Gli smartphone? Aiutano la memoria

Come aiutare la memoria a memorizzare dati e contenuti? Se fino a qualche tempo addietro a scuola si assegnavano interi canti della Commedia o poesie a memoria e addirittura fino al Cinquecento si imparava l’intera bibbia per contrastare con le citazioni le spinte ereticali, oggi si scopre che l‘uso di dispositivi digitali, come gli smartphone, potrebbe aiutare a migliorare le capacità della memoria. Che è fondamentale per ottenere risultati importanti, come dimostrano i metodi messi a punto da personalità come Giordano Bruno o Campanella, ma anche da Pico della Mirandola, mentre nota è la prodigiosa memoria di Dante. 

E così, una ricerca pubblicata su ‘Journal of Experimental Psychology’ condotta dai ricercatori della UCL – University College of London, stabilisce che l’utilizzo di un dispositivo digitale non solo aiuta le persone a ricordare le informazioni salvate nel dispositivo, ma le aiuta anche a ricordare le informazioni non salvate.

Per dimostrarlo, i ricercatori hanno

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560 anni fa nasceva Pico della Mirandola

Che fosse un personaggio fuori dall’ordinario non ci sono dubbi: il 24 febbraio 1463, quando Giovanni Pico, conte di Mirandola e principe di Concordia, venne al mondo nel suo castello nel modenese “fu vista una fiamma in forma di cerchio stare sopra il giaciglio della partoriente e tosto svanire”, scrive il nipote Gianfrancesco Pico, autore di una sua Vita. Il segno era evidente: quel bambino era destinato a illuminare il mondo, ma solo per un breve periodo di tempo. Per l’esattezza 31 anni, in cui gli capitò di tutto. Scopriamo questo giovane prodigio attraverso l’articolo “Il cabalista innamorato” di Maria Leonarda Leone, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Personaggio controverso. Fu condannato come eretico, ma anche definito il più grande pensatore della cristianità dopo sant’Agostino; fu accusato di omosessualità, ma per amore si improvvisò rapitore di mogli altrui; finì in carcere, ma grazie al suo prestigio si guadagnò un posto in una sacra rappresentazione dipinta da Botticelli.

Piccolo genio. Ricco, generoso, bello, elegante, coltissimo ed estremamente intelligente, si racconta che da ragazzo rispose per le rime a un cardinale che sosteneva come di solito i bambini prodigio da grandi divengano perfetti idioti: “Chissà com’era dotata da piccolo Vostra Eminenza!” avrebbe commentato Pico.
E non aveva avuto tutti i torti a risentirsi per quella battutaccia: si dice infatti che fosse capace di recitare a memoria tutta la Divina commedia o qualunque poema avesse ascoltato una sola volta. Certo aveva preso dai parenti materni l’amore per la cultura (suo cugino Matteo Boiardo scrisse il famoso poema Orlando innamorato).

Fate l’amore, non la guerra! Al contrario dei suoi due bellicosi fratelli maggiori, del potere non gli importava e alla guerra preferiva le poesie d’amore. Rinunciò quindi ai beni di famiglia, riservandosi una rendita sufficiente a un’agiata vita da intellettuale e spese la sua fortuna in rari testi antichi o per soggiornare nei maggiori centri di studio.
Un’occupazione, quest’ultima, cui si dedicò molto presto: fin dai 14 anni si spostò di università in università, da Bologna a Ferrara, da Padova a Pavia, fino a Parigi per dedicarsi al diritto canonico, agli studi umanistici, ai corsi di retorica e di logica matematica.

Fine umanista. Nel frattempo si procurò anche un’infarinatura di greco ed ebraico, lingue che, insieme all’arabo e al caldaico, gli sarebbero tornate utili per il futuro, quando si cimentò con la cabala, l’antica “sapienza occulta” degli ebrei.

Arrivò a Firenze, all’epoca attivissimo centro culturale, a 21 anni: qui entrò a far parte della cerchia dell’Accademia platonica, una specie di “circolo” per gli amici letterati di Lorenzo de’ Medici, mecenate e Signore del capoluogo toscano.

Guai con il papato. Eppure la sua fama e l’incondizionata ammirazione del Magnifico non bastarono a far accettare le sue idee. Dicevano i latini: “Nomen omen” (il destino è nel nome). E infatti Pico, che preferiva il titolo di Conte della Concordia, cercò di riconciliare l’antica filosofia aristotelica, quella platonica e i vari elementi della cultura orientale in una filosofia universale, che riunisse idealmente tutte le religioni.
Nella convinzione che i grandi filosofi avessero come unico scopo la conoscenza di Dio e che in questo senso avessero contribuito alla nascita del cristianesimo. Che cosa ne pensasse la Chiesa, sempre ossessionata da streghe ed eretici, Pico lo scoprì presto.

Contest filosofico. Nel 1486 decise di organizzare a Roma un congresso filosofico: la sua idea era di sostenere le proprie tesi, uno contro tutti, di fronte a una sala di potenziali dotti oppositori. Non aveva calcolato che il primo e più accanito di questi sarebbe stato proprio il papa. Il pontefice Innocenzo VIII rinviò infatti lo svolgimento della disputa e istituì una commissione per esaminare le 900 Proposizioni dialettiche, morali, fisiche, matematiche, teologiche, magiche, cabalistiche, sia proprie che dei sapienti caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini formulate dal giovane filosofo. In tre mesi i teologi vaticani ne dichiararono eretiche 7 e infondate 6.
Così Pico, che avrà avuto pure una memoria straordinaria, ma sicuramente difettava in diplomazia, buttò giù una furiosa Apologia, in cui rivendicò la sua libertà di filosofo e tacciò di ignoranza i censori. Con ciò non fece altro che peggiorare la situazione: Innocenzo VIII condannò in blocco le 900 tesi e ne vietò la lettura, la copiatura e la stampa, pena la scomunica. Non solo: l’ira papale seguì Pico anche Oltralpe.

Protetto dal Magnifico. Il filosofo venne arrestato in Francia, dove si era rifugiato, ma fu liberato meno di un mese dopo e rispedito in Italia per intercessione di Lorenzo il Magnifico. Dall’estate del 1488 si stabilì nei pressi di Firenze, sui colli fiesolani. Affetto dalla scabbia e profondamente turbato per la condanna di eresia (che gli venne revocata solo cinque anni dopo, da papa Alessandro VI Borgia) si convertì a uno stile di vita quasi monacale, desideroso com’era di ottenere l’assoluzione.

In una lettera il superiore dell’Abbazia di Fiesole, Matteo Bossi, ne lodò il comportamento ossessivamente virtuoso: “Egli aveva allontanato talmente il piede da ogni mollezza e tentazione della carne da sembrare che, al di là dei sensi e dell’ardore giovanile, vivesse una vita da angelo”.

Follie d’amore. Ma Pico non era sempre stato uno stinco di santo: solo un paio di anni prima, il 10 maggio 1486, ad Arezzo aveva tentato di rapire la bellissima Margherita, moglie di un lontano parente di Lorenzo, Giuliano Mariotto de’ Medici. L’amata, stregata dagli occhi azzurri, dai capelli biondi e dalle spalle larghe e muscolose di quel ragazzone alto quasi due metri, scappò con lui verso Siena fingendosi vittima di un rapimento. Ma i due furono raggiunti dal marito tradito e dai suoi soldati, che con le armi si ripresero la fuggiasca.
La perdita dell’amata lo irritò parecchio, ma Pico riuscì a consolarsi: le donne non gli mancarono mai e forse neppure gli spasimanti del suo stesso sesso. All’interno dell’Accademia fiorentina, infatti, l’umanista Marsilio Ficino (noto omosessuale) proponeva l’amor socratico, cioè l’amore spirituale fra uomini (perché, a suo dire, nelle donne la perfezione dell’anima non esiste), decantato dall’antico filosofo greco Platone come mezzo per avvicinarsi alla bellezza di Dio.

Amore platonico? Dicono le malelingue che, in chiave molto terrena, Pico sperimentò questo tipo d’amore con l’umanista Girolamo Benivieni. Con lui divise anche tomba e lapide “affinché dopo la morte la separazione di luoghi non disgiunga le ossa di coloro i cui animi in vita congiunse Amore”. Fu solo Amore filosofico? A mettere la pulce nell’orecchio dei contemporanei fu il frate Girolamo Savonarola, legato a Pico da un’amicizia nata durante gli ultimi anni di vita del passionale emiliano.

Dopo la morte dell’amico, durante una predica il domenicano rivelò che la sua anima “non è potuta andare subito in Paradiso, ma è assoggettata per un certo tempo alle fiamme del Purgatorio”. Visto che il frate, in barba alla consuetudine, aveva rivelato il peccatore ma non il suo peccato, ci pensarono i fedeli a ricamare su quella notizia data solo a metà. E per spiegare quegli ultimi 13 giorni di febbri dolorose, che s’erano portate via il filosofo il 17 novembre 1494, tirarono in ballo la sifilide.

Morte misteriosa. In effetti alcuni storici credono che Pico sia stato una delle prime vittime della grande epidemia di “mal francese” che colpì l’Europa nel 1493-94.

Il nobile senese Antonio Spannocchi raccontò, in una lettera datata 29 settembre 1494, che un altro membro dell’Accademia platonica, Angelo Poliziano (morto in modo altrettanto rapido e inaspettato meno di due mesi prima di Pico) si era ammalato poco dopo un suo giovane amante. Ma, un po’ come succede anche oggi, l’affaire sessuale, vero o presunto, sarebbe stato usato per nascondere invece una vicenda molto più torbida.

Secondo gli antropologi, l’occupante della tomba fiorentina nella chiesa di San Marco fu avvelenato con l’arsenico: ne rimangono infatti abbondanti tracce nelle sue ossa. Perché? Tra le varie ipotesi, la più probabile vuole che l’unico amore proibito che costò la vita a Pico fu quello per la Scienza.

Contro “l’astrologia”. Il geniale mirandolano era convinto che i corpi celesti non avessero il potere di influire sulle vicende umane e che non fosse possibile prevedere il futuro basandosi sulle congiunture astrali. Solo l’uomo, diceva, poteva decidere del proprio destino con le sue libere scelte. Criticò, perciò, quella che all’epoca per molti era una “scienza esatta”, relegandola al ruolo di “arte divinatoria” nel suo Disputationis adversus astrologiam divinatricem, pubblicato postumo dal nipote Gianfrancesco.

misteri. Certo oggi nessuno ucciderebbe per dar ragione a Branko, ma all’epoca invece qualcuno potrebbe averlo fatto per evitare la condanna della Chiesa. Lo proverebbe una lettera anonima scritta pochi mesi dopo la morte di Pico, secondo molti da Camilla Rucellai, guida della potente corporazione degli astrologi.
Era indirizzata al suo allievo nelle arti dell’occulto, Marsilio Ficino: “Dopo la morte del nostro nemico hai fallito. […] L’assassinio di Pico è una sciocchezza. Si sarebbe fatto dimenticare ritirandosi dal gioco e adesso eccolo trasformato in vittima. Il suo libro assumerà ancora più importanza. Pico esitava a pubblicarlo, ora il suo erede si sentirà in dovere di farlo. Il Papa vuole il libro per comprometterci. […] Quel manoscritto deve sparire, ritrovalo”. Ma il fatto che il pamphlet di Pico contro l’astrologia riuscisse a vedere le stampe grazie al nipote è la prova che i suoi nemici se la cavavano meglio con gli oroscopi che con i furti.

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Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?

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