe Lombardo-Radice (1879 – 1938) perché temeva che avrebbe dovuto venire a compromessi con il fascismo, sia dopo la seconda guerra mondiale, quando fu invitato a ricoprire la medesima carica da Tommaso Fiore (1884 – 1973), a nome del Comitato di Liberazione Nazionale. Parimenti, non a caso, nel 1929, fu assordante il suo silenzio – in un’Italia osannante – di fronte alla firma dei Patti Lateranensi, che, com’è noto, ponevano fine alla sessantennale “questione romana”.

Questa missione – cui adempì senza deroga alcuna – non gli impedì di mantenere relazioni intellettuali con i più sensibili ed insigni pedagogisti del suo tempo, a cominciare dalla “scoperta” di Friedrich Wilhelm Foerster (1869 – 1966) e Josiah Royce (1855 – 1916). Con ed attraverso di loro, Giovanni Modugno difese la persona umana, la sua dignità e la sua libertà interiore, trovando nel cristianesimo, inteso come “fede nella Resurrezione”, il miglior fondamento per conseguire questo obiettivo. In quest’opera educativa, massima era la sintonia del pedagogista con l’allora Arcivescovo di Bari, Mons. Marcello Mimmi (1882 – 1961), di cui condivideva in toto il metodo pastorale.

La cifra di tutta l’esistenza del pedagogista che si può compendiare nel titolo del volume – pubblicato dieci anni dopo la sua scomparsa, a cura dell’amatissima moglie, Maria Spinelli Modugno – Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno: mediante un’ascesa interiore, mai disgiunta dall’adempimento del dovere della missione educativa, indirizzata alla conquista, da rinnovare continuamente, della libertà, della coscienza critica e della dignità della persona umana. Un’eredità pedagogica e morale da raccogliere e praticare con rinnovata lena anche, se non soprattutto, nelle scuole di ogni ordine e grado. 

Quella ‘coscienza critica’ di cui oggi – dopo oltre sessanta anni dalla sua morte – si avverte uno smisurato bisogno: VINCENZO ROBLES, da storico, con i suoi volumi, ne rende seriamente consapevoli noi tutt*, uomini del XXI secolo, persone di scuola e non.

4. EPILOGO “APERTO”

Più che un epilogo – per quanto aperto – mi piace avanzare una proposta concreta per continuare a riscoprire e valorizzare il pensiero di Giovanni Modugno nel XXI secolo. Mi piace avanzarla qui in un luogo simbolo della sua città natale, alla presenza delle autorità civili e religiose e di tanti illustri esperti.

Come si è diffuso nella scuola barese, pugliese ed italiana, forse melgré lui, il pensiero di Giovanni Modugno? A questa domanda,penso, si possa dare una risposta certa: attraverso i suoi studenti cui è toccato in sorte di averlo avuto come docente, prima a Corato, per sette anni, poi. dal 1920 al collocamento in quiescenza. presso l’Istituto Magistrale “Giordano Bianchi-Dottula” di Bari.

Essi hanno “abitato” ed “innervato” la scuola – segnatamente e prioritariamente quella elementare – barese, pugliese e non solo portando nella loro attività didattica e professionale gli insegnamenti ricevuti. Sarebbe molto interessante – non certo per mera erudizione storiografica – ricercare i loro nomi, la loro provenienza geografica attraverso i registri del prof. Giovanni Modugno, raccolti nell’archivio storico dell’istituto scolastico frequentato.

Consultando quell’archivio, tanto si potrebbe scoprire su Giovanni Modugno e sulla storia della scuola pugliese: potrebbe essere un ottimo argomento per un’efficace e non convenzionale attività di Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (vulgo PCTO, come negli acronimi di cui è saturo lo ‘scolastichese’, nota neolingua iniziatica), ovvero, anche per tesi di laurea (triennali, magistrali e di PhD) sicuramente molto interessanti e nietzscheanamente “inattuali”.

Del resto, l’influenza del pensiero di Giovanni Modugno,attraverso i suoi studenti del “Bianchi–Dottula”, ha anche travalicato anche i confini della scuola e della pedagogia: basti ricordare anche soltanto il nome di uno di loro, divenuto un Maestro del Diritto dell’Università degli studi di Bari (e tantissimo altro…), il prof. Renato Dell’Andro (1922 – 1990).

Ma questa sarebbe un’altra storia, che mi ricondurrebbe alla mia ormai remotissima adolescenza… 

5. BIBLIOGRAFIA

• AA.VV., Maestri del senso: competenze e passione per una scuola migliore, a cura di DE NITTI, CARLO e LAVERMICOCCA, CARLO, Bari 2023, Ecumenica editrice, di prossima pubblicazione;

• CAPORALE, VITTORIANO, Educazione e politica in Giovanni Modugno, Bari 1988, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Un pedagogista del Sud, Bari 1995, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, Giovanni Modugno. Pedagogia Scienza della Vita, Bari, 1997, Cacucci; 

• CAPORALE, VITTORIANO, La proposta pedagogica di Giovanni Modugno, Bari, 2004, Cacucci;                                                                                                              

• CAPORALE, VITTORIANO, Pedagogia e vita di Giovanni Modugno, Bari 2006, Cacucci;

• CAPURSO, GIOVANNI, Due Maestri per il Sud: Gaetano Salvemini e Giovanni Modugno, Corato, 2022, SECOP;

• MICUNCO, GIUSEPPE, La buona battaglia. Santità e laicità in Giovanni Modugno, Bari, 2013, Stilo editrice;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno. Il volto umano del Vangelo, Bari, 2020, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO, Giovanni Modugno e il suo “rifugio”bresciano, Bari, 2022, Edizioni Dal Sud;

• ROBLES, VINCENZO – AUFIERO, ARMANDO, Giovanni Modugno: il volto umano del Vangelo in AA.VV., Op. cit.;

• SANTOMAURO, GAETANO, Giovanni Modugno attraverso gli inediti, «La Rassegna pugliese», 1969, 4-5, pp. 3 – 22;

• SARACINO, DOMENICO, Giovanni Modugno. Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Bari 2006, Stilo editrice; 

• SPINELLI MODUGNO, MARIA, Giovanni Modugno. Io cerco l’Eterno, Bari 1967, Editoriale Universitaria.

Et si parva licet …

• DE NITTI, CARLO, La missione educativa di Giovanni Modugno e la sua attualità nel XXI secolo. Nota a margine di una recente biografia del pedagogista bitontino, ”Educazione & Scuola”, XXVI, marzo 2021, 1123;

• DE NITTI, CARLO, In difesa del Sud: storia dell’amicizia di due Maestri tra Molfetta e Bitonto, ”Educazione & Scuola”, XXVII, settembre 2022, 1141; 

• DE NITTI, CARLO, Giovanni Modugno: un “cercatore di Cristo”, apostolo dell’educazione, in VINCENZO ROBLES, Giovanni Modugno e il suo “rifugio” bresciano, Bari 2023, Edizioni Dal Sud, pp. 9 – 12.