Olimpiadi invernali 2026, gli ermellini mascotte per salvare una specie

Loro ancora non lo sanno, ma hanno una responsabilità importante: far accendere le luci dei riflettori su una specie di cui sappiamo ancora troppo poco. E che, complici gli effetti del global warming e il progressivo scioglimento dei ghiacciai sulle nostre Alpi, l’unico sito del nostro paese in cui sono presenti, rischiano fatalmente di scomparire. Non è un caso quindi che Tina e Milo, siano gli ermellini scelti come mascotte per rappresentare i Giochi Olimpici e Paralimpici di Milano Cortina 2026: l’una ha il manto bianco (invernale), l’altro marrone (estivo), in linea con una delle caratteristiche più singolari della specie, la muta del pelo. I nomi sono i diminutivi di quelli delle due località protagoniste, Tina da Cortina e Milo da Milano.

Tina e Milo, le due mascotte di Milano Cortina 2026 
E mentre si avviano le

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Vi racconto la Venere di Milo

La bellezza per antonomasia. La classità per definizione. Il capolavoro scultoreo per eccellenza.Questo (e tanto altro) è la Venere di Milo, l’eccezionale statua greca conservata al Louvre.
È una delle sculture più famose del mondo, un capolavoro di età ellenistica, ma non tutti ne conoscono la storia a luci e ombre e le infinite reinterpretazioni fatte dagli artisti.

Tutto ha inizio l’8 aprile del 1820 quando Yorgos Kentrotas, un contadino greco che abitava sull’isola di Milo, nell’arcipelago delle Cicladi, colpì con la sua pala qualcosa di molto duro.

Stava cercando pietre per rinforzare la recinzione del suo campo quando dal terreno spuntò fuori un busto di marmo pario senza braccia, del tutto inutile per le necessità del contadino.
Il caso volle che si trovasse da quelle parti anche Olivier Voutier, un giovane ufficiale della marina francese appassionato di archeologia, la cui nave Chevrette era ormeggiata sull’isola. L’uomo passeggiava tra i ruderi dell’antico teatro greco, incantato dagli innumerevoli frammenti di statue che emergevano dal terreno. Ma vedendo il contadino, a poca distanza da lui, fermo a osservare qualcosa nella buca che stava scavando, si avvicinò per curiosare.

Ecco come Voutier ricorda quel momento: “Aveva appena scoperto la parte superiore di un statua in cattive condizioni e, non potendo essere utilizzata per la sua costruzione, stava per ricoprirla di macerie. Con la punta di qualche piatto l’ho fatta invece uscire. Non aveva le braccia, il naso e il nodo di i capelli erano spezzati, erano terribilmente sporchi. Tuttavia, a prima vista, si riconosce un pezzo notevole. Ho esortato il mio uomo a cercare l’altra parte. Presto si è imbattuto in essa. Poi ho fatto assemblare la statua. Chi ha visto la Venere di Milo può immaginare il mio stupore!”.Ed ecco come ha disegnato quel ritrovamento.

La scoperta della statua suscitò grande entusiasmo anche nell’ammiraglio Jules Dumont d’Urville che si fece subito avanti per acquistarla. Ma Pierre-Henry Gauttier du Parc, il capitano della Chevrette, si oppose a quella trattativa rifiutandosi di trasportare un manufatto tanto fragile.

A quel punto il contadino pensò bene di cercare un nuovo acquirente in un monaco ortodosso che intendeva offrirla a un funzionario ottomano del sultanato di Costantinopoli. D’Urville allora scrisse immediatamente all’ambasciatore di Francia a Costantinopoli: non poteva lasciarsi sfuggire un pezzo così pregiato! L’ambasciatore acconsentì all’acquisto, anzi diede l’ordine di comprare la scultura a qualsiasi prezzo.

Il suo interesse però non era tanto di tipo artistico, ma smaccatamente politico. Quella statua, un raro esemplare greco originale e non una copia romana, alta poco più di due metri, avrebbe compensato lo smacco subito dalla Francia che, dopo il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva dovuto restituire ai vari stati italiani la Venere Medici, l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte, alcuni dei capolavori classici sottratti con le spoliazioni napoleoniche.
Grazie alla Venere di Milo, per altro, Parigi poteva tornare a competere con Londra – che da alcuni anni si era appropriata dei marmi del Partenone – e con Monaco di Baviera, la cui Gliptoteca conservava i preziosi frontoni provenienti dal tempio di Afaia, sull’isola greca di Egina.
Dopo estenuanti trattative con il monaco e con la comunità dell’isola di Milo i francesi finalmente si aggiudicarono la statua e la imbarcarono alla volta della corte di re Luigi XVIII che nel 1821 ne fece dono al Louvre.

L’azione di propaganda iniziò immediatamente: la statua, inizialmente attribuita a Fidia o a Prassitele (ma oggi datata al 150-125 a.C.) fu esposta al centro di una grande sala del Louvre e i calchi vennero inviati alle Accademie di Belle Arti affinché i giovani studenti potessero copiarla. Doveva diventare a tutti i costi un simbolo universale di bellezza.Per questo si aprì subito il dibattito sulla possibilità di completarla con due nuove braccia, come si usava fare all’epoca. Ma le ipotesi erano contraddittorie. Teneva una mela in mano? Scriveva su una lapide? Si guardava allo specchio?

Alla fine prevalse la decisione di lasciare la statua com’era (a parte l’aggiunta del piede sinistro, successivamente rimosso): la mancanza delle braccia, in fin dei conti, non ne diminuiva né il valore né la bellezza, anzi faceva convergere tutta l’attenzione sul raffinatissimo panneggio, sul busto levigato e su quel volto dall’espressione imperturbabile.

Per altro non era neanche certo che si trattasse di Venere: quell’identificazione era stata fatta da d’Urville e mai più rimessa in discussione. In verità una porzione di basamento originale, misteriosamente scomparso, portava delle iscrizioni collegabili forse alla statua di Poseidone ritrovata nello stesso luogo nel 1877, di cui la figura femminile avrebbe potuto essere la moglie  Anfitrite.

Ma è chiaro che una “Anfitrite di Milo” non avrebbe colpito l’immaginario collettivo come una “Venere di Milo” (che per essere precisi avrebbe dovuto chiamarsi Afrodite, alla greca). E d’altra parte la posa e la composizione somigliavano molto a quelle della Venere di Capua del Museo Archeologico di Napoli (copia romana di un originale greco rinvenuta nel XVIII secolo). Dunque, meglio lasciare tutto com’era…

La vera incoronazione come dea della bellezza arriverà poco tempo dopo, quando gli artisti iniziarono a prendere la Venere di Milo come modello per le loro opere d’arte. Il primo in assoluto è stato Eugène Delacroix: la sua Libertà che guida il popolo del 1830, infatti, si ispira alle Venere di Milo per quel busto nudo, per la gamba sinistra protesa in avanti e per il panneggio della veste.Questo omaggio però non bastò a fare apprezzare quella figura: le braccia robuste, le guance arrossate e i peli sotto le ascelle facevano somigliare la donna a una massaia piuttosto che a una dea!

Del 1841 invece, è questo dipinto intimista del danese Christoffer Wilhelm Eckersberg. È dedicato alla toilette del mattino ma quella schiena con i fianchi cinti dal tessuto è un esplicito riferimento alla Venere di Milo, come si può notare osservando il retro della statua.

Assieme alla fama purtroppo cominciano anche i pericoli. Nel 1870-1871, con l’infuriare a Parigi della guerra franco-prussiana, la Venere di Milo viene imballata in una cassa di legno e conservata in un luogo sicuro.

Al suo rientro a Louvre il curatore del museo iniziò degli studi approfonditi sulla statua scoprendo, tra le tante, che non si è spezzata in seguito a un incidente né è stata tagliata: la Venere è stata realizzata fin dall’inizio unendo due blocchi di marmo.
A partire dagli anni Ottanta viene ritratta più volte nella sala in cui era stata collocata, come presenza divina nella penombra del museo.

Intanto diventa oggetto di studio anche da parte degli artisti più insospettabili, come Cézanne e van Gogh.

La celebrità della scultura è testimoniata pure da alcuni dipinti che ne raffigurano delle miniature in ambienti domestici…

… o nell’atelier di una pittrice.

Ebbe grande diffusione anche il solo torso. Possiamo vederlo sia nello studio di uno scultore che in un soggiorno borghese.

Tutto cambia con l’arrivo del Surrealismo. Dopo cento anni dalla sua scoperta, quell’icona di bellezza, quel frammento di perfezione, perde per la prima volta la sua aura divina e diventa l’oggetto degli esperimenti espressivi più estremi.
Per primo inizia René Magritte con Les menottes de cuivre (Le manette di rame) del 1931. Si tratta di una copia della statua parzialmente ridipinta in rosa e blu, con la testa lasciata in bianco. Il titolo, ideato da André Breton, allude ironicamente all’assenza delle mani. È un’operazione dadaista simile ai baffi sulla Gioconda fatti da Duchamp nel 1919. E tuttavia Magritte ci aveva visto giusto: le statue greche erano colorate in modo da sembrare corpi veri.

Il 1936 è invece l’anno della Venere a cassetti di Salvador Dalì. Riprodotta in infinite varianti, è un’opera che si inoltra nel mondo della bellezza carnale, dell’eros e dei suoi segreti, rappresentati dai cassetti (un simbolo tratto dalla psicanalisi di Freud) aperti sul corpo della statua.

Nello stesso periodo si occupa della scultura anche Man Ray. La sua Venere restaurata del 1936 (un busto senza drappo sui fianchi) e la testa di Venere del 1937 sono una perfetta dimostrazione dello spirito iconoclasta che muoveva dadaisti e surrealisti. Stringere tra corde o catturare in una rete un pezzo di statua significa trattare quei capolavori come oggetti qualsiasi, oltre a suggerire simili fantasie erotiche sul corpo femminile.Ma in fondo non occorre cercare un significato. La testa di Venere dentro una rete da pesca è “bella come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”, per usare le parole del poeta Lautréamont tanto care ai Surrealisti.

Tuttavia la dissacrazione della Venere di Milo non è stata un’invenzione di questi artisti. Già a partire dagli anni Dieci ci avevano pensato i pubblicitari a trasformare la dea della bellezza in testimonial più o meno ironico dei nuovi consumi di massa. Dai corn-flakes all’aspirina, dai corsetti alle stilografiche, ogni occasione era buona per accostare il proprio prodotto alla suprema perfezione della dea greca.

Ma nel 1939 la Venere è di nuovo in pericolo. Con l’avanzata delle truppe tedesche verso la Francia occorreva svuotare il Louvre dai suoi capolavori e spostarli in un luogo sicuro. Il direttore Jacques Jaujard chiuse il museo il 25 agosto 1939 (ufficialmente per manutenzione) e organizzò il trasloco di oltre 4000 opere – sia dipinti che sculture – chiudendole dentro 1862 casse di legno trasportate da 203 camion diretti verso il castello di Chambord.

Il 16 agosto 1940 i nazisti entrarono al Louvre. Con grande disappunto scoprirono che era completamente vuoto. Ma furono lieti di trovare la Venere di Milo ancora al suo posto. Quello che non sapevano è che la statua che stavano ammirando era una volgare copia in gesso.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Venere, quella vera, torna al suo posto. E in poco tempo ritorna al centro dell’interesse degli artisti, in quella sorta di continuo ritorno al passato, specialmente quello classico, che caratterizza l’arte occidentale.

Nel 1962 se ne occupa Niki de Saint Phalle con una delle sue azioni artistiche da poco inaugurate: realizza una copia cava della Venere, fissa al suo interno dei sacchetti di vernice e poi la colpisce a distanza con un fucile. La statua a quel punto inizia a ricoprirsi di colore, ma in un modo che non può essere controllato dall’artista. È un attacco all’arte antica ma contemporaneamente è una rigenerazione, nata da un gesto di estrema violenza.

Intanto i traslochi non sono finiti. Nel 1964 la statua viene spedita addirittura a Tokyo, in occasione delle Olimpiadi. Ma il lungo viaggio di 33 giorni sul transatlantico francese Vietnam l’ha danneggiata: quattro frammenti del panneggio, all’altezza dello stinco sinistro, si sono staccati. Tre di questi erano pezzi in gesso di un vecchio restauro mentre il quarto era una scheggia di marmo, già staccata dalla statua all’atto del ritrovamento nel 1820.
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Dalì tornerà di nuovo sul tema della Venere negli anni Settanta, evidentemente ossessionato da questo simbolo così potente. In Torero allucinogeno la Venere di Milo si moltiplica in diverse posizioni e varie dimensioni dentro una delirante sovrapposizione di immagini. La dea diventa archetipo femminile inafferrabile, a tratti spaventoso. La sua figura ripetuta dà forma anche al volto del torero, in un gioco di interscambio tra figura e sfondo.

Negli stessi anni Dalì torna anche alla versione scultorea di Venere, ma abbandona i cassetti e inizia a mescolare le parti del volto con la Testa otorinologica di Venere. Naso e orecchio sono scambiati di posto: forse perché ‘sentiamo’ con entrambi?

Poi è stata la volta di Arman che, usando il suo linguaggio basato sulla trasformazione e accumulazione di oggetti comuni, ha iniziato ad affettare, frammentare, scomporre e riassemblare la Venere di Milo. Ma per quanto la si possa fare a pezzi, lei rimane sempre riconoscibilissima.

Quella posa sinuosa con le braccia mozzate si riconosce pure in silhouette, come nello specchio Venere disegnato dall’architetto Carlo Mollino nel lontano 1938 per Casa Miller a Torino (ma ancora in produzione)…

… oppure nella scultura sezionata di César del 1984.

Tra le versioni più recenti ci sono quelle di Jim Dine degli anni Ottanta e Novanta. Le sue Veneri sembrano regredire alla fase di blocco appena sbozzato: mancano della testa e appaiono spigolose e ruvide. Ma il colore, in tinta unita o a chiazze vivaci, rende questi oggetti quasi astratti, specialmente nelle dimensioni colossali che in alcuni casi assumono. Quando queste statue sono disposte in gruppi di tre la classicità raddoppia, attraverso un evidente richiamo al tema delle Tre grazie.

A fronte di tutto questo, di una passione sfrenata verso una dea venuta da una sperduta isola greca che pare non vedere mai flessioni, si può ben dire che l’azione di propaganda messa in atto dalla Francia abbia funzionato davvero alla grande! E però, per trasformare una statua in un’icona, qualcosa di speciale ci dev’essere.

Quella donna di marmo ci guarda da millenni, indifferente al succedersi dei giorni e delle stagioni, alle generazioni umane che, passando, la guardano negli occhi. Aspetta paziente senza aspettare nulla: la sua imperfetta perfezione le basterà per sempre.

Schede Didattiche di Italiano: Nomi singolari e plurali

Nella fase di apprendimento della lingua italiana nella scuola primaria, uno degli aspetti fondamentali è capire la differenza tra nomi singolari e plurali. Questo concetto non solo aiuta i bambini a comunicare in modo chiaro e preciso, ma svolge un ruolo cruciale nello sviluppo delle competenze linguistiche di base.
Le schede didattiche rappresentano uno strumento educativo essenziale per insegnare ai bambini come i nomi italiani possono cambiare dalla forma singolare a quella plurale, applicando regole specifiche e migliorando così la loro capacità di scrittura e comprensione della lingua.
A fine articolo potrete scaricare gratuitamente in formato PDF le “Schede Didattiche di Italiano: Nomi singolari e plurali, Per la Scuola Primaria“.
Indice

Importanza dell’Apprendimento dei Nomi Singolari e Plurali
Nel Potenziare il Vocabolario
Comprendere la formazione dei nomi singolari e plurali aiuta i bambini a espandere il loro vocabolario. Questo è cruciale non solo per arricchire la loro conoscenza linguistica, ma anche per migliorare la loro capacità di esprimersi in modo efficace sia nella scrittura che nella conversazione.
Nella Chiarezza della Comunicazione
Imparare a distinguere tra nomi singolari e plurali consente ai bambini di comunicare in modo chiaro e preciso. Questo è particolarmente importante nella scrittura, dove la corretta concordanza tra soggetto e verbo dipende dalla corretta forma del nome.
Regole di Formazione dei Plurali in Italiano
Le regole per formare il plurale dei nomi italiani dipendono dalla loro terminazione nel singolare. Ecco alcune delle regole di base:

Nomi che terminano in -o: Il plurale si forma cambiando la -o in -i (es. libro → libri).
Nomi che terminano in -a: Il plurale si forma cambiando la -a in -e (es. casa → case).
Nomi che terminano in -e: La forma plurale spesso rimane la stessa (es. cane → cani), ma possono esistere eccezioni.
Nomi che terminano in -co, -go, -ca, -ga: Il plurale si forma cambiando la -o in -i e la -a in -he (es. amico → amici, mano → mani).

Attività Pratiche con le Schede Didattiche
Le schede didattiche offrono una varietà di attività per praticare i nomi singolari e plurali:

Esercizi di Associazione: Associare nomi singolari ai loro plurali corrispondenti.
Creazione di Frasi: Utilizzare nomi singolari e plurali in frasi per praticare la concordanza corretta.
Gioco dei Memory: Utilizzare schede con immagini e parole per fare corrispondenze tra nomi singolari e plurali.

Benefici delle Schede Didattiche sui Nomi Singolari e Plurali

Apprendimento Interattivo: Le attività pratiche rendono l’apprendimento dei nomi singolari e plurali più coinvolgente e stimolante.
Miglioramento delle Competenze Linguistiche: Gli studenti migliorano la loro capacità di applicare le regole grammaticali e di comunicare in modo efficace.
Preparazione per l’Uso Pratico: Acquisendo padronanza dei nomi singolari e plurali, i bambini sono meglio preparati per utilizzare correttamente la lingua italiana nella vita di tutti i giorni.

Come Rafforzare l’Apprendimento a Casa

Pratica Costante: Incorporare esercizi di formazione dei plurali durante le attività quotidiane, come la lettura di libri o la scrittura di diari.
Utilizzo di Risorse Digitali: Esplorare applicazioni e giochi educativi online che offrono esercizi divertenti e interattivi sui nomi singolari e plurali.
Coinvolgimento dei Genitori: I genitori possono supportare l’apprendimento dei loro figli stimolando conversazioni sulla corretta forma dei nomi in vari contesti.

Conclusioni
In conclusione, l’insegnamento dei nomi singolari e plurali attraverso l’uso delle schede didattiche è fondamentale per il successo nell’apprendimento della lingua italiana nella scuola primaria. Le attività pratiche e interattive offerte da queste risorse educative aiutano i bambini non solo a comprendere le regole di formazione dei nomi, ma anche a sviluppare competenze linguistiche essenziali per la comunicazione efficace. Incorporando regole chiare e esempi pertinenti, gli insegnanti possono preparare i loro studenti per una padronanza continua della grammatica italiana.

Potete scaricare e stampare gratuitamente in formato PDF le “Schede Didattiche di Italiano: Nomi singolari e plurali, Per la Scuola Primaria“, basta cliccare sul pulsante ‘Download‘:

Domande Frequenti su ‘Schede Didattiche di Italiano: Nomi singolari e plurali, Per la Scuola Primaria’

Qual è la differenza tra nomi singolari e plurali?
I nomi singolari indicano un solo oggetto o persona, mentre i nomi plurali indicano più di uno. Ad esempio, “libro” è singolare, mentre “libri” è plurale.

Perché è importante insegnare ai bambini la differenza tra nomi singolari e plurali?
Comprendere la differenza tra nomi singolari e plurali è fondamentale per comunicare in modo chiaro e corretto. Aiuta anche a sviluppare le competenze di scrittura e di comprensione dei testi.

Come possono le schede didattiche aiutare gli studenti a imparare i nomi singolari e plurali?
Le schede didattiche offrono esempi pratici e esercizi che insegnano agli studenti le regole di formazione dei plurali in italiano. Attraverso attività di completamento, associazione e creazione di frasi, gli studenti praticano l’uso corretto dei nomi nella loro forma singolare e plurale.

Quali sono le regole principali per formare il plurale dei nomi italiani?
Le regole variano a seconda della terminazione del nome singolare. Ad esempio, nomi che terminano in -o formano il plurale in -i (es. libro → libri), nomi che terminano in -a formano il plurale in -e (es. casa → case), e così via.

Come posso aiutare mio figlio a comprendere meglio i nomi singolari e plurali a casa?
È possibile utilizzare giochi educativi, letture guidate e attività di scrittura che includono l’uso di nomi singolari e plurali. Inoltre, incoraggiare il bambino a riconoscere e discutere esempi di nomi singolari e plurali nella vita quotidiana può essere utile.

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